“SOCKS ON FIRE” DI BO MCGUIRE

C’è una certa retorica nelle rappresentazioni spettacolari del profondo sud degli Stati Uniti che li inquadra in maniera “assoluta”: luoghi dalla forte radice culturale conservatrice, cristiani fino al midollo e insofferenti verso le comunità etniche e queer.

Da qui partono i meriti di Socks on Fire, che sfugge abilmente questa rappresentazione e circoscrive lo stereotipo. O forse lo centra in pieno, rispecchiandone le contraddizioni.

Bo McGuire è il figlio di una coppia di gestori di una Waffle House, è del sud, precisamente di Hokes Bluff in Alabama, è queer, adora pazzamente le eroine southern come Dolly Parton e Reba McEntire, è molto legato alla sua vecchia zia omofoba e a suo zio drag queen e adora muoversi nostalgicamente nei suoi posti, nel suo passato.

Il suo film è una dedica poetica alla sua numerosa famiglia, in particolare alla dolce matriarca venuta a mancare, alla quale tutti erano fortemente legati e che ha lasciato i suoi figli a combattersi l’eredità della casa dove tutti erano cresciuti.

Le modalità sono molto affascinanti: McGuire si muove tra i filmati di famiglia intimi e rivelatori e crea una “falsa” finzione dal sapore volutamente kitsch e grottesco, con attori e messa in scena dei quali vediamo la preparazione e le cure scenografiche; questo gli permette di passeggiare per i propri ricordi, di carezzarli e riviverli in terza persona per ripercorrere il modo in cui la sua identità queer e le vicende dei suoi parenti si sono strutturati.

A questo aggiunge elementi della grammatica classica del documentario come le interviste fatte a sua madre e alle sue insegnanti che rivelano quanto non ci sia stato dolore nella sua infanzia e come quel sud, che per alcuni è stretto e spigoloso, sia stato in realtà accogliente verso la sua queerness.

Il lavoro eccezionale sulle musiche crea un’atmosfera sonora dove si incontrano dei suggestivi ed avvolgenti synth “da paesaggio”, in contrapposizione con il set piuttosto chiuso e oppressivo della casa di famiglia, ma che restituisce lo stato malinconico e pensoso di Bo, e le chitarre folk da rodeo che ci ricordano che ci troviamo comunque nel profondo sud.

In questa personalissima visione documentaristica, tuttavia, la figura del regista risulta forse un po’ invadente, come se Bo si sentisse di appartenere a tutte le memorie ricostruite, lasciando trapelare un eccessivo narcisismo ed esibizionismo che stona nel delicato equilibrio di un film che ha davvero tanto materiale e che quindi necessita di un accurato senso della misura. La narrazione, infatti, parte come una dedica verso la cara nonna ma rischia di perde gradualmente il suo centro.

Roberto Guida

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