“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

Isole Filippine, 1973. I Monzon, una delle dinastie industriali più in vista del Paese, si trova di fronte a un passaggio drammatico: l’anziano patriarca, Servando Monzon III, è in punto di morte a causa di un tumore al pancreas, e il suo erede, il nipote Servando VI, ha il compito di guidare le piantagioni di zucchero di famiglia durante il sanguinoso periodo di repressione vissuto dal Paese sotto la dittatura di Fernando Marcos. Il destino della famiglia finirà con l’incrociarsi con quello di un giovane pluriomicida condannato a morte.

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L’intento di Lav Diaz appare chiaro fin dai titoli di testa: realizzare, come lui stesso sottolinea, un “romanzo-film” a partire dall’omonima opera letteraria della saga familiare firmata dall’autore filippino Ricardo Lee. E. Il film, (presentato fuori concorso alla 79sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia) riprende infatti tutti gli elementi letterari: la stirpe di alto rango al centro del racconto, lo sfondo storico più o meno influente sulle scelte dei protagonisti, l’amore contrastato tra esponenti di classi diverse, i segreti di famiglia che verranno svelati con il procedere della narrazione. Ma Diaz li elabora attraverso lo stile che lo ha reso riconoscibile agli occhi della cinefilia mondiale: fotografia in bianco e nero, inquadrature fisse, tempi dilatati.

Eppure, per buona parte, a farla da padrone è la storia, piuttosto che il modo in cui viene raccontata; una storia di “violenza filippina”, appunto, che si concentra sulle sanguinose vicende di cui si è resa protagonista la famiglia Monzon nel corso dei secoli e che non sembrano trovare un epilogo. In tutto questo, la regia di Diaz, per quanto perfettamente riconoscibile, si configura quasi come invisibile mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, della linearità della narrazione, dei toni melodrammatici delle vicende incarnate dai personaggi, della densità degli avvenimenti.

In alcuni momenti (in verità “pochi” se rapportati alle sette ore di durata), emerge tuttavia la personalità del metteur en scène e il suo respiro: i suoi silenzi, i suoi momenti contemplativi intimi e notturni, poetici, ariosi e quasi estranei alla narrazione; e, soprattutto, l’attenzione per la Storia del suo Paese, la vera protagonista. Attraverso quelle che a prima vista sembrerebbero sviste della post-produzione, come improvvisi abbassamenti e innalzamenti dell’audio, fuori sincrono, fruscii di microfoni sui vestiti, Diaz dà corpo alle crepe della Storia e lascia che si insinuino in mezzo alle immagini rigorose. E sono proprio questi suoni “stonati” a far sentire nel film l’eco della vita vera degli uomini e delle donne che hanno ispirato il racconto.

Alessandro Pomati

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