“RAPITO” DI MARCO BELLOCCHIO

Alla fine è tutto nello sguardo, sembra volerci dire Marco Bellocchio già nei poster e nelle locandine promozionali del suo ultimo film, Rapito, presentato in concorso alla 76sima edizione del Festival di Cannes. Lo sguardo del piccolo Edgardo Mortara (Enea Sala) – sestogenito di una famiglia bolognese ebrea prelevato nel 1858 dall’autorità pontificia perché segretamente battezzato e tradotto a Roma – rivolto verso noi spettatori mentre viene tenuto in braccio da papa Pio IX. Ed è proprio il suo sguardo il cuore del racconto: lo sguardo di un bambino che viene strappato a sei anni dalla sua casa, che del mondo non sa nulla. Specialmente del mondo cristiano. I suoi occhi si soffermano sulle immagini di Cristo, sulle icone che gli vengono continuamente messe sotto agli occhi per trasmettergli più efficacemente la “vera” fede. E l’operazione di conversione infine riesce, tant’è che Mortara avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni da missionario.

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Nel suo presentarsi come la trasposizione di uno dei fatti di cronaca più importanti della storia d’Italia, Rapito si configura anche e soprattutto come un’efficace analisi sul potere delle immagini. Al loro fascino non è immune neanche l’altra figura-cardine della vicenda, il papa re Pio IX (interpretato da un mefistofelico Paolo Pierobon), terrorizzato dalle vignette anticlericali che lo ritraggono come un “ladro di bambini”. Eppure, egli persevererà sulla sua linea fino alla breccia di Porta Pia in modo febbrile e miope (tant’è che le locandine escludono simbolicamente il suo taglio degli occhi).

Sono tanti altri poi gli elementi che Bellocchio mette in campo in questa sua ultima fatica: temi a lui cari come il trionfo dell’irrazionale e dell’incubo, la pervasività della religione cristiana che all’epoca tutto si poteva permettere (mentre già nel secolo successivo era già più debole e oggetto di scherno proprio per il regista emiliano) e l’importanza della figura materna (che in questo caso è duplice, in quanto è rappresentata dalla madre naturale di Edgardo e dalla “misericordiosa” madre Chiesa). Altri, invece, inediti come il confronto con il mondo dell’infanzia, con il suo candore e la sua delicatezza (non è difficile vedere in Edgardo e negli altri piccoli rapiti degli “antenati” dei protagonisti di Nel nome del padre).

Tutto questo al servizio di una storia che è all’origine di molte cose: delle istanze anticlericali alla base del Risorgimento; dei contrasti sempre maggiori tra le fedi. Addirittura, è anche all’origine del nostro cinema dal momento che, idealmente, Bellocchio sul finale del film rifà La presa di Roma di Filoteo Alberini. Ma , soprattutto, è la storia di uno sguardo, quello di Edgardo, che si ritroverà a non avere nulla su cui fissarsi.

Alessandro Pomati

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