“ANIMALI SELVATICI” DI CRISTIAN MUNGIU

Animali Selvatici – l’ultimo lungometraggio del cineasta romeno Cristian Mungiu, presentato in concorso al Festival di Cannes del 2022 – si apre con un’apparente e spiazzante contraddizione: nessun titolo di testa, nessun preambolo; solo una delle inquadrature a macchina fissa a cui ci ha tanto abituati nelle sue pellicole precedenti, che si focalizza su un bambino che esce di casa per andare a scuola. Dopo uno stacco di montaggio, la macchina da presa segue di spalle il bambino mentre attraversa il bosco dietro casa: lo sorpassa e si immobilizza nel momento in cui si ferma anche il bambino, il cui sguardo si è posato su qualcosa fuoricampo tra i rami alti degli alberi. Stacco al nero, cominciano a scorrere i titoli di testa. Più che in medias res, si dovrebbe parlare in questo caso di un incipit in medium nullum.

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Mungiu sembra avvertirci già dal prologo che rispetto a ciò che non vediamo, dovremmo prestare più attenzione a quello che ci sta di fronte. Ma, nel film, sono ben pochi i personaggi che sembrano abbracciare questa scuola di pensiero: siamo in un villaggio montano della Transilvania, la cui economia ruota attorno alla locale fabbrica di panetteria. È una regione del Paese dove convivono etnie diverse: romeni, ungheresi e tedeschi. È un melting pot già collaudato, a dire degli abitanti, dove non c’è bisogno di aggiungere niente di nuovo. Ma siamo nell’epoca della globalizzazione, ed è quindi inevitabile che anche qui il resto del mondo venga a bussare alla porta. Nello specifico, l’arrivo di due operai dello Sri Lanka nella fabbrica provoca prima malumori e poi violenza.

In un primo momento, Mungiu ci trae in inganno: per la prima metà del film i suoi piani-sequenza appaiono privi di una vera ragione d’essere. Ma, man mano che la situazione nel villaggio si riscalda, ecco che essi cominciano ad assumere una valenza non tanto nel catturare gli scoppi più eclatanti di violenza, quanto nel cristallizzare quei momenti in cui essa serpeggia soltanto pur suscitando più sconcerto dello scoppio di una qualunque bomba: i confronti tra i cittadini su quale debba essere la sorte dei due operai, dove emerge tutta la meschinità e infamia di cui tante volte abbiamo letto nei giornali, e tutte le scene corali che catturano il nostro presente con le sue fragilità e le sue piccole e grandi ipocrisie.

“R.M.N.” è il titolo originale della pellicola; un titolo che sembra suggerire un’idea di mantenimento dello status quo, nonostante la assenza di alcuni elementi (le vocali del nome Romania). Lo stato dell’arte è questo, sembra dirci Mungiu, cercare di cambiare le cose è inutile; anche perché poi gli animali selvatici vengono a prenderti. Una volta il cinema civile aveva lo scopo di suscitare l’indignazione verso una situazione contro cui gli umili ma virtuosi cittadini non potevano ribellarsi; oggi, dobbiamo provare indignazione anche per noi stessi. Senza volgere lo sguardo verso il fuori-campo.

Alessandro Pomati

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