“LES CHAMBRES ROUGES” DI PASCAL PLANTE

Si sa, il cinema è fatto di immagini e parole. Queste però non devono per forza essere in sintonia; possono anzi contraddirsi, scontrarsi, delle volte addirittura annullarsi, lasciando così lo spettatore nel pieno di pensieri sconnessi, di riflessioni incontrollate, di teorie istintive. Alla costante ricerca di uno spazio ospitale che permetta di accogliere e dipanare i propri dubbi, in questi casi il pubblico trova nell’opera filmica non uno strumento grazie al quale arrivare a una conclusione, ma al contrario un luogo dove il peregrinare alla ricerca di una soluzione non è solo concesso, ma addirittura obbligato.

Alla 23esima edizione del ToHorror Fantastic Film Fest, Pascal Plante pone gli spettatori in questa precisa ambiguità: Les chambres rouge, un thriller-legal-drama tanto affilato quanto attuale, racconta il processo a Ludovic Chevalier – accusato di aver rapito, seviziato, filmato e ucciso nel suo garage tre giovani studentesse – dal punto di vista della bellissima e agghiacciante Kelly-Anne, giovane modella e abile giocatrice d’azzardo, e da quello di Clementine, groupie dell’assassino, pronta a negare l’evidenza pur di difendere il suo innamorato.

Il regista si dimostra estremamente abile nello sfruttare un caso legale tanto spinoso per discutere della condizione spettatoriale e dell’ossessivo rapporto con la realtà virtuale. Quali delle due fattispecie è peggiore: la strenua volontà di ricercare morbosamente immagini terribili e poi rinunciarci solo per non essere vittime di una società che prima produce e poi condanna queste fonti audiovisive, oppure rispondere a questi impulsi malsani e scavalcare ogni limite per raggiungere quel benessere voyeuristico dettato da un bisogno socialmente disdicevole e individualmente irrefrenabile?

Questa l’antinomia insondabile su cui il film è costruito. Un contenuto scomodo e disagevole, una questione irrisolta e probabilmente irrisolvibile, che trova nel rigoroso progetto formale dell’opera un calibrato corrispettivo alla sostanza narrativa. L’ultima fatica del regista canadese è infatti sostenuta da monologhi interminabili e piani sequenza virtuosistici che, lungi dall’essere una sterile dimostrazione di padronanza degli strumenti del linguaggio cinematografico, risultano l’unica modalità possibile attraverso cui proporre una sfida al pubblico, costringendolo a un’analisi più profonda del singolo episodio giudiziario cui è testimone, invitandolo a sviluppare una propria valutazione su un argomento così delicato e insieme necessario.

Davide Gravina

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