A class in its last year of high school, a wild party in a remote cottage in the woods of Lithuania, a masked serial killer. These few elements are enough for any horror connoisseur to guess where Jonas Trukanas will take us with the narrative of Pensive, his first work competing in the “Crazies” section of the 40th edition of the Torino Film Festival.
The Fire Within is a film that focuses less on Herzog’s interest in volcanoes – already demonstrated in La Soufrière (1977) and Into the Inferno (2016) – than on the work of Katia and Maurice Krafft. A requiem, as the subtitle suggests, that revolves around the death of the two famous volcanologists while they were closely studying those giants towards which they felt a real obsession.
“Huesera”, in Spanish, refers to an expert in treatment of bones and joints diseases. The term, however, also designates The Woman of the Bones, a figure from Mexican mythology whose task is to gather the bones of the dead, symbol of the vital force that doesn’t wear out, and to pray until flesh returns to inhabit those remains, recreating life from disjointed parts. The bones of Valeria (Natalia Solián), in Huesera, constantly creaking, because getting her fingers and the joints of her back crinckled is the protagonist’s way of trying (and not always succeeding) to drain its discomfort out of the body, her frustrations, her ineptitudes. Tormenting Valeria is the awareness that she will soon be a mother: a motherhood apparently sought after, but intimately unwanted.
“Huesera”, in spagnolo, indica la persona esperta nel trattamento delle malattie delle ossa e delle articolazioni. Il termine, però, designa anche La Donna delle Ossa, figura della mitologia messicana il cui compito è di radunare le ossa dei defunti, simbolo della forza vitale che non si consuma, e di pregare finché la carne non torna ad abitare quei resti, ricreando la vita da parti disgiunte. Le ossa di Valeria (Natalia Solián), in Huesera, scricchiolano continuamente, perché farsi scrocchiare le dita delle mani e le giunture della schiena è il modo con cui la protagonista prova (e non sempre riesce) a drenare fuori dal corpo il suo malessere, le sue frustrazioni, le sue inettitudini. A tormentare Valeria è la consapevolezza che sarà presto madre: una maternità apparentemente ricercata, ma intimamente non voluta.
Godland, ultimo film di Hlynur Pálmason, già vincitore della sezione lungometraggi del Torino Film Festival con A white, white day (2019), è una storia di frontiera, il racconto di un prete e fotografo danese (Helliott Crosset Hove) costretto a percorrere l’impervio territorio islandese per raggiungere un villaggio della costa sud-occidentale e costruirci una chiesa. Della spiritualità religiosa, tuttavia, rimane solo il corpo – la carne del mondo nella sua ineluttabile decomposizione. Una spiritualità, quindi, costantemente rigettata nella visceralità delle carni animali, nella trivialità del fango fuori dalle chiese e nell’imprevisto volo di una mosca sul volto senza macchia di un prete.
Article by: Federico Lionetti
Translated by: Noemi Zoppellaro
Godland, the latest film by Hlynur Pálmason, already winner of the feature film section of the Torino Film Festival with A white, white day (2019), is a frontier story, an account of a Danish priest and photographer (Helliott Crosset Hove) forced to travel across the impervious Icelandic territory in order to reach a village on the southwest coast and to build a church there. However, it is only the body that remains from the religious spirituality – the flesh of the world in its inevitable decomposition. A spirituality, therefore, that constantly falls into the viscerality of the animal flesh, into the triviality of the mud outside the churches and into the unexpected flight of a fly on the spotless face of a priest.
Godland, ultimo film di Hlynur Pálmason, già vincitore della sezione lungometraggi del Torino Film Festival con A white, white day (2019), è una storia di frontiera, il racconto di un prete e fotografo danese (Helliott Crosset Hove) costretto a percorrere l’impervio territorio islandese per raggiungere un villaggio della costa sud-occidentale e costruirci una chiesa. Della spiritualità religiosa, tuttavia, rimane solo il corpo – la carne del mondo nella sua ineluttabile decomposizione. Una spiritualità, quindi, costantemente rigettata nella visceralità delle carni animali, nella trivialità del fango fuori dalle chiese e nell’imprevisto volo di una mosca sul volto senza macchia di un prete.
«La storia è importante». Lo sa bene il vecchio Roger Sharpe (Dennis Boutsikaris), narratore, non del tutto affidabile, della vicenda che lo ha reso famoso in tutti gli Stati Uniti d’America e, collateralmente, della sua storia d’amore con Ellen (Crystal Reed): queste le due anime che si incontrano nell’ultimo film di Austin e Meredith Bragg, presentato fuori concorso alla 40esima edizione del Torino Film Festival.
A neat line of shops appears on screen, billboards sparkle on the walls and the vibrant technicolour of the Sixties almost gives us a sense of peace. It looks like a typical post-war American city, quiet and geometric, maybe too much. The narrating voice asks, “What are we looking at?” and a doubt awakens in us: the buildings are as fake as panels of a set design, the roads look as if they’ve never been walked on, the paint on the signs is new and shiny. This is Riotsville, one of the fake cities built by the American government in the Sixties as military training bases. In these cities, crowds of plain-clothes soldiers staged riots, complete with an audience and cheers, so that their colleagues could learn how to contain them, all in preparation for the civil rights protests that would unleash in the Summer.
Una fila ordinata di piccoli negozi appare sullo schermo, i manifesti pubblicitari scintillano sui muri e il vibrante technicolor anni Sessanta ci dà quasi un senso di pace. Sembra una tipica città americana del dopoguerra, tranquilla e geometrica, forse troppo. La voce narrante chiede “Che cosa stiamo guardando?” e desta in noi un dubbio: gli edifici sono finti come i pannelli di una scenografia, le strade sembrano non essere mai state calpestate, la vernice delle insegne è fresca e brillante. Si tratta di Riotsville, una delle finte città costruite dal governo americano negli anni Sessanta come basi di addestramento militare. In queste città, folle di militari in borghese mettevano in scena, con tanto di pubblico e applausi, vere e proprie rivolte affinché i loro colleghi potessero imparare a contenerle in vista delle proteste per i diritti civili che si sarebbero scatenate in estate.
Michi (Chieko Baishô) evokes memories of her past over the phone: she goes through her life with great melancholy, and she appears grateful to have someone to listen to her. Nothing but her own voice can be heard in her kitchen. On the end of the phone, we find Yoko (Yumi Kawai). She is much younger than her and she remains silent. Even though she would be interested in the old woman’s story, her head is elsewhere. A sudden alarm interrupts Michi’s flow of words: her time is up. Yoko is holding back tears. Eventually Yoko explains to her what will happen the next day and she keeps begging her not to do “it”. Michi hushes “Sayonara.”
Carlos hangs up the phone and leans against the wall. His eyes are glazed over and he would like to vent but he doesn’t because, as he says, “men don’t cry.” This is the conflict that Un Varón, Fabian Hernández’s new film, sets out to investigate: that of a young man who tries to conform to the ideal of masculinity that prevails on the streets of Bogotá while in private he just wants to be himself. Christmas is approaching and his only wish is to spend it with his increasingly elusive sister and his mother, who is in jail. Leaving the youth center that took him in, he finds himself coming to terms with street life and the law of the alpha male.
At the University of Turin, on 29 and 30 November, the study conference “Being an actor. Paths and dialogues on training and acting” organized by the “F-ACTOR” project in collaboration with UniVerso and curated by Professor Mariapaola Pierini was held. The conference is part of the research plan of the “F-ACTOR” project, dedicated to the mapping of the actor’s profession in the contemporary Italian media scenario, according to methodologies and study perspectives that refer to performance studies, studies on stardom and media production studies.
Presso l’Università di Torino, il 29 e il 30 novembre si è tenuto il convegno di studi “Fare l’attore. Percorsi e dialoghi su formazione e recitazione” organizzato dal progetto “F-ACTOR” in collaborazione con UniVerso e curato dalla professoressa Mariapaola Pierini. Il convegno si inserisce, appunto, nel piano di ricerca del progetto “F-ACTOR”, dedicato alla mappatura della professione dell’attore nello scenario mediale italiano contemporaneo, secondo metodologie e prospettive di studio che fanno riferimento ai performance studies, agli studi sul divismo e ai media production studies.
The Fire Within è un film che non si concentra tanto sull’interesse di Herzog per i vulcani – già dimostrato in La Soufrière (1977) e Into the Inferno (2016) – quanto sull’opera di Katia e Maurice Krafft. Un requiem, come suggerisce il sottotitolo, che ruota attorno alla morte dei due celebri vulcanologi, mentre studiavano da vicino quei giganti verso cui provavano una vera e propria ossessione.
“Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato” Genesi 22:3
Il racconto biblico dimostra che Abramo, mosso da una grande fede, non ebbe esitazioni. Leonid però è pagano, Leonid non crede. E pur di offrire il futuro migliore alla propria progenie è disposto a trasgredire norme etiche e leggi umane, arrivando di conseguenza a sfidare Dio.
Il 4 agosto 2020 una tremenda esplosione distrugge il porto di Beirut causando 220 morti e 7000 feriti. Solo un giorno prima il regista Karim Kassem arrivava in città – proprio nella zona portuale – per girare un lungometraggio che non girerà mai, Octopus. Al suo posto questo Octopus: resta il titolo ma è un film completamente diverso. È il lamento sinfonico di una città rimasta senza voce.
Carlo Rivolta was a young talent of Italian journalism during the ’77 protest movements, a figure unknown to most, yet capable of describing firsthand the upheavals of this historical period. The crisis of ideologies, the internal clashes of the movement and, above all, the spread of heroin that condemned him, and an entire generation, to an untimely demise.
Carlo Rivolta è stato un giovane talento del giornalismo italiano durante i movimenti di protesta del ’77, una figura sconosciuta ai più, capace però di descrivere in prima persona i rivolgimenti di questo periodo storico. La crisi delle ideologie, gli scontri interni del movimento e, soprattutto, il dilagare dell’eroina che ha condannato lui, e una intera generazione, alla scomparsa prematura.
The main difference between us and History is that History does not speak, but we force it to do so. What would happen, however, if it looked us in the face, took us by the hand and started making small talk, telling us about its regrets and pipe dreams? This is exactly what Aleksandr Sokurov’s “Fairytale” aims for: to make History speak spontaneously, quietly and with a hint of humour.
Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini and Winston Churchill find themselves reunited in the afterlife, chatting as they wander through a dark, foggy forest, waiting for the gatekeeper to decide whether to let them into heaven. What about the content of these conversations? Despite their different languages, they mock each other while asserting their political and social ideals. Their speeches focus on their private dimension and therefore erase the aura given by their public function and by History itself. Words thus serve as a tool to reconcile the different points of view and as an attempt to overcome the past and the crystallised image we have of these historical figures. Built through archive footage and without the use of deep-fakes or other artificial intelligence tools, the film calls into question the relationship with reality, verisimilitude, memory and the demythologisation of these personalities. This is an objective that could not have been pursued by using actors to replace the faces, bodies and gestures that changed history. Moreover, the voices lent to the protagonists are perfectly given through an excellent lip-sync that breathes life into the faded images shrouded by the misty reminiscence of the past.
Sokurov seeks to make sense of the challenges that mankind is facing nowadays by taking a step back and lingering on the figures who most shaped the reality we know, namely the protagonists of World War II, the main event that eradicated positivist beliefs about human progress. Trying to empathise with figures such as Hitler and Stalin is the arduous task proposed to the viewer, who through this process realises that behind every historical event, even the most terrible and evil, there are men.
Presented and competing at the fortieth edition of Torino Film Festival, and already winner of the Camera d’Or at Cannes, competing in the Un Certain Regard section, War Pony marks the directing debut of actress Riley Keough and producer Gina Gammell, featuring an inspiring portrait of the Native American community, directly involved in the making of the film.