Us and Them, titolava una canzone dei Pink Floyd. Letteralmente, “Noi e loro”. Si parla molto di questo rapporto “pronominale” in Bombshell di Jay Roach, un rapporto da intendersi in chiave prettamente temporale: i “noi” siamo gli spettatori del 2020, ma chi sono i “loro” rappresentati sullo schermo?
Siamo nell’America del 2015, nel pieno delle primarie del Partito Repubblicano, quelle che avrebbero incoronato Donald Trump come candidato alla Presidenza. Tanti sono gli americani che stanno seguendo l’evento, ma uno di loro vi si sta dedicando più degli altri: il suo nome è Roger Ailes (John Litgow), amministratore delegato di Fox News, canale che egli gestisce con piglio da Grande Fratello orwelliano secondo il mantra: “Un network è come una nave: se molli un attimo la presa sul timone, questa vira a sinistra”.
A qualche anno di distanza da Spring Breakers, Harmony Korine torna in Florida – intensa come un possibile sintesi dei miti e del modus vivendi americani – con The Beach Bum, film che evidentemente intrattiene significativi legami con il precedente.
Non ricordo chi disse che bastano i primi tre shot per capire se un film sarà bello o meno. Tre shot. S’intende che la regola non funziona sempre – se no che regola sarebbe?- ma in tempi come questi, dove la produzione cinematografica si è così così saldamente consolidata nei suoi ritmi da essere più praticata della scrittura stessa, ecco, una buona regia equivale a una scrittura pulita, addomesticata quanto basta per non essere sbagliata. Tutti sanno scrivere; e tutti i buoni registi sanno girare tre buoni shot iniziali. Puliti, impeccabili, disponibili allo sguardo di lettori/spettatori ammaestrati. Per questo la regola non funziona sempre: capitano film sapientemente girati dall’industria, editrice di questo palinsesto consolidato dell’arte dell’intrattenimento video, che nonostante i tre, quattro, cento buoni shot, rimangono film patetici, inutili, o utili solo a distrarre. Avevo quindi rinunciato alla regola: troppo poco affidabile perché non mi aiutava a capire se un film meritasse di essere visto o meno. Poi ho rivisto i primi tre shot di The Lighthouse una ventina di volte e la regola ha riacquistato valore.
Partiamo dal presupposto che Ryan Murphy non sa stare con le mani in mano: è dal 1999 che su qualche canale TV – e ora sulle piattaforme on demand – è possibile imbattersi in una delle tante serie che ha prodotto. L’hai trovato per caso nello zapping da seconda serata con Nip /Tuck e hai spulciato i siti di streaming pirata per scoprire i retroscena della faida tra Bette Davis e Joan Crawford; l’hai maledetto quando non riuscivi a dormire dopo una puntata di American Horror Story e hai cercato conforto nelle canzonette in playback del Glee club. E così continuerà a essere, perché nel 2018 ha firmato un accordo da trecento milioni con Netflix che lo lega alla piattaforma per cinque anni.
“Il mare è amaro”, sentenziava uno dei personaggi de La terra trema di Luchino Visconti. E pare essere questo il leitmotiv che scandisce Atlantique, lungometraggio d’esordio dell’attrice francese Mati Diop, premiato allo scorso Festival di Cannes con il Gran Premio della Giuria.
L’azione si svolge a Dakar, capitale del Senegal: una torre dalle linee architettoniche ultramoderne svetta alta e ingombrante sulla città, avvolta nella nebbia dell’Oceano Atlantico. Alla base dell’edificio, un gruppo di operai lavora al complesso abitativo che dovrà sorgere attorno a esso. Uno di questi, Souleiman, ha una relazione clandestina con Ada, promessa sposa a Omar, l’imprenditore che ha dato vita al progetto della torre.
Les Misérables di Ladj Ly condivide con Les Misérables di Victor Hugo non solo il titolo e l’ambientazione, ma anche la capacità di raccontare una condizione di desolazione e brutalità attraverso un’opera capace di trasmettere un messaggio universale. Non possiamo sapere come Hugo avrebbe rappresentato il suo tempo se avesse avuto una macchina da presa, ma quello che vediamo sullo schermo è un nuovo tentativo di raccontare la povertà, materiale e non. Ly raccoglie il lascito di un capolavoro letterario senza sfruttarlo né rinnegarlo, ma rivitalizzandolo in un film che, con un linguaggio asciutto e preciso, porta una pulsione sotterranea davanti all’obiettivo e sotto la luce dei riflettori della Croisette del Festival di Cannes, dove è stato insignito del Premio della Giuria nella scorsa edizione.
Una overdose di contenuti audiovisivi. Se dovessimo ripensare agli ultimi due mesi ci accorgeremmo di aver consumato praticamente tutto il visibile nello spettro dei supporti video e delle piattaforme streaming, senza dimenticare gli abbonamenti premium dei siti per adulti, gratuiti a tempo limitato. Noi poi, che il cinema lo studiamo e che di cinema ci nutriamo, abbiamo fatto un’indigestione particolarmente violenta: dai classici “da recuperare” ai film da vedere per gli esami, da quelli che se non lo vedo ora, non lo vedrò mai più a tante, tante serie TV. Dal 20 aprile è disponibile su Netflix The Last Dance, docu-serie sportiva in dieci episodi che prende le mosse dalla stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls, l’ultima di Michael Jordan nella città del vento, e ripercorre l’epopea vincente della squadra e dei suoi sei titoli NBA.
Presentato nella sezione Alice nella Città della Festa del Cinema di Roma e vincitore del premio Raffaella Fioretta come miglior opera prima italiana, Buio è il lungometraggio d’esordio di Emanuela Rossi, uno dei primi film in uscita VOD nella sala virtuale di Mymovies.
Nella Berlino del 1929 personaggi ambigui e vicende grottesche si intrecciano durante gli ultimi, tumultuosi anni della Repubblica di Weimar. Tratta dai romanzi noir di Volker Kutscher e prodotta da Sky Deutschland in collaborazione con X-Filme Creative Pool, Beta Film e Degeto Film, la serie, iniziata nel 2017, è giunta quest’anno alla sua terza stagione. Trasmessa in Italia sul canale Sky Atlantic e disponibile su Sky On Demand.
Favolacce è stato definito una favola nera, ma ciò che si realizza compiutamente in questo film è un mosaico in cui realtà e finzione si sovrappongono l’una all’altra, diventando un mondo a sé. I fratelli D’Innocenzo lo hanno scritto molti anni fa, ma il film risulta estremamente attuale mostrando, in modo del tutto inaspettato, come la crisi contemporanea abbia radici lontane e oscure.