“KRISTINA” di NICOLA SPASIC

Con molta delicatezza, Nikola Spasic ci racconta una storia in perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Un racconto per immagini iniziato sei anni fa con l’obiettivo di realizzare un’opera il cui centro narrativo fosse un soggetto forte. La protagonista di questa storia, Kristina, è una donna transgender che colleziona oggetti di antiquariato, ama i gatti e vive in una casa dal design ricercato ed elegante. Un ambiente, questo, completamente in contrasto con il suo lavoro. La donna, infatti, è una sex worker ma la sua professione non è il fulcro di ciò che vediamo sullo schermo. Quella che ci viene mostrata è una quotidianità perfettamente scandita e organizzata che pare quasi disturbata dagli incontri con i clienti. E ciò che rende più significativo e interessante il film di Spasic è il fatto che Kristina non sia un personaggio recitato da un’attrice professionista, bensì una persona reale alla quale il regista e la sceneggiatrice si sono voluti ispirare per costruire il film. 

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A differenza di ciò che ci si potrebbe aspettare, il sesso è un elemento esterno al film, sostituito dalla grande fede e spiritualità di Kristina. Molto significativo è l’incontro con Marko, un ragazzo conosciuto per caso e nel quale la protagonista continuerà a imbattersi ripetutamente, al punto da indurla a domandarsi se la presenza dell’uomo sia reale o il frutto della sua immaginazione. Durante un appuntamento i due hanno un dialogo intenso che li porta a confidarsi l’uno con l’altra e a parlare della loro fede. E con un gioco di campo-controcampo che, durante la scena, non li inquadra mai insieme, anche nello spettatore comincia a sorgere il dubbio sull’effettiva esistenza di Marko.

Kristina si rivela il luogo d’incontro tra la messa in scena e l’autenticità umana. Un omaggio a una vita “diversa” che trova la sua massima espressione nella scena finale, quando lo spettatore si trova a riflettere mettendo inevitabilmente in discussione anche sé stesso. Attraverso lo sguardo creativo del regista, Kristina diventa una persona alla quale è stata restituita appieno la propria dignità. 

Gaia Verrone

Articolo uscito su «la Repubblica» il 2 dicembre 2022

“URBAN MYTHS” DI WON-KI HONG

La 40° edizione del Torino Film Festival apre le porte alle nuove tendenze del cinema horror attraverso una sezione competitiva: “Crazies” – sentito omaggio all’omonimo film cult di George A. Romero – si pone come obiettivo l’esplorazione di nuovi linguaggi carichi di alta tensione. Il crazy che ha inaugurato la categoria parte dal principio, indagando le leggende che alimentano i nostri incubi quotidiani: attraverso dieci racconti a sé stanti, Urban Myths dà spazio a quelle storie di paura che ci raccontavamo da bambini e ci facevano subito sentire “grandi”. Ma libera anche quelle ingombranti presenze di cui, una volta cresciuti, non riusciamo a disfarci. I cortometraggi racchiusi all’interno del film indagano l’emarginazione della vita urbana in un’ottica terrificante: perseguitati dal proprio passato, i cittadini di queste città desolate non hanno altro confronto se non con i morti. 

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“THE WOODCUTTER STORY” DI MIKKO MYLLYLAHTI

“Mi chiedo perchè il realismo venga circoscritto esclusivamente alla percezione del mondo in stato di veglia. Il sogno che ho fatto stanotte è parte della mia realtà tanto quanto il mio qui e ora”, spiega Mikko Myllylahti in merito al suo esordio come regista in The Woodcutter Story. La sua esplorazione di impressioni oniriche, immerse in un’atmosfera percossa da brividi esistenziali kafkiani, mette in scena dei personaggi stoici, seppur caricaturali, e saturati almeno quanto lo sono i colori che brillano sullo sfondo innevato di un’ambientazione anonima e atemporale. 

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La sceneggiatura si esprime, oscillante come un pendolo, per esitazioni, silenzi sospesi e dialoghi asciutti ma perentori e iperbolici, restituendo un clima assurdo dalla comicità spiazzante e inattesa. Un umorismo inevitabile, quello di Myllylahti, impiegato come meccanismo di difesa universale nell’affrontare i più grandi interrogativi filosofici. Il protagonista, Pepe, è un taglialegna affabile e inspiegabilmente ottimista la cui quiete e stabilità verranno messe a dura prova dalle più travolgenti avversità. Ma non è il solo: ciascuno dei personaggi satellite è alle prese con le proprie peripezie, che ostacolano inevitabilmente il loro percorso verso il tanto ricercato quanto fugace senso delle cose. Questo film, che si dimostra essere al contempo serio e ironico, metaforico e d’intreccio, immortala questi avvenimenti apparentemente effimeri con inquadrature che ci tengono a distanza, inasprendo l’estraniazione tra noi e i moventi dei personaggi. Anche in virtù di ciò il costume design assume un ruolo determinante, in particolar modo per permetterci di riconoscere il taglialegna, anche in un campo lunghissimo.

Una rielaborazione fiabesca e laica del Libro di Giobbe che, invece di prendere in esame il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza del male nel mondo, si interroga su come si possa resistere al nichilismo e trovare la forza di confidare nell’avvenire in un mondo il cui significato sembra essere stato da tempo deturpato. Non si tratta più di trovare, dunque, una verità univoca e rassicurante, ma di dare respiro all’ambiguità e accogliere le prospettive dell’assurdo per poter scorgere sfaccettature del reale che altrimenti avremmo ignorato. Potremmo quindi riconoscere in Pepe l’ingenua sintesi tra la perseveranza di Sisifo e il successo del Viandante sul mare di nebbia che, pur raggiungendo la cima della montagna, vi trova una visuale offuscata.

Yulia Neproshina

“CINQUE UOMINI, UN DIARIO AL DI LÀ DELLA SCENA” DI COSIMO TERLIZZI

Antonio, Abder, Bartek, Boubacar e Dorin sono i protagonisti del nuovo documentario di Cosimo Terlizzi che, attraverso un collage di vecchi filmati amatoriali, ci restituisce un frammento dell’intimità e della vita dei cinque attori. Un’opera intima che testimonia ciò che accade lontano dal palcoscenico e dai riflettori, rappresentando la vita dell’attore nel momento in cui non sta più mettendo in scena la sua arte.  

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“Non sono bravo a filmare e ancora meno a parlare davanti all’obiettivo, ma ho deciso di fare un diario della tournée per registrare i sentimenti e i dubbi al di là della scena”, queste sono le prime parole dette in camera da Antonio quando, nel 2008, decidee di filmare i suoi compagni di scena durante la tournée del loro spettacolo, Cinq Hommes, immortalando viaggi in treno, passeggiate notturne e, soprattutto, i momenti condivisi nel camerino e dietro le quinte. Nel corso documentario siamo accompagnati dalla voce in voice over di Antonio che ci narra ciò che stiamo vedendo, trasportandoci all’interno delle immagini.  

Quello realizzato da Terlizzi, in soli 62 minuti, è un omaggio alla figura dell’attore, mai disgiunta però dalla sua condizione di uomo. Questo consente allo spettatore di entrare in punta di piedi nel camerino e di osservare la gioia, la soddisfazione, la delusione e la frustrazione che i cinque uomini hanno vissuto insieme. La scelta di lasciare riprese e sonoro al loro stato amatoriale è in grado di donare al girato un valore aggiuntivo, trasmettendo in chi guarda quella nostalgia che si prova nel rivedere immagini del passato.  

Protagonista indiscusso del documentario, però, è il camerino. Un luogo di passaggio, fisico ma immateriale. Un “non luogo” all’interno del quale tutto si muove nell’ombra e nel silenzio. Lo spettatore viene così invitato in quello spazio del quale conosce l’esistenza ma che, allo stesso tempo, gli è sconosciuto. Un luogo privato, che esclude lo sguardo esterno nel quale siamo invitati a entrare solo grazie all’obiettivo di Antonio.  

Gaia Verrone

CARLOS VERMUT

Finalmente Carlos Vermut è arrivato in Italia. A porre fine alla colpevole miopia nei confronti del suo cinema, riservatagli dalla distribuzione e dai festival italiani, ci ha pensato il Torino Film Festival. Fiore all’occhiello di questa quarantesima edizione, la personale dedicatagli conferma la grande capacità del festival torinese di far scoprire al pubblico italiano cineasti pressoché sconosciuti ma sicuramente meritevoli di mostrare il proprio lavoro a una platea più ampia possibile. Nel caso del cinema del giovane regista spagnolo vale anche l’opposto: non solo egli è sicuramente degno di essere scoperto, ma il pubblico stesso merita di assaporare le sue opere, in quanto rari esempi, nel panorama odierno, di film capaci di coinvolgere gli spettatori, senza però trascurare uno studio attento e approfondito della società odierna.

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“FUMER FAIT TOUSSER” BY QUENTIN DUPIEUX

Article by: Davide Gravina

Translated by: Rachele Pollastrini

Yes, Quentin Dupieux has done it again. After the killer tyre in Rubber (2010), the jacket in Deerskin (2019) and the fly in Mandibles (2020), this time it is some eccentric horror stories – not very scary actually, rather pleasantly hilarious – that wring big laughs and dominate the scene in the latest film by one of the most absurd and paradoxical authors of contemporary cinema.

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“FUMER FAIT TOUSSER” DI QUENTIN DUPIEUX

Ebbene sì, Quentin Dupieux ci è riuscito ancora. Dopo lo pneumatico assassino di Rubber (2010), la giacca di Doppia pelle (2019) e la mosca di Mandibules (2020), questa volta sono alcuni eccentrici racconti dell’orrore – poco spaventosi a dir la verità, anzi piacevolmente spassosi –  a strappare grasse risate e a dominare la scena dell’ultimo film di uno degli autori più assurdi e paradossali del cinema contemporaneo.

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“PROJECT WOLF HUNTING” BY KIM HONG-SUN 

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Giuseppe Catalano

There’s nowhere to run

A group of extremely dangerous Korean criminals leave the port of Manila on a hyper-secured cargo ship to return home, where they will finally be tried for their crimes. What could possibly go wrong? 

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“PROJECT WOLF HUNTING” DI KIM HONG-SUN 

“There’s nowhere to run” 

Un gruppo di criminali coreani estremamente pericolosi parte dal porto di Manila, su una nave da carico iper-sorvegliata, per rientrare in patria, dove saranno finalmente giudicati per i loro crimini. Cosa potrà mai andare storto?  

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“HIGH NOON: RETROSPECTIVE ON B-WESTERNS”

Article by: Luca Giardino

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

The 40th edition of the TFF is covered in stars and stripes in the new retrospective on western cinema: the festival’s director – Steve Della Casa is a great fan of the genre – could only pay homage to some films of this fundamental strand in American production from 1938 to 1960.

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The films in question, however, have nothing to do with the great auteurs of the Hollywood western, in this case replaced by skilled tradesmen such as Joseph H. Lewis and Alfred “Al” Green, cornerstones of the industry and prolific creators of b-movies. Thematically too, there was a desire to find a common thread linking the various titles in the section: extravagance and uniqueness are the two terms that guided a careful selection of the most unknown and forgotten films of American cinema par excellence.

Shotgun (1955) di L. Selander.

But what is western cinema without its heroes? Sometimes ‘knights without blemish and without fear’, other times men torn apart by a dark past. In High Noon, the heroes are nothing more than anomalous characters at the mercy of the narrative, which transports them – willingly or unwillingly – to new and painful frontiers: this is the case of Henry Carson (Van Johnson) in R. Rowland’s rural The Romance of Rosy Ridge (1947) where we are presented not with a restless cowboy, but with a romantic and mysterious vagabond who settles in the house of Southerner Gill MacBean (Thomas Mitchell), the father-master of the beautiful Lissy (Janet Leigh).

The same could be said for Four Faces West (1948) directed by Al Green where we find Joel McCrea as Ross McEwan, a bandit with a heart of gold on the run from the infamous – but more harmless than his classic portrayal – sheriff Pat Garrett. Not a single shot is fired throughout the film: this is unnecessary, since our outlaw is actually a good and generous man who gives the money he stole to his financially struggling father and helps a needy Mexican family afflicted with diphtheria.

Four Faces West (1948) di Alfred Green.

The absence of duels in Green’s film is compensated for by J. H. Lewis’ Terror in a Texas Town (1958), in which guns are loaded and fired, but when firearms are not enough, harpoons and forges worthy of a Melville novel appear in the anomalous final confrontation between the one-armed gunman Johnny Crale (Nedrick Young) and the vengeful George Hansen (Sterling Hayden).

The section dedicated to B-westerns reserved some curious rediscoveries and courageous revivals such as S. Newfield’s The Terror of Tiny Town (1938), a musical played entirely by dwarf actors, but also more sober films in Technicolor such as R. Enright’s Coroner Creek (1948) and L. Selander’s Shotgun (1955). In short, High Noon took spectators on an atypical journey through the festival trails, offering genre lovers unmissable appointments with the theatre and the most unusual stories of the American frontier.

MEZZOGIORNO DI FUOCO: RETROSPETTIVA SUI B-WESTERNS

La quarantesima edizione del TFF si ricopre di stelle e strisce nella nuova retrospettiva sul cinema western: la direzione del festival – Steve Della Casa è un grande appassionato del genere – non poteva che omaggiare alcune pellicole di questo filone fondamentale nella produzione statunitense dal 1938 fino al 1960.

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I film in questione, però, non hanno nulla che vedere con i grandi autori del western hollywoodiano, in questo caso sostituiti da abili mestieranti come Joseph H. Lewis e Alfred “Al” Green, capisaldi dell’industria e prolifici creatori di b-movies. Anche sul piano tematico si è voluto cercare un filo rosso che collegasse i diversi titoli della sezione: la stravaganza e l’unicità sono i due termini che hanno guidato un’accurata selezione delle pellicole più sconosciute e dimenticate del cinema americano per eccellenza.

Shotgun (1955) di L. Selander.

Ma che cos’e il cinema western senza i suoi eroi? A volte “cavalieri senza macchia e senza paura”, altre invece uomini lacerati da un oscuro passato. In Mezzogiorno di Fuoco gli eroi non sono nient’altro che anomali personaggi in balia della narrazione, che li trasporta – volenti o nolenti – verso nuove e dolorose frontiere: è il caso di Henry Carson (Van Johnson) nel rurale The Romance of Rosy Ridge (1947) di R. Rowland dove non ci viene presentato un cowboy irrequieto, ma un romantico e misterioso vagabondo che si installerà nella casa del sudista Gill MacBean (Thomas Mitchell), il padre-padrone della bella Lissy (Janet Leigh).

Lo stesso discorso si potrebbe fare per Four Faces West (1948) diretto da Al Green dove troviamo Joel McCrea nei panni di Ross McEwan, un bandito dal cuore d’oro in fuga dal famigerato – ma più innocuo rispetto alla sua classica raffigurazione – sceriffo Pat Garrett. Per tutta la durata del film non viene sparato neanche un colpo: non è necessario, dal momento che il nostro fuorilegge è in realtà un uomo buono e generoso che regala i soldi rubati al padre in difficoltà economica e aiuta una bisognosa famiglia messicana afflitta dalla difterite.

Four Faces West (1948) di Alfred Green.

A compensare l’assenza di duelli nel film di Green ci pensa Terror in a Texas Town (1958) di J. H. Lewis dove invece le pistole sono cariche e sparano, ma quando le armi da fuoco non bastano ecco che spuntano arpioni e fucine degne di un romanzo di Melville nell’anomalo scontro finale tra il pistolero monco Johnny Crale (Nedrick Young) e il vendicativo George Hansen (Sterling Hayden).

La sezione dedicata ai B-westerns ha riservato delle curiose riscoperte e coraggiosi revival come The Terror of Tiny Town (1938) di S. Newfield, un musical interamente interpretato da attori nani, ma anche pellicole più sobrie in Technicolor come Coroner Creek (1948) di R. Enright e Shotgun (1955) di L. Selander. Insomma, Mezzogiorno di Fuoco ha condotto gli spettatori in un atipico viaggio tra i sentieri del festival offrendo agli amanti del genere degli appuntamenti imperdibili con la sala e con le storie più insolite della frontiera americana.

Luca Giardino

WHEN CINEMA IS GLOCAL

Article by Nicolò Pilon

Translated by Maria Bellantoni

The 22nd edition of the Glocal Film Festival, organised by the Associazione Piemonte Movie, will take place from the 10th to the 14th March 2023. The aim of this event is the promotion and diffusion of cinema made in Piedmont, but not only: the festival wants to promote local and global exchanges and contaminations, make room to Piedmontese artists with a global vision.

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“LE LYCÉEN” BY CHRISTOPHE HONORÉ

Article by: Irma Benedetto

Translator: Laura Todeschini

“Nothing can go back / to when the sea was calm” plays Conchiglie, the second song by Andrea Laszlo de Simone to take centre stage in a film at the 40 th Turin Film Festival, after Immensità heard in Bertrand Bonello’s Coma. The life of the young high school student Lucas is shaken by the sudden death of his father (played by Honoré himself), which unleashes a shockwave capable of straining the family’s resilience and bringing to the surface long-suppressed grey areas.

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“OUR LADY OF THE CHINESE SHOP” BY ERY CLAVER

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Marco di Pasquale

What Ery Claver tries to tell metaphorically with Our Lady of The Chinese Shop is the exploitation of Angola. After Portuguese colonialism, the country became the target of the economic interests of China, which has recently invested in several African countries to profit from the enormous mineral and natural resources.

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In a poor neighbourhood of Luanda, during the Covid-19 pandemic, hopes and fears are projected in plastic icons of Our Lady sold in a small Chinese shop. The owner, Zhang Wei (Meili Li), punctuates the timing of the story and his voice, in a mysterious and poetic tone, offers the viewer a further interpretation of what is shown by the camera. He, the omniscient narrator, sees and knows everything about the stories that intertwine in the film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumed by grief at the loss of her daughter, and Zoyo (Willi Ribeiro) in search of a missing friend. Their repressed resentment is reflected in the restless movements of the camera, which does not stop even in the most static scenes. The two characters metaphorically represent the country’s feelings of revenge against its rulers. If the old Portuguese colonisation is represented by the strong presence and importance of the Catholic religion in the community, Chinese economic dominance is shown through the bright neon signs of Xiaomi, a smartphone company.

The society represented by Ery Claver seems desperate for guidance. Religion has nothing to offer but plastic figures, while politics and its decadence are represented by a surreal and parodistic meeting of the Chinese Communist Party, staged in a city arena that was never completed and is now in ruins. The only way, the director suggests, is that of rebellion. Zoyo, in an act of desperation, destroys the Chinese shop and its icons, while Domingas finds her emancipation in revenge on her abusive husband responsible for the death of her daughter. The discourse brought forward by Ery Claver, through allegories and shots with a strong symbolic charge, takes on a universal character of protest against the new and silent forms of exploitation and colonialism perpetrated in poor countries throughout the world.

“OUR LADY OF THE CHINESE SHOP” DI ERY CLAVER

Quello che Ery Claver cerca di raccontare metaforicamente con Our Lady of The Chinese Shop è lo sfruttamento dell’Angola. Dopo il colonialismo portoghese il paese è diventato obiettivo degli interessi economici della Cina, che recentemente ha investito in diversi paesi africani per trarre profitti dalle enormi risorse minerarie e naturali.

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In un quartiere povero di Luanda, durante la pandemia di Covid-19, speranze e paure sono proiettate in icone di plastica della Madonna vendute in un piccolo negozio cinese. Il proprietario, Zhang Wei (Meili Li), scandisce i tempi del racconto e la sua voce, con tono misterioso e poetico, offre allo spettatore un’ulteriore interpretazione di ciò che viene mostrato dalla macchina da presa. Egli, narratore onnisciente, vede e conosce tutto delle storie che si intrecciano nel film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumata dal dolore per la perdita della figlia, e Zoyo (Willi Ribeiro) alla ricerca di un amico scomparso. Il loro risentimento represso si rispecchia nei movimenti irrequieti della macchina da presa che non si ferma neanche nelle scene più statiche. I due personaggi rappresentano metaforicamente i sentimenti di rivalsa del paese nei confronti dei suoi dominatori. Se l’antica colonizzazione portoghese è rappresentata dalla forte presenza e importanza della religione cattolica nella comunità, il predominio economico cinese viene mostrato attraverso le luminose insegne al neon della Xiaomi, azienda produttrice di smartphone.

La società rappresentata da Ery Claver sembra alla disperata ricerca di una guida. La religione non ha altro da offrire che figure di plastica, mentre la politica e la sua decadenza vengono rappresentate da una surreale e parodistica riunione del partito comunista cinese, messa in scena in un’arena cittadina mai completata e ormai in rovina. L’unica via, suggerisce il regista, è quella della ribellione. Zoyo, infattti, in un atto di disperazione distrugge il negozio cinese e le sue icone, mentre Domingas trova la sua emancipazione nella vendetta sul marito violento e responsabile della morte della figlia. Il discorso portato avanti da Ery Claver, attraverso allegorie e inquadrature dalla forte carica simbolica, assume un carattere universale di protesta contro le nuove e silenziose forme di sfruttamento e colonialismo perpetrate nei paesi poveri di tutto il mondo.

Marco Di Pasquale

“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” BY ALAIN UGHETTO 

Article by: Emidio Sciamanna 

Translated by: Maria Bellantoni

Memories of a distant past that gradually fades in time often remain linked to an ideal world reworked by our minds to preserve emotions, sensations, fleeting instants of our existence in which we have, even for an instant, savoured flashes of true happiness. Manodopera recounts the world evoked by the sweet and nostalgic words of a grandmother, restoring the memory of a bygone era, made up of sacrifices and carefreeness, suffering and love.

The location, recreated in stop-motion, is a small mountain village at the foot of Monviso. It is called Borgata Ughettera and recalls the director Alain Ughetto’s Piedmontese origins. The film comes to life through the words of Cesira, his grandmother, who thinks back to her youth towards the end of the 19th century. Starting from some fundamental events, she thus gives rise to a reality suspended in time that is emphasised by the fragile malleability of the plasticine with which the characters are made of.

Between cardboard houses and bizarre broccoli trees, the objects somehow represent an indispensable aspect of the story; tangible elements whose purpose is to bring the sweetness of a memory closer to the purity of nature. The simplicity of the poor peasant world, the meeting with her future husband Luigi, the difficult periods of war and the need to emigrate to France in order to work and survive: these are the episodes that characterise Cesira’s past and that she describes to her nephew, in a surreal and poetic exchange between the animated universe and the real presence of the director on stage.

What Ughetto wanted to tell is not only the story of his origins, but also the story of all immigrants, wherever they come from in the world. A story of hard work, of adaptation, of gazes that lacerate the soul and leave irremediable wounds. This is why certain stereotypes in the film take on a different meaning, as if they were the images perceived by those who feel invaded and – not knowing other cultures and not understanding the languages spoken by migrants – judge those from other countries as inferior. As the original title makes clear: “forbidden to dogs and Italians”, a dramatic situation that our families have had to live with in the past and that is being played out again today, this time through the eyes of the viewer.

“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” DI ALAIN UGHETTO

I ricordi di un passato lontano che progressivamente svanisce nel tempo rimangono spesso legati a un mondo ideale rielaborato dalla nostra mente per preservare emozioni, sensazioni, fugaci istanti della nostra esistenza in cui abbiamo, anche solo per un istante, assaporato sprazzi di vera felicità. Manodopera racconta il mondo rievocato dalle dolci e nostalgiche parole di una nonna, restituendo la memoria di un’epoca passata, costituita tra sacrifici e spensieratezza, sofferenza e amore.

Il luogo, ricreato in stop motion, è un piccolo paesino di montagna situato ai piedi del Monviso che prende il nome di Borgata Ughettera e richiama le origini piemontesi del regista Alain Ughetto. Il film prende vita attraverso le parole di Cesira, sua nonna, che ripensa alla sua gioventù verso la fine del diciannovesimo secolo. Partendo da alcuni fondamentali avvenimenti, dà così origine a una realtà sospesa nel tempo che la fragile malleabilità della plastilina con la quale sono realizzati i personaggi enfatizza.

Tra case di cartone e bizzarri alberi di broccoli, gli oggetti utilizzati rappresentano in qualche modo un aspetto indispensabile per la storia; elementi tangibili, il cui scopo è quello di avvicinare la dolcezza di un ricordo alla purezza della natura. La semplicità del povero mondo contadino, l’incontro con il futuro marito Luigi, i difficili periodi di guerra e la necessità di emigrare in Francia per poter lavorare e sopravvivere: sono gli episodi che caratterizzano il passato di Cesira e che lei stessa descrive al nipote, in un surreale e poetico scambio tra l’universo animato e la presenza reale del regista sulla scena.

Ciò che Ughetto voleva raccontare non è soltanto la storia delle sue origini, ma anche quella di tutti gli immigrati, da qualsiasi parte del mondo essi provengano. Una storia fatta di fatica, di adattamento, di sguardi che lacerano l’anima e lasciano ferite insanabili. Per questo, alcuni stereotipi presenti nel film assumono un significato diverso, come se fossero le immagini percepite da chi si sente invaso e – non conoscendo le altre culture e non capendo le lingue parlate dai migranti – giudica inferiore chi viene da altri paesi. Come il titolo originale ben evidenzia: “vietato ai cani e agli italiani”, una situazione drammatica in cui in passato le nostre famiglie hanno dovuto convivere e che oggigiorno si ripropone nuovamente, rendendoci stavolta partecipi attraverso gli occhi di chi osserva.

Emidio Sciamanna

“VENUS” BY JAUME BALAGUERÓ

Article by: Emidio Sciamanna

Translated by: Noemi Zoppellaro

According to Mesopotamian mythology, the female demon Lamashtu was a devilish creature bringer of nightmares and diseases, who haunted unborn children by brutally ripping them out of their mother’s womb to feed on their blood. Venus, the latest feature by Jaume Balagueró, begins with a terrifying apocalyptic premonition: the reincarnation of the demonic figure is imminent and her coming will bring chaos and pain throughout the planet.

At the centre of the narrative is young Lucía, a dancer in an infamous nightclub run by a group of comically stereotyped criminals. One night, after stealing a big drug shipment from the gangsters, she miraculously manages to find shelter at her sister Rocío’s house, located in a building called Venus, in the decaying outskirts of Madrid. Venus – hence the title of the film – is a gloomy and mysterious place, home to dark presences that have been haunting the unfortunate residents for decades.

Loosely based on H. P. Lovecraft’s short story The Dreams in the Witch House, skilfully reworked by the Spanish director into a “horror story” with strong authorial connotations, Venus recalls in its structure the previous film, Muse, in which the paranormal subtly hovers against the background of an ordinary criminal investigation. Also in this case, the film crawls sinuously through the meanders of genre cinema, combining effectively sci-fi horror with gangster film, without ever becoming trivial or repetitive. Moreover, the caricatural element is intentionally emphasised, continuing the specific project on the grotesque that characterises the entire work of Balagueró.

This is definitely not the Spanish director’s masterpiece, however his ability to direct female figures is confirmed as excellent. In Venus, clearly inspired by Dario Argento’s characters, Lucía moves in a suffocating atmosphere, halfway between the nightmares caused by the demon and the oppressive reality of the daily life that the young woman must constantly face. For her, the building takes on a clear, although paradoxical, ambivalence: it is a prison that holds back her desire to dance, restricting her in a forced immobility caused by fear; but it is also a safe haven, a solid shelter to escape the demons that await her outside, the true nightmare of real life.

“VENUS” DI JAUME BALAGUERÓ

Secondo la mitologia mesopotamica, il demone femminile Lamashtu era una creatura diabolica portatrice di incubi e malattie, che prediligeva perseguitare i nascituri strappandoli con prepotenza dal ventre materno per nutrirsi del loro sangue. Venus, l’ultimo lungometraggio di Jaume Balagueró, inizia con un’agghiacciante premonizione apocalittica: la reincarnazione della figura demoniaca è ormai imminente e il suo avvento porterà caos e dolore in tutto il pianeta.

Al centro della narrazione troviamo la giovane Lucía, ballerina di un malfamato night club gestito da un gruppo di criminali comicamente stereotipati. Una notte, dopo aver rubato ai malavitosi un importante carico di droga, riesce miracolosamente a trovare riparo a casa della sorella Rocío, situata in un edificio denominato Venus nella decadente periferia di Madrid. Venus – da cui il titolo del film – è un luogo lugubre e misterioso, dimora di oscure presenze che da decenni affliggono i malcapitati inquilini del luogo.

Liberamente tratto dal racconto di H. P. Lovecraft, I sogni nella casa stregata, che il regista spagnolo rielabora abilmente in una “horror story” dai forti connotati autoriali, Venus ricorda per struttura il film precedente, La Settima Musa, in cui il paranormale aleggiava impercettibile sullo sfondo di una comune indagine investigativa. Anche in questo caso il film serpeggia sinuosamente tra i meandri del cinema di genere, amalgamando con efficacia l’horror fantascientifico e il gangster movie, senza mai risultare banale o ripetitivo. La componente caricaturale, inoltre, è consapevolmente enfatizzata continuando quel particolare lavoro sul grottesco che contraddistingue tutta l’opera di Balagueró.

Non si tratta certamente del lavoro migliore del regista spagnolo, eppure la sua capacità di dirigere le figure femminili si conferma eccellente. Caratterizzata da un’evidente ispirazione argentiana, la Lucía di Venus si muove in un’atmosfera soffocante, a metà tra gli incubi provocati dal demone e l’opprimente realtà della vita quotidiana che la giovane deve costantemente affrontare. Per lei l’edificio assume una chiara, seppur paradossale, ambivalenza: è una prigione, che limita la sua voglia di ballare imponendole una staticità obbligatoria attraverso la paura; ma è anche una zona sicura, un solido riparo per sfuggire ai demoni che l’attendono all’esterno, pronti a sfruttarla e gettarla via come spazzatura. Nonostante la presenza incombente di creature sovrannaturali e catastrofi cosmiche, per gli oppressi è dunque la società stessa a rappresentare la minaccia più terrificante, il vero incubo della vita reale.

Emidio Sciamanna

“PARLATE A BASSA VOCE” BY ESMERALDA CALABRIA

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Alessandro Pomati

Albania, 1985. After 40 years of indiscriminate exercise of power, the dictator Enver Hoxa died, creating a still unbridgeable void in Albanian politics. Under his leadership, the country experienced some of the darkest pages of its history, and the repression was followed by a diaspora of anything but modest dimensions, with Italy as one of its points of reference in many cases. Redi Hasa, a professional cellist who has been active in Italy for many years, was one of the protagonists of that diaspora and, through his speeches, the consequences of those forty years on the individual and the community are analysed.

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And it is he whom Esmeralda Calabria – editor, among others, of Nanni Moretti and Giuseppe Piccioni -, in her first attempt behind the camera, uses as a “cicerone” for her story, rejecting the convention of so much cinema of the real of having only one narrator and choosing instead to make him converse, in front of the camera, with friends and relatives who have experienced what he experienced.  In front of the camera, therefore, anecdotes and considerations are made between the participants, thus making the narration fluent and colloquial, and avoiding any didacticism; art, politics, ideals and identity are discussed with respect to what one is and what one wants to become.

But before looking forward, Calabria seems to want to say, one must necessarily look back, and thus return to the ‘scene of the crime’, Albania, where among the still standing vestiges of that infamous past, the wounds are still open, and one continues to wonder, even when nothing wrong has been done, if more could not have been done; all the while, as some of those interviewed recall, none of the real perpetrators has ever apologised for the atrocities perpetrated. “That was not communism,” says one former theatre actress interviewed, “it was dictatorship pure and simple“. And it is precisely the films featuring the leaders of that dictatorship that become the privileged material for Calabria who, with a thirty-year career in post-production, succeeds in making unprecedented, almost expressionist use of them: projecting them now on the wall of a cave, now on a brick wall, the director effectively evokes that climate of closure and terror from which Hasa (who, born in 1977, knew the period of instability following the fall of the regime better than the regime itself) escaped, and like him thousands of others.

Yet, even after landing and making a career in Italy, the guilt remains: guilt for having fled, guilt for not having done enough for his country in perpetual political crisis, guilt for having left his parents; and a feeling of perpetual statelessness persists. Only a direct confrontation with his homeland, strengthened by what he has learnt on the other side of that wall, as happens in the powerful finale, can put things back on an even keel.

Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino