“JOJO RABBIT” di TAIKA WAITITI

Un doppio legame unisce Taika Waititi a Torino. Dopo What We Do in the Shadows, mockumentary in cui il regista si è divertito a esplorare la quotidianità di un gruppo di vampiri, Waititi torna a Torino per aprire la 37° edizione del Torino Film Festival con Jojo Rabbit, in cui si cimenta con una delle pagine più drammatiche della Storia – la caduta del Terzo Reich –, senza tuttavia rinunciare a un tono ironico e scanzonato. Il film, nato durante la fase di postproduzione di What We Do in the Shadows, ha avuto una lunga gestazione ma non poteva essere realizzato in un momento più adatto.

Se la Germania nazista è stata spesso al centro dell’immaginario cinematografico, sono anche numerosi i film che tentano, spesso riuscendoci, di raccontare il Terzo Reich in modo ironico, senza per questo appiattire ogni riflessione, renderla superficiale, oppure sfruttare il black humor come puro espediente. In questo significativo corpus è evidente come la rappresentazione di Hitler susciti inevitabilmente una domanda: come metterlo in scena? Come si può parlare e scherzare di, su e con il Führer? Se Il grande dittatore di Chaplin ha fatto la storia del cinema, Waititi riesce a offrire una convincente versione della caduta del regime nazista attraverso due elementi strettamente legati: lo stile e il punto di vista di un bambino.

Jojo Batzler (Roman Griffin Davis), “dieci anni e mezzo”, vuole diventare un membro perfetto della gioventù hitleriana, ma deve fare i conti con le proprie insicurezze e con la madre (Scarlett Johansson) che nasconde in casa una ragazza ebrea; su tutto, Jojo si deve confrontare con le aspettative del regime, nonché con il suo amico immaginario, Adolf Hitler stesso (interpretato da Waititi), il quale appare ora nei momenti di sconforto per dispensare “saggi consigli”, ora nei momenti di indecisione per mettere in crisi il giovane adepto.

Il regista neozelandese dà vita a un pastiche che ricorre a stilemi visivi, narrativi e musicali più vari, riuscendo sempre a sorprendere lo spettatore. Già l’inizio può essere considerato un manifesto del modo in cui Waititi ha scelto affrontare la caduta del Terzo Reich: in un addestramento che ricorda quello dei boy scout di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson, il regista, con estetica da videoclip, accosta l’immaginario pop e la smania dei giovani per i Beatles al fanatismo della gioventù hitleriana. Se il presupposto del film è di raggiungere un pubblico il più vasto possibile, e in particolare di attirare i giovani a confrontarsi con la storia della Shoah – come sottolineano Roman Griffin Davis e il produttore Carthew Neal in conferenza stampa -allora lo stile pop e (post)moderno è giustificato, soprattutto perché è in linea con la visione di Jojo. Il film mescola continuamente diversi registri, dai toni della slapstick più classica fino al dramma; ma anche quando viene utilizzato un certo immaginario horror (la prima apparizione della ragazza nascosta), o quando si creano alcuni magistrali momenti di suspense, l’ironia ha sempre la meglio.

Il messaggio, ribadito dal protagonista stesso in conferenza, è chiaro: Waititi invita i giovani a essere se stessi, a scoprire il mondo e a credere in un proprio ideale e non a una lezione impartita dall’alto. Lo stesso Jojo vuole credere in un regime che, nel film, si presenta come pura esteriorità e finzione; la Germania nazista sembra più accomunata dalle divise, dal saluto Heil Hitler o da piccoli rituali su cui si scatena la satira, piuttosto che dall’ideologia. A rendere tutto un’esplicita finzione, oltre alla messa in scena, il regista punta sulla recitazione; la propria innanzitutto, ma anche quella di Sam Rockwell e Alfie Allen, molto caricata e sopra le righe, i quali nei panni di due militari nazisti, tra le tante cose, lasciano trasparire una relazione omoerotica.

Dal momento che Jojo Rabbit prende la forma di un film per ragazzi e fa continuo ricorso a un immaginario noto, un riferimento risulta legittimo. Se la camminata di Edmund per la città rasa al suolo, (Germania anno zero, Rossellini, 1946) si concludeva tragicamente con il suicidio del ragazzo, il ritorno a casa di Jojo tra le macerie ha un epilogo di segno opposto: dopo aver guardato la guerra con i suoi stessi occhi, il ragazzo si abbandona a un ballo che sembra soprattutto un inno alla vita.

Elio Sacchi

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