“GODLAND” DI HLYNUR PÁLMASON

Godland, ultimo film di Hlynur Pálmason, già vincitore della sezione lungometraggi del Torino Film Festival con A white, white day (2019), è una storia di frontiera, il racconto di un prete e fotografo danese (Helliott Crosset Hove) costretto a percorrere l’impervio territorio islandese per raggiungere un villaggio della costa sud-occidentale e costruirci una chiesa. Della spiritualità religiosa, tuttavia, rimane solo il corpo – la carne del mondo nella sua ineluttabile decomposizione. Una spiritualità, quindi, costantemente rigettata nella visceralità delle carni animali, nella trivialità del fango fuori dalle chiese e nell’imprevisto volo di una mosca sul volto senza macchia di un prete. 

Questa riflessione si inserisce nel più ampio tema del conflitto tra uomo e natura, dicotomia che si concretizza in folgoranti situazioni audiovisive che visualizzano l’impossibilità dell’individuo di controllare il mondo esterno. Il corpo di una bambina che non sta fermo in posa di fronte all’obiettivo. Il morso di un serpente nascosto tra le fronde della campagna islandese. Il latrato di un cane che interrompe un’omelia in chiesa. Il corso di un fiume che trascina chi tenta di attraversarlo. La realtà non si piega al potere dell’uomo, il quale infatti può lasciare di sé solo i resti marci della sua presenza, come le budella in primo piano di un animale scuoiato o il cranio spaccato di un uomo sulla costa rocciosa del mare. Resti che diventano poi concime per la natura stessa, che indifferente assorbe chiunque cada morto nel suo grembo.

Ma se lo scacco per l’individuo nella partita con la natura è inevitabile, c’è ancora speranza per chi vive in comunità, per chi è disposto a relazionarsi con l’altro. E nei primissimi piani tra i due amanti – nello specifico tra il prete e una ragazza del villaggio (Vic Carmen Sonne) – il regista cede a delle punte di affettività che scalfiscono il piano su cui è allestita la tragedia umana. Tuttavia, manca al protagonista la fiducia negli affetti e nell’intimità, e questo segna il suo triste destino. 

Godland mette in scena un rito eucaristico all’inverso in cui lo spirito è riportato ai cascami della sua carne. La staticità, quasi lisergica, dell’immagine di Pálmason non lascia fuori campo lo stato di decomposizione dei corpi organici, mostrando una palude visiva in cui non c’è distinzione tra il fango e il cielo. In questa terra di Dio, in cui Dio si è fatto solo corpo, la salvezza è ancora auspicabile, a patto che l’uomo sia disposto a credere nel rapporto con gli altri, nell’intimità che si può creare nella vita comunitaria, fatta di affetti e tradizioni. 

Federico Lionetti

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