“MAN AND DOG” DI STEFAN COSTANTINESCU

Due persone che vagano nel folto di un bosco, un pullman che entra in un tunnel di cui non si riesce a vedere l’uscita, una fitta coltre di fumo: sono soltanto alcune delle immagini che Stefan Costantinescu, al suo primo lungometraggio, utilizza per descrivere la sensazione di spaesamento che Doru (Bogdan Dumitrache), operaio emigrato in Svezia dalla Romania, prova al momento del suo ritorno. Il suo arrivo suscita sorpresa, ma anche una certa freddezza nella moglie Nicoleta (Ofelia Popii), nella figlia adolescente e nella madre arteriosclerotica; l’unico a provare un minimo di genuina commozione sembra essere il suo fedele cane Amza. Dietro l’inatteso ritorno di Doru c’è in realtà di più della semplice ragione lavorativa che egli continua a propinare a chiunque glielo chieda: mentre si trovava in Svezia, infatti, Doru ha ricevuto dei messaggi anonimi che lo informavano della presunta infedeltà coniugale di sua moglie. Lo scopo del suo ritorno in Romania è appurarne la veridicità.

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Come molti suoi connazionali (Cristian Mungiu, Cristi Puiu), Costantinescu dà prova di riuscire a creare atmosfere glaciali e sospese, dove le tensioni serpeggiano senza scoppiare se non al limite estremo. Questo giustifica la fotografia dai toni freddi e asettici, le riprese realizzate per lo più in interni con lo scopo di “imprigionare” i protagonisti e, in questi interni, i piani-sequenza volti a non perdere neanche una parola di quello che essi si dicono. Il rischio di epigonismo viene evitato nel momento in cui anche la macchina da presa, al pari di Doru, si libera dalla staticità e comincia a pedinare i personaggi in scene di altissima suspense, in perfetto stile hitchcockiano. A emergere da questo “pedinamento” è l’immagine di un Paese in cui la cultura patriarcale la fa ancora da padrone, dove alla donna non è concesso di prendere neanche un caffè senza l’approvazione del marito, mentre a quest’ultimo le scappatelle e le sregolatezze sono tutt’altro che proibite.

Dumitrache, attraverso uno stile recitativo spesso in sottrazione, è straordinariamente efficace nel catturare la dimensione grottesca del maschio in crisi, riuscendo spesso a suscitare il riso nello spettatore – pur nel contesto di violenza domestica in cui il film si ambienta. D’altro canto, la sua partner, Popii, brilla in un’interpretazione di glaciale ironia. Ma ogni traccia di umorismo, voluto o involontario, sparisce nel potente finale, che sembra suggerire (schivando il proiettile della consolazione) che persino in una società così fredda, violenta, distante (con o senza COVID-19 a tenerci separati), meschina, con l’ossessione di vivere in “stile IKEA”, si può trovare qualcosa a cui aggrapparsi. È una fatica, ma si può fare; anche se si è un po’ uomini, e un po’ bestie.

Alessandro Pomati

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