The life of little Emilio (Marco Fiore) moves between two different dimensions: on one hand, the concrete everyday life of a child in Fascist Italy in 1936; on the other, the adventures experienced by his hero, Sandokan, in the books his uncle gives him. But what happens when these two dimensions intertwine?
La vita del piccolo Emilio (Marco Fiore) si muove tra due dimensioni differenti: da una parte, la concreta quotidianità di un bambino nell’Italia fascista del 1936; dall’altra, le avventure vissute dal suo eroe, Sandokan, tra i libri che gli regala suo zio. Ma cosa succede quando queste due dimensioni si intrecciano?
“…(the nuns) taught us there are two ways through life: the way of Nature and the way of Grace. You have to choose which one you’ll follow.” This quote from Terrence Malick’s The Treeof Life could limpidly sum up the story of the shepherd Zhenping, the protagonist of the documentary TheShepherd, if the word “grace” were replaced with the word “love.”
The vast grasslands of Inner Mongolia provide the background for this intimate human parable that encapsulates, in its poverty and cinematic minimalism, a crucial moment in one man’s life. In his first medium-length film, Yufei Zhao directs – with a dry and algid black-and-white – the monotonous life of the shepherd, who takes animals out to pasture every day; these creatures fill his loneliness and become his only company besides his elderly mother, the only person he interacts with daily. The friends he used to spend time with are now married, and the two brothers who used to live with him have now passed away. The resetting of this household’s life rhythm is suddenly set in motion again by an interference created by the arrival of his still-living brother, who comes to visit, along with his wife, the family in these endless, uninhabited areas. The visit disrupts their habits: in a place as unfamiliar to them as a restaurant, the brother proposes that Zhenping find another woman to settle down with. To thus follow that way of love, a way the shepherd has not followed for years.
However, Zhenping’s life is deeply rooted in nature by now: framed by the hills, the daily walk with his sheep remains the happiest, most enlivening prospect compared to a new path – or life – to be taken, with all the obstacles and dark pitfalls it might hold for him. For a man experiencing old age, this darkness is no longer bearable; as a result, he will wait patiently and painfully for the flow of life to reach its end.
“… ci hanno insegnato che esistono due vie per attraversare la vita, la via della Natura e la via della Grazia. Tu devi scegliere quale via seguire”. Questa citazione da The Tree of Life di Terrence Malick potrebbe riassumere limpidamente la storia del pastore Zhenping, protagonista del documentario The Shepherd, se al posto della parola “grazia” si sostituisse il termine “amore”.
Le vaste praterie dell’entroterra della Mongolia fanno da sfondo a questa intima parabola umana che racchiude, nella sua povertà e nel minimalismo cinematografico, un momento cruciale della vita di un uomo. Yufei Zhao, qui al suo primo mediometraggio, dirige – con un bianco e nero asciutto e algido – la vita monotona del pastore, che ogni giorno porta al pascolo gli animali; creature che riempiono la sua solitudine e diventano la sua unica compagnia oltre all’anziana madre, unica persona con cui interagisce quotidianamente. Gli amici che frequentava in passato si sono sposati e i due fratelli che convivevano con lui sono morti. L’azzeramento del ritmo vitale di questo nucleo familiare viene improvvisamente rimesso in moto da un’interferenza creata dall’arrivo del fratello ancora in vita, che viene a trovare, insieme alla moglie, la famiglia in queste aree sconfinate e disabitate. La visita sconvolge le consuetudini: in un luogo a loro estraneo come un ristorante, il fratello propone a Zhenping di trovare un’altra donna con cui stabilirsi. Di percorrere quindi quella via dell’amore, che il pastore non percorre da anni.
La vita di Zhenping è però ormai profondamente radicata nella natura: la passeggiata quotidiana con le sue pecore, nella cornice delle colline, rimane la prospettiva più felice, più ritemprante rispetto a una nuova via o (vita) da intraprendere, con tutti gli ostacoli e le oscure insidie che potrebbe riservargli. Perché questa oscurità, per un uomo che sta vivendo la vecchiaia, non è più affrontabile; e così aspetterà con pazienza e dolore che il flusso della vita arrivi al suo termine.
I’m Not Everything I Want to Be is a biographical documentary in the second level: through the overlap of an extensive photographic archive and meticulously written personal diaries, the film retraces, step by step, from 1986 to the present day, the unceasing search for identity by Czech photographer Libuše Jarcovjáková.
I’m Not Everything I Want to Be è un documentario biografico al quadrato: nella sovrapposizione di uno sconfinato repertorio fotografico e di diari personali minuziosamente redatti, il film ripercorre, tappa dopo tappa, dal 1986 a oggi, l’incessante ricerca identitaria della fotografa ceca Libuše Jarcovjáková.
A Man Imagined is an intimate and painful portrait of Lloyd, a homeless man with schizophrenia, who recounts his life from his childhood, moving between reality and imagination.
A Man Imagined è un ritratto intimo e doloroso di Lloyd, clochard affetto da schizofrenia, che tra realtà e immaginazione racconta la propria vita fin dall’infanzia.
If during the 42nd edition of the Turin Film Festival, dedicated to Marlon Brando, the audience had the opportunity to see again the most famous characters played by the actor on the big screen, the festival chose for its closure a film that abandons the vision of Brando as an actor, to show him as a person.
Waltzing with Brando chronicles a specific time in the life of Brando (Billy Zane), who at the peak of his career in the 1970s, decided to build a resort on a Tahitian island, collaborating with architect Bernand Judge (Jon Heder). This work explores the personality of the well-known actor, who is portrayed here as an ordinary man (or, at least, in a stubborn attempt to live life as if he were), a lover of nature and quietness, with the great dream of staying in Tahiti forever. Disdainful, ironic, often polemical, this version of Brando manages to entertain since he is put on the same level as the viewer, without any reverence.
Hollywood’s here is only a distant glare, and it is sometimes evoked from the actor’s critical point of view, which rails against it denouncing its sloth and false myths. Nonetheless, it is not able to reach the paradisiacal shores where Brando spends his days. Even in the few scenes set on the set-opening a glimpse into a wry, spontaneously talented, extraordinarily affable Brando-the industrial logics do not seem to undermine the playful atmosphere typical of Tahitian scenes.
The real protagonist, however, is Bernard Judge, characterized by a social awkwardness that is, at times, overly exaggerated. The meta-cinematic irreverence entrusted to him-often addressing the audience directly, breaking the fourth wall-is weakly attuned to the concrete atmosphere of the film. Above all, it further exasperates a character who suffers mercilessly (albeit programmatically) from the comparison with Brando, who is instead endowed with a subtle irony congenial to the narrative and is brought to life thanks to the striking resemblance that Billy Zane intercepts.
The entertaining stories of the main characters are framed in real postcards, tinged with warm colors, showing a cozy and warm Tahiti. However, although the film cheers and hits the mark with its sharp political critiques, the story often seems to get stuck in unnecessarily stretched subplots, impoverishing the main plot, which ultimately lacks strength and substance.
Se nel corso della 42esima edizione del Torino Film Festival, dedicata a Marlon Brando, il pubblico ha avuto modo di rivedere i personaggi più celebri interpretati dall’attore sul grande schermo, a chiudere il festival è stato scelto un film che abbandona la visione di Brando come attore, per mostrarlo come persona.
Waltzing with Brando racconta un intervallo preciso della vita di Brando (Billy Zane), che al culmine della propria carriera, negli anni ’70, decide di costruire un resort su un’isola tahitiana, collaborando con l’architetto Bernand Judge (Jon Heder). L’opera esplora la personalità del noto attore, che viene qui ritratto come un uomo comune (o, perlomeno, nel tentativo pervicace di vivere la vita come se lo fosse), amante della natura e della tranquillità, con il grande sogno di rimanere per sempre a Tahiti. Sprezzante, ironico, spesso polemico, il Brando che viene proposto sullo schermo riesce a divertire perché messo allo stesso livello dello spettatore, senza riverenze.
Il mondo di Hollywood è un abbaglio lontano. Rievocato talvolta dal punto di vista critico dell’attore, che si scaglia contro esso denunciandone l’ignavia e i falsi miti, non è in grado di raggiungere le spiagge paradisiache in cui Brando trascorre le giornate. Persino nelle poche scene ambientate sul set – che aprono uno squarcio su un Brando ironico, dal talento spontaneo, straordinariamente affabile – le logiche industriali sembrano non intaccare l’atmosfera giocosa propria delle scene tahitiane.
Il vero protagonista, però, è Bernard Judge, caratterizzato da una social awkwardness a tratti eccessivamente sopra le righe. L’irriverenza metacinematografica a lui affidata – spesso si rivolge direttamente al pubblico rompendo la quarta parete – si accorda debolmente all’atmosfera concreta del film, e rende ancor più parossistico un personaggio che subisce impietosamente (benché programmaticamente) il confronto con Brando, dotato invece di un’ironia sottile, congeniale alla narrazione, e riportato in vita grazie all’impressionante somiglianza che Billy Zane è in grado di intercettare.
Le divertenti vicende dei protagonisti sono incorniciate in vere e proprie cartoline tinteggiate da colori caldi, che mostrano una Tahiti accogliente e calorosa. Tuttavia, sebbene il film rallegri e colga nel segno con le taglienti critiche politiche, la storia sembra spesso arenarsi in sottotrame inutilmente allungate, impoverendo la trama principale, che risulta infine priva di forza e sostanza.
Amy Adams fills the shoes of a monstrous new mother in Marielle Heller’s latest film, based on Rachel Yoder’s homonymous novel and presented out of competition for its Italian premiere at the Torino Film Festival.
Amy Adams veste i panni di una mostruosa neo-mamma nel nuovo film di Marielle Heller, basato sull’omonimo romanzo di Rachel Yoder e presentato fuori concorso in anteprima italiana al Torino Film Festival.
Controluce – the documentary by Tony Saccucci, presented at the 42nd Torino Film Festival and produced by Luce Cinecittà – is an intense reflection on the life and work of Adolfo Porry-Pastorel, one of the leading figures in early 20th-century Italian photography. The movie skillfully combines archival footage and fictional sequences, creating a visual dialogue that surprises with its harmony and guides the viewer into a distant yet remarkably contemporary era.
Controluce – il documentario di Tony Saccucci presentato al 42° Torino Film Festival e prodotto da Luce Cinecittà – è una riflessione intensa sulla vita e sull’opera di Adolfo Porry-Pastorel, uno dei protagonisti della fotografia italiana del primo Novecento. Il film unisce sapientemente immagini d’archivio e sequenze di fiction, creando un dialogo visivo che sorprende per la sua armonia e che accompagna lo spettatore in un’epoca lontana eppure incredibilmente attuale.
It is impossible not to feel perplexed after seeing AmicheMai (2024) by Maurizio Nichetti, the director, screenwriter and actor best known for his surreal comedy, he returned to directing twenty-three years after his last film Honolulu Baby (2001) with a comedy on the road that sees two protagonists played by Angela Finocchiaro and Serra Yilmaz.
Impossibile non avere delle perplessità dopo aver visto AmicheMai (2024) di Maurizio Nichetti, regista, sceneggiatore, attore noto ai più per la sua comicità surreale, tornato alla regia dopo venti tre anni dal suo ultimo film Honolulu Baby (2001) con una commedia on the road che vede due protagoniste interpretate da Angela Finocchiaro e Serra Yilmaz.
Jenny (Emma Drogunova) and Bubbles (Paul Wollin) share a relationship where love and addiction are intertwined. Despite her pregnancy, Jenny cannot give up methamphetamine, which she uses daily with her partner. The situation is further precipitated when Jenny receives an order to execute a prison sentence, which forces her to report to a prison institution.
Jenny (Emma Drogunova) e Bolle (Paul Wollin) vivono una relazione in cui si intrecciano amore e dipendenza. Nonostante la gravidanza, Jenny non riesce a rinunciare alle metanfetamine, di cui fa uso quotidiano insieme al suo compagno. La situazione precipita ulteriormente quando Jenny riceve un ordine di esecuzione di una pena detentiva, che la obbliga a presentarsi in un istituto carcerario.
Premiered at the latest Toronto International Film Festival, The Assessment is set in a dystopian near future where humanity is the primary cause of the world’s destruction and the driving force behind the climate changes that have ravaged it. In response to this catastrophic situation, an extreme measure has been taken: the creation of a semi-dictatorial society, a fabricated paradise where every action is controlled, and individuals—deemed incapable of managing their freedom—are now confined by a dense web of constraints.
The story follows a couple (played by Himesh Patel and a surprising Elizabeth Olsen) who appear to enjoy an idyllic life in this regimented world, despite its bleak and impersonal atmosphere. Wide exterior shots reveal a barren landscape, and their futuristic villa exudes sterility, painted in the coldness of artificial colours. In this new, surreal, impersonal society, the couple wishes to have a child but must first pass an assessment: they are required to live with a woman (Alicia Vikander) who will evaluate their suitability to become parents.
The protagonists endure and overcome a series of trials that grow increasingly senseless and extreme. Set against an oppressive rhythm, the haunting soundtrack accompanies the couple through a spiral of madness, where free will is sacrificed in the name of a greater good and an ostensibly perfect society. Yet, one final choice remains: to continue living in an artificial world dominated by illusion and control, or to return to the scarred real world, but as free individuals.
Through its sci-fi lens, The Assessment tackles universal themes such as climate change and free will, while also addressing intimate and personal issues like motherhood. By drawing on genre conventions, it provokes thought and invites reflection on these pressing and timeless questions.
Presentato in anteprima all’ultimo Toronto International Film Festival, The Assessment è ambientato in un futuro distopico non troppo lontano, in cui l’umanità è la principale responsabile della distruzione del mondo e la causa dei mutamenti climatici che lo hanno devastato. A questa situazione catastrofica è stata trovata una soluzione estrema: la creazione di una società semi-dittatoriale, un paradiso fittizio in cui ogni gesto è controllato, e le persone, evidentemente incapaci di gestire la propria libertà, sono ora strette in una fitta rete di vincoli.
La coppia protagonista (interpretata da Himesh Patel e da un’atipica Elizabeth Olsen) sembra vivere felicemente in un mondo ideale, nonostante l’atmosfera sia desolante e anonima: i campi lunghi degli esterni mostrano un paesaggio arido e la loro futuristica villa è asettica, dipinta dalla freddezza di colori artificiali. In questa nuova società impersonale e surreale, la coppia vorrebbe avere un figlio, ma ha bisogno di superare un esame: convivere con una donna (Alicia Vikander) che verifichi l’adeguatezza dei due partner a diventare genitori.
I due protagonisti resistono e superano una serie di prove che diventano sempre più insensate ed estreme. Cadenzata da un ritmo angosciante, la colonna sonora accompagna la coppia in una spirale di follia, in cui il libero arbitrio è messo da parte in nome di un bene superiore e di una società apparentemente perfetta. Eppure, un’ultima scelta è ancora possibile: continuare a vivere in un mondo artificiale nel quale la finzione e il controllo sono padroni, oppure tornare nello sfregiato mondo reale, ma da uomini liberi.
Attraverso la fantascienza, The Assessment affronta temi universali come il cambiamento climatico e il libero arbitrio, ma anche questioni intime e private come la maternità, riuscendo così a ricorrere agli stilemi di genere per innescare un’interessante riflessione.
Pietro Torchia
Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino