For his 8th feature-length film, La Práctica (“The practice”), Martín Rejtman leaves his beloved Argentina for neighbouring Chile. The main character, Gustavo (Esteban Bigliardi), goes through a journey that is similar to a spiritual retreat trying to reconnect with meditative yoga. Both the director and the main character – who is sort of an alter ego of his creator – will see their innovative dreams clash with reality. As it often happens in the Argentinian director’s films, whatever happens to the helpless characters doesn’t really have a substantial effect in their lives.
Dopo più di trent’anni di carriera, per il suo ottavo lungometraggio La practica, Martín Rejtman abbandona la sua adorata Argentina per il vicino Cile. Non una rivoluzione, ma una sorta di ritiro spirituale, esattamente come quelli provati dal protagonista Gustavo (Esteban Bigliardi) per ritornare in connessione con la pratica meditativa dello yoga. Sia il regista che il suo personaggio – come non mai alter ego del suo creatore – vedranno i loro sogni di innovazione scontrarsi con la realtà. Infatti, come da prassi nel cinema del maestro argentino, il vortice di vicende che coinvolge gli inermi soggetti non produce alcun effetto sostanziale nelle loro vite, risolvendosi in un grandissimo nulla di fatto.
“What happens to a country when an entire page of its history is erased?” This is the starting point of Felipe Gálvez’s debut feature film Los colonos (“The settlers”). A raw and refined film that, through the journey of three men charged by landowner Jose Menéndez to find a “safe” – meaning “cleansed” of Indians – route to the shores of the Atlantic, brings attention to the genocide of the indigenous Selk’nam people perpetrated at the beginning of the 20th century for long obscured by Chile’s official history.
«Che cosa accade a un Paese quando un’intera pagina della sua storia viene cancellata?». Da qui parte l’esordio nel lungometraggio di Felipe Gálvez Los colonos, crudo e raffinato film che attraverso il viaggio di tre uomini incaricati dal latifondista Jose Menéndez di trovare un percorso “sicuro” – cioè “ripulito” dagli indios – fino alle coste dell’Atlantico, porta l’attenzione sul genocidio degli indigeni Selk’nam perpetrato alle soglie del XX secolo e per lungo tempo oscurato dalla storia ufficiale del Cile.
Un semaforo brucia nella prima inquadratura. Una ragazza con lanciafiamme e capelli biondo platino osserva, poco distante. È Ema (Mariana Di Girolamo) e quel fuoco, con cui si apre l’ultimo film di Pablo Larraín e che non smetterà mai di ardere, è il fuoco che le brucia dentro. Il fuoco dei sensi di colpa causati dalla decisione di riportare in orfanotrofio Polo, il bambino adottato insieme al marito Gastòn (Gael García Bernal). È un fallimento che non le dà pace.