Tutti gli articoli di Marco Di Pasquale

“WHITE PLASTIC SKY” DI TIBOR BÁNÓCZKI E SAROLTA SZABÓ

Il mondo tra cento anni. Nella Budapest del 2123 le persone sono costrette a donare il proprio corpo per il bene comune. La crisi ambientale ha infatti devastato il pianeta, ormai ridotto a una distesa arida su cui non cresce più nulla. Per questo motivo viene progettato un seme che, una volta impiantato, può trasformare l’essere umano in albero. Per la sopravvivenza dell’umanità, chiunque compia cinquant’anni deve subire questo processo.

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“OLTRE LA VALLE” DI VIRGINIA BELLIZZI

Quando, fin da piccoli, ci viene mostrata per la prima volta una mappa geografica, i confini politici ci appaiono scontati e naturali, pronti per essere memorizzati in vista dell’interrogazione. Sono sì cambiati nel corso del tempo, ma restano precisi e definibili in ogni epoca. Paradossalmente, è proprio nei luoghi di confine che ci si rende conto di quanto quelle linee che vediamo riprodotte sulle cartine geografiche siano in realtà trasparenti e quanto il concetto stesso di confine sia artificiale, finalizzato a incasellare in modo rassicurante ogni aspetto della nostra esistenza. È in uno di questi luoghi, nel comune di Oulx, al confine tra Italia e Francia, che Virginia Bellizzi osserva i numerosi e fugaci passaggi di migranti in cerca di un futuro migliore.

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“PELIKAN BLUE” DI LÁSZLÓ CSÁKI

È difficile immaginare cosa possano aver provato migliaia di giovani che, dopo aver vissuto per anni sotto regime, un giorno, improvvisamente, hanno avuto la possibilità di varcare i confini del loro Paese e vedere liberamente Londra, Parigi, Roma, Madrid o Amsterdam. Non stupisce quindi che László Csáki abbia voluto fare un documentario in animazione per sfruttare le possibilità del disegno e trasmettere le sensazioni e le emozioni che un’intera generazione ha vissuto in Ungheria negli anni Novanta a seguito del disfacimento della Repubblica Popolare e dell’Unione Sovietica.

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“OUR LADY OF THE CHINESE SHOP” DI ERY CLAVER

Quello che Ery Claver cerca di raccontare metaforicamente con Our Lady of The Chinese Shop è lo sfruttamento dell’Angola. Dopo il colonialismo portoghese il paese è diventato obiettivo degli interessi economici della Cina, che recentemente ha investito in diversi paesi africani per trarre profitti dalle enormi risorse minerarie e naturali.

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In un quartiere povero di Luanda, durante la pandemia di Covid-19, speranze e paure sono proiettate in icone di plastica della Madonna vendute in un piccolo negozio cinese. Il proprietario, Zhang Wei (Meili Li), scandisce i tempi del racconto e la sua voce, con tono misterioso e poetico, offre allo spettatore un’ulteriore interpretazione di ciò che viene mostrato dalla macchina da presa. Egli, narratore onnisciente, vede e conosce tutto delle storie che si intrecciano nel film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumata dal dolore per la perdita della figlia, e Zoyo (Willi Ribeiro) alla ricerca di un amico scomparso. Il loro risentimento represso si rispecchia nei movimenti irrequieti della macchina da presa che non si ferma neanche nelle scene più statiche. I due personaggi rappresentano metaforicamente i sentimenti di rivalsa del paese nei confronti dei suoi dominatori. Se l’antica colonizzazione portoghese è rappresentata dalla forte presenza e importanza della religione cattolica nella comunità, il predominio economico cinese viene mostrato attraverso le luminose insegne al neon della Xiaomi, azienda produttrice di smartphone.

La società rappresentata da Ery Claver sembra alla disperata ricerca di una guida. La religione non ha altro da offrire che figure di plastica, mentre la politica e la sua decadenza vengono rappresentate da una surreale e parodistica riunione del partito comunista cinese, messa in scena in un’arena cittadina mai completata e ormai in rovina. L’unica via, suggerisce il regista, è quella della ribellione. Zoyo, infattti, in un atto di disperazione distrugge il negozio cinese e le sue icone, mentre Domingas trova la sua emancipazione nella vendetta sul marito violento e responsabile della morte della figlia. Il discorso portato avanti da Ery Claver, attraverso allegorie e inquadrature dalla forte carica simbolica, assume un carattere universale di protesta contro le nuove e silenziose forme di sfruttamento e colonialismo perpetrate nei paesi poveri di tutto il mondo.

Marco Di Pasquale

“SILVER BIRD AND RAINBOW FISH” DI LEI LEI

Il cinema documentario negli ultimi anni ha sfruttato l’animazione per narrazioni intime e personali che restituissero una visione nuova su eventi storici complessi. Film come Valzer con Bashir (Ari Folman, 2008) o La strada dei Samouni (Stefano Savona, 2018) affrontavano con uno sguardo microscopico fatti di enorme portata per cercare di comprenderne la natura profonda. Il regista Lei Lei, attraverso le memorie del nonno e del padre animate in stop motion, ripercorre i difficili anni della sua famiglia, divisa dalla Rivoluzione culturale nella Cina maoista.

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La struttura di Silver Bird and Rainbow Fish rispecchia efficacemente la natura frammentata della memoria storica. L’animazione, infatti, è costituita da plastilina modellata a mano, pagine di giornale, vecchie fotografie e illustrazioni della propaganda del tempo, unite in un collage di stili e linguaggi diversi. Le immagini generate da questo miscuglio non sono solo una rielaborazione artistica di ciò che viene raccontato fuori campo. Le voci dei parenti intervistati dal regista spesso indugiano, fanno delle lunghe pause o si interrompono perché i ricordi si fanno meno nitidi. È proprio in questi momenti di vuoto, di memoria rimossa, che l’animazione dimostra la sua potenza evocativa, trascendendo il racconto storico attraverso riferimenti all’immaginario fantastico e alla mitologia cinesi.

Come le immagini, anche la narrazione si struttura su più livelli, in un collage temporale che copre quasi trent’anni di Storia, attraverso le voci e i punti di vista di tre generazioni: quella del regista, del padre e del nonno, intervistato dieci anni prima. A questi piani temporali sovrapposti corrispondono i vari materiali utilizzati nel documentario. Se la plastilina modellata dalle mani di Lei Lei rappresenta la contemporaneità e il suo punto di vista fantasioso, ironico e mutevole, le fotografie e i ritagli di giornale sono i residui sbiaditi di un mondo scomparso.

Durante il film l’autore ci ricorda più volte, e in diversi modi, che ciò che stiamo vedendo non è che una delle infinite e possibili visioni dei fatti accaduti, filtrata dalle esperienze dei vari componenti della famiglia e dal regista stesso, che ha immaginato le vicende con la sua sensibilità artistica e un occhio contemporaneo. Restituire un’immagine compiuta del passato è impossibile, ma è proprio per questo motivo che piccole storie come quella della famiglia Lei sono così importanti e degne di essere raccontate.

Marco Di Pasquale

“IPERSONNIA” DI ALBERTO MASCIA

La narrazione distopica, affermatasi nella letteratura e nel cinema del Novecento, è da sempre un efficace strumento di analisi e discussione dei problemi e dei cambiamenti della società contemporanea. Alberto Mascia con il suo film Ipersonnia, sposta in un futuro prossimo argomenti che negli ultimi anni hanno generato intensi dibattiti nel nostro Paese. L’alto tasso di criminalità e il grave sovraffollamento delle carceri italiane hanno spinto la classe politica verso una soluzione estrema: trasformare la pena detentiva in anni di sonno forzato.

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David Damiani (Stefano Accorsi), è uno psicologo che si occupa del risveglio periodico dei detenuti per monitorarne la salute mentale. I condannati subiscono gli effetti del sonno artificiale principalmente a livello cerebrale, facendo fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Su questa dicotomia si basa Ipersonnia, con atmosfere debitrici di film come eXistenz (Cronenberg – 1999) o Memento (Nolan – 2000). L’elemento onirico si lega direttamente alla psicanalisi e al suo uso immorale unito con la tecnologia. Attraverso un inibitore di onde cerebrali il detenuto rimane vulnerabile mentre lo psicoterapeuta può immettere nella sua mente ogni tipo di idea fino a convincerlo della colpevolezza di crimini non commessi. Ipersonnia propone quindi un’interessante rivisitazione degli “innesti” di idee effettuati dai protagonisti di Inception (Nolan – 2010). Se in quest’ultimo film la manipolazione si compiva interamente nei mondi onirici creati dalla mente, in Ipersonnia tutto questo avviene da svegli, attraverso la psicanalisi. Il progresso tecnologico combinato con la psicoterapia distrugge ogni barriera dell’inconscio e il sonno diventa un mero momento di stasi e di prigionia. Di fronte a queste suggestioni tematiche e narrative lo stile registico rimane tuttavia inerte, in funzione della semplice comprensione degli eventi del film.

Il sovraffollamento delle carceri, la giustizia e la sua problematica applicazione sono questioni importanti della nostra società che la pellicola accenna sommariamente, relegandole sullo sfondo. La narrazione vira piuttosto sul complottismo e sulla degenerazione del potere che cerca di prendere il controllo delle menti dei cittadini. Ipersonnia si inserisce nel recente tentativo della produzione italiana di riavvicinare il pubblico al cinema di genere, tentativo che risulta forse mancato proprio nel confronto con la distopia, che richiederebbe una visione critica e approfondita di questioni attuali così rilevanti, sia nella forma che nel contenuto filmico.