La vecchia Phnom Penh sta sparendo. Gli occhi sperduti e incerti di Samnang (Piseth Chhun) contemplano in tempo reale la demolizione della città che conosce e abita, corrosa dalle forze della gentrificazione. Come nella Fenyang di Jia Zhangke, le trasformazioni in atto sono profonde al punto da riscrivere la storia stessa. Sul passato, obliterato, si sovraimprime il futuro. Si attacca lo spazio per plasmare – violentandolo – il tempo. «Old buildings are disappearing, taking swathes of our past with them, while condos, malls, and modern air-conditioned stores pop up everywhere. But what has changed most […] is the rhythm of the city»1: così Kavich Neang sintetizza una mutazione che riguarda non solo il tempo storico, culturale, ma anche quello vitale, performativo, della sua città. E, per sineddoche, della sua società. A una forsennata riscrittura architettonica del mondo votata alla cancellazione, White Building oppone il tempo di un respiro profondo, di un requiem.
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“THE NORTHMAN”, DI ROBERT EGGERS
Eggers si lascia alle spalle l’intellettualismo claustrofilo-cameratista di The Lighthouse (2019) per lanciarsi in una virilissima epopea vichinga fatta di rutti, flatulenze e massacri. Una storia di vendetta hardcore, lineare fino alla ridondanza, modellata un po’ sull’Amleth di Saxo Grammaticus e un po’ sulla legge del taglione. L’eroe è qui spogliato delle sofisticazioni shakespeariane e ricondotto a una corporeità originaria, de-pensante. Riflettere, nell’universo fatalista sceneggiato dalle Norne, è da assoluti imbecilli: basta adempiere al proprio destino, ammazzando chi si deve ammazzare, copulando con chi si deve copulare. Eventualmente, ammazzare qualcuno in più. Altrimenti, a che servono le comparse?
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In un mondo in cui i vassoi volano autonomamente, a cosa servono i camerieri? Eppure, il Wizarding World ne è pieno. A cosa serve una pentalogia incentrata sul magizoologo Newt Scamander (Eddie Redmayne) e sulle sue animalesche avventure quando basterebbe un unico lungometraggio dal successo assicurato incentrato sullo scontro tra Silente e Grindelwald? Eppure, siamo già al terzo film.
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Per inscenare la tragedia di Strahinja (Ibrahim Koma) e Ababuo (Nancy Mensah-Offei) – due migranti ghanesi condannati a errare nelle waste lands geografiche e burocratiche di un’inospitale Est Europa – Stefan Arsenijević ricalca e rimodella il poema epico-cavalleresco serbo Strahinja Banović. L’operazione persegue un (almeno) duplice scopo.
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Dopo Stray Dogs (2013), film che ha richiesto uno iato lungo sette anni per vedere assorbita l’eco del suo silenzio, Tsai Ming-liang torna al lungometraggio di finzione con Days (2020). Nel tempo intercorso, una sottile metamorfosi ha attraversato sotterraneamente il suo fare cinema: se in Stray Dogs si può rilevare una radicalità espressiva che – oltre a riaffermare – potenzia i tratti distintivi di Tsai, in Days nessuna forma resiste. Se non come riverbero simulacrale di quanto è stato, formalismo ingenerato nell’occhio di chi guarda.
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Moloch (1999), Taurus (2001), Il Sole (2005), Faust (2011). Quando Aleksandr Sokurov fa riferimento alla sua tetralogia, anche solo alludendovi fuggevolmente, in un istante comprendiamo che non possono esservi dubbi: si tratta di un unico organismo estetico. Complesso, ma unitario. Un corpus coerente, inscindibile nelle sue singole parti. La follia di Hitler, la malattia di Lenin, la de-divinizzazione di Hirohito: tutte fluiscono l’una nell’altra, convergendo, coadiuvate dalla putrescenza di Faust. Un’epopea della deformazione e del collasso – fisico e ideologico a un tempo – che, paradossalmente, fa corpo.
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Un trip lungo 64 minuti e 1700 kilometri. Un viaggio in treno che oscilla tra luce e oscurità, scandagliando un Vietnam metafisico, passando per il diciassettesimo parallelo – il luogo più bombardato al mondo – e l’insediamento Ruc, popolo che alimenta il fuoco sacro il cui spegnimento comporterebbe l’estinzione del mondo.
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Bipolar inaugura la neonata sezione “Incubator” del Torino Film Festival, un nuovo spazio dedicato agli sguardi idiosincratici, all’in-incasellabile. Un febbricitante brusio creativo di cui il film di Queena Li trasmette alla perfezione l’energia.
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Tre piani, di Nanni Moretti. Tre piani, di lettura. Uno impilato sull’altro, gerarchicamente.
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Si esce da una proiezione di Dune storditi, subito smemorati. Di una vacanza durata tre ore e qualche millennio resta giusto una manciata di granelli di sabbia a infestarci i capelli.
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La Snyder Cut non esisterebbe senza l’interpolazione operata da Whedon sul corpo di Justice League, consistita – per molti – in una vera e propria mutilazione. Questo sia nel senso, più ampio, che nessuna director’s cut esiste senza una relativa theatrical cut che ne tradisce i propositi autoriali, ma anche, più nello specifico, nel senso che la versione di Snyder sembra essere valutata e discussa – da pubblico e critica – solo in rapporto a quella di Snyder-Whedon. Mai come entità autonoma, autosufficiente. Una ricezione che è sempre di secondo grado: Se Zack Snyder’s Justice League (2021) è un’opera riuscita, lo è in quanto superiore a Justice League (2017). Se invece viene valutata un’operazione fallita, è perché dal testo di partenza differisce minimamente, rappresentandone nient’altro che una debordante ipertrofizzazione. Più dettagli, più sfaccettature caratteriali, più informazioni. Più ralenti. Elementi che, cumulando e sommandosi, garantiscono un unico risultato: più autorialità.
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Immaginiamo di dilatare la sequenza finale di Blue Velvet (D. Lynch, 1986) fino a farne un lungometraggio. Il risultato sarebbe molto simile a Greener Grass (J. DeBoer, D. Luebbe, 2019), un deliro (apparentemente) nonsense, in cui i tropi e gli stilemi dell’olimpica produzione hollywoodiana si ritorcono su e contro se stessi, svelando la loro insincerità e artificiosità. Un film in cui una luce dalla potenza ipertrofica, più che farsi garante della leggibilità delle immagini che investe, le rende evanescenti. Una fotografia lobotomizzante, in cui ogni cosa è (troppo) illuminata. Sullo stesso terreno altamente ironico si muove Ham on Rye (2019), esordio di Tyler Taormina. Un’operazione consistente nel recupero di un’estetica cinematografico-televisiva estremamente familiare, che viene intinta in un liquido oscuro, che ne corrode le fondamenta. Un coming of age destrutturato in cui a essere raffigurata non è la metamorfosi pacifica dei teenagers in qualcosa d’altro, verso il terreno inesplorato ma prospetticamente accogliente dell’adulthood, quanto un processo di sostanziale annichilazione. Una carneficina color pastello.
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Red Aninsri si apre con un dialogo tra gatti. Comunicano attraverso la più posticcia e artificiosa delle tecniche cinematografiche che gli consenta di proferir parola: il doppiaggio. Nessun tentativo di seguire le espressioni del loro muso, o le loro movenze. La voce umana aderisce ai loro corpi forzosamente, facendo valere la propria superiorità tecnologica. Un universo, quello di Red Aninsri, in cui tutto è squisitamente finto, dove tra le immagini del mondo e le loro sonorità permane una discrasia insanabile.
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«Nobile, grandioso, impeccabile, ogni istante si forma, si colma, si sgretola, si riforma in un nuovo istante che si crea, che si forma, che si consuma, che si sgretola e si riforma in un nuovo istante che si crea, che si forma, che si colma e si piega e si collega al seguente che si annuncia, che si crea, che si forma, che si colma e si esaurisce nel seguente che nasce, che sorge, che soccombe e nel seguente che viene, che sorge, si ripristina, matura e si unisce al seguente che si forma…E così senza fine, senza fermarsi, senza stanchezza, senza incidenti, con una perfezione smisurata e monumentale.» -Henri Michaux
«Volevo fare uno spettacolo con un linguaggio inventato da me, per riunire gente solo per una sera. […] Insistevano perché la rifacessi, ma io non volevo». Quello di Jorge Bonino (1935-1990) è teatro puro, nella misura in cui ogni sua opera, parola o azione è presenza, atto indissolubilmente legato all’istante in cui si esprime.
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Schermo nero, vento. Poi, un vociare umano, commisto a nitriti. In un polveroso e spartano ippodromo, una corsa di cavalli viene interrotta al suo acme, con un ricorso ad un freeze-frame. A chi spetti la vittoria, non è dato saperlo.
Ecco che U slavu ljubavi (In Praise of Love) ri-comincia per la prima volta. Di nuovo nero, di nuovo rumori ambientali: a sovrastare ogni cosa sono cinguettii e muggiti. La presenza umana, stavolta, non è contemplata nemmeno sul piano sonoro. Dalla natura, incontaminata, si passa ai corpi animali. Lunghe inquadrature statiche, ipnotizzate da deretani equini. Lo sguardo di Drakulić non sembra porsi come un punto di stazione privilegiato rispetto ad altri, ma come uno dei tanti possibili. Il mondo viene lasciato fluire nella sua spontaneità, in ogni suo respiro. Non importa se i soggetti antropomorfici abbandonano il campo. Non è questione di décadrages, o di sovvertire una qualche regola grammaticale. Si tratta piuttosto di non riconoscersi in un’organizzazione gerarchica del materiale audiovisivo. Tutto è ugualmente meritevole di attenzione, e Drakulić è capace di restituirci l’indecidibilità di un punto di vista.
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