“LOS COLONOS” BY FELIPE GÁLVEZ

Article by Sara Longo

Translation by Lara Martelozzo

“What happens to a country when an entire page of its history is erased?” This is the starting point of Felipe Gálvez’s debut feature film Los colonos (“The settlers”). A raw and refined film that, through the journey of three men charged by landowner Jose Menéndez to find a
“safe” – meaning “cleansed” of Indians – route to the shores of the Atlantic, brings attention to the genocide of the indigenous Selk’nam people perpetrated at the beginning of the 20th century for long obscured by Chile’s official history.

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“LOS COLONOS” DI FELIPE GÁLVEZ

«Che cosa accade a un Paese quando un’intera pagina della sua storia viene cancellata?». Da qui parte l’esordio nel lungometraggio di Felipe Gálvez Los colonos, crudo e raffinato film che attraverso il viaggio di tre uomini incaricati dal latifondista Jose Menéndez di trovare un percorso “sicuro” – cioè “ripulito” dagli indios – fino alle coste dell’Atlantico, porta l’attenzione sul genocidio degli indigeni Selk’nam perpetrato alle soglie del XX secolo e per lungo tempo oscurato dalla storia ufficiale del Cile.

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“Indagine su una storia d’amore” by Gianluca Maria Tavarelli

Article by Carlotta Pegollo

Translation by Francesca Borgheresi

A couple of actors decide to participate in the television program “Scheletri nell’armadio” (“Skeletons in the closet”), in which they have to tell their love story without any filter or secret. Lucia’s idea (Barbara Giordano) is to let the audience know about her using the catch of a national-popular show, which now seems to be the only way to achieve popularity besides social networks. Paolo (Alessio Vassallo), instead, is reluctant to the idea of showing his secrets, but he will be persuaded by the perspective of job. They swear to each other that they will only tell the truth on camera, even if, being actors, they can alter it a bit for the audience. A complete fiasco.

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Gianluca Maria Tavarelli, author and screenwriter of Indagine su una storia d’amore (“Analysis of a love story”), performs an autopsy on this relationship, which the spectator looks at with a voyeuristic taste. From the beginning of the film, in fact, we already know how the relationship of Paolo and Lucia will end, but we are captivated by a kind of morbid curiosity, on which the script and the staging pry. The facts that are shown and told will end up being wrong. Everything is uncertain and put under question in a way that leaves the audience unable to understand who is right. By doing this with a multi-layer and multi-sense narrative, Tavarelli constantly keeps the interest of the audience alive, so that they don’t have time to relax – or worse – to get bored. Thanks to this device, he doesn’t risk appearing trivial with an ordinary topic in this hyper-exposition era.

That which provides the attraction mechanism in the audience is to find how things really went, spying on the couple’s private reactions while on their own rediscovery. But since lies are always more intriguing than truth, Paolo becomes the real protagonist of this story. In fact, the audience knows a lot more about Paolo than Lucia does, a character that seems far too functional, if not just the litmus test of her partner’s behaviour. Alessio Vassallo manages to put on stage a good degree of measure even in the most desperate moments, such as when he attempts suicide. ( we give credits to Alessio Vassallo for some moves taken in the most desperate moments like attempted suicide) A quality that Paolo shares with the other characters too, also thanks to the irony with which Tavarelli colours the whole film, moving between an excessive exuberance and a comic lightness.

“Indagine su una storia d’amore” di Gianluca Maria Tavarelli

Una coppia di attori decide di partecipare al programma televisivo Scheletri nell’armadio in cui sono chiamati a raccontare la loro storia d’amore senza filtri e senza segreti. L’idea di Lucia (Barbara Giordano) è quella di cercare di farsi conoscere dal pubblico sfruttando la presa di una trasmissione nazional-popolare che, ormai, sembra essere l’unico veicolo di popolarità mediatica insieme ai social. Paolo (Alessio Vassallo) è invece reticente all’idea di tirare fuori i propri numerosi scheletri nell’armadio ma si lascia convincere, sedotto dalle prospettive lavorative. Si giurano allora di raccontare solo la verità davanti alle telecamere anche se, da attori, possono un po’ rielaborarla per l’audience. Una disfatta annunciata.

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Gianluca Maria Tavarelli, anche autore del soggetto e sceneggiatore, compie un’autopsia della relazione alla quale lo spettatore assiste con gusto voyeuristico. Dall’inizio del film, infatti, sappiamo già come andrà a finire la storia di Paolo e Lucia, ma veniamo catturati da una specie di morbosa curiosità su cui fanno leva la sceneggiatura e la messa in scena. Ci vengono mostrati e raccontati fatti puntualmente smentiti l’attimo successivo, tutto è messo in discussione e lo spettatore non sa più a chi credere. Così facendo, Tavarelli, con una narrazione multi-strato e multi-senso, mantiene costantemente acceso l’interesse del pubblico in sala che non ha il tempo di rilassarsi – o peggio – annoiarsi. Si salva così dal rischio di apparire banale nell’affrontare una tematica e un argomento divenuti quotidiani nell’epoca dell’iper-esposizione.

E scoprire come sono andate veramente le cose spiando le private reazioni della coppia alla propria ri-scoperta resta ciò che innesca il meccanismo di attrazione spettatoriale. Essendo però la menzogna da sempre più intrigante della verità, il vero protagonista della vicenda diventa Paolo. Lo spettatore conosce infatti molti più lati di Paolo che non di Lucia, personaggio che appare fin troppo funzionale quando non semplice cartina di tornasole del comportamento del compagno. Ad Alessio Vassallo il merito di una certa misura anche nei momenti più disperati come quello del tentato suicidio. Un tono che Paolo condivide anche con gli altri personaggi anche grazie all’ironia di cui Tavarelli colora tutto il film in bilico tra eccessiva esuberanza e comica leggerezza.

Carlotta Pegollo

“AUGURE (OMEN)” BY BALOJI

Article by Federico Lionetti

Translation by Martina Agostino

The young protagonist (Marc Zinga) and his pregnant girlfriend (Lucy Debay) fly from Belgium to Congo to reestablish their relationship with his family. However, he has to face the prejudice caused by a birthmark on his face – a bad omen, according to the local tradition, which has negatively affected his life since he was a child. 

This is the very beginning of Augure, the opening film of the “Crazies” section of the 41st Turin Film Festival, and the first feature film by the eclectic artist Baloji, a Belgian graphic designer and musician from Congo. During the scenes of this family drama, the director tackles the spectacularity of the human bodies of a small local group, thereby depicting the colors and customs of a culture somewhere between actual African tradition and the director’s phantasmagorical inventiveness. A visual staging that crosses the boundaries of the mundane, taking us toward the magic of the fairy tale and the anxiety of the unconscious.

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“AUGURE (OMEN)” DI BALOJI

Il giovane protagonista (Marc Zinga) e la fidanzata incinta (Lucy Debay) volano dal Belgio in Congo per ristabilire i rapporti con la famiglia di lui, trovandosi però ad affrontare i pregiudizi causati da una voglia che il ragazzo ha sul volto – un cattivo presagio, secondo la tradizione locale, che ne ha negativamente influenzato la vita fin da quando era bambino. Da questo incipit si muove la storia di Augure, film d’apertura della sezione “Crazies” della 41° edizione del Torino Film Festival, e primo lungometraggio dell’eclettico artista Baloji, grafico e musicista belga di origini congolesi. Sulla scena di un dramma familiare, il regista imbastisce la spettacolarità dei corpi umani di un piccolo gruppo locale, rappresentando in questo modo i colori e i costumi di una cultura a metà tra l’effettiva tradizione africana e l’inventiva fantasmagorica del regista. Un allestimento visivo che valica i confini del mondano, portandoci verso la magia della fiaba e l’inquietudine dell’inconscio.

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“Gianni Versace: l’imperatore dei sogni” by Mimmo Calopresti

Article by Elisa Gnani

Translation by Giorgia Legrottaglie

«What are you doing? Are you sleeping at this time? No. I’m dreaming.».

If we could see with a painter’s eye Mimmo Calopresti’s portrait of one of Italy’s most beloved and most brilliant designers, it would appear to us as a chiaroscuro. This docu-fiction alternates between reality and fiction, past and present, the protagonist’s extensive cultural background and the abandonment of his studies. A duality that converges, in the end, in the construction of a great character, a down-to-earth dreamer: “I live in a dream. My dream is coming true: to be Gianni
Versace.”

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“Gianni Versace: l’imperatore dei sogni” di Mimmo Calopresti

«Ma che fai, dormi a quest’ora? No. Sogno».

Se potessimo vedere con l’occhio di un pittore il ritratto che Mimmo Calopresti realizza di uno degli stilisti italiani più amati e più geniali, esso ci apparirebbe come un chiaroscuro. Un docu-fiction che alterna la realtà e la finzione, il passato e il presente, l’ampio bagaglio culturale del protagonista e l’abbandono degli studi. Una dualità che converge, in fondo, nella costruzione di grande personaggio, un sognatore con i piedi per terra: «Io vivo in un sogno. Il mio sogno si sta realizzando: essere Gianni Versace».

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“Soleils Atikamekw” by Chloé Leriche

Article by Giorgia Andrea Bergamasco

Translation by Chiara Rotondo

The second feature film by Quebecois director Chloé Leriche, Soleils Atikamekw (Atikamekw Suns) portrays the profound intergenerational pain of the Atikamekw community in Manawan, Quebec. The film’s delicate aesthetics and careful formal work are not intended to sugarcoat the film, but rather to testify the strength and beauty of a community that, though destroyed, attempts to rebuild its memory.

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“Soleils Atikamekw” di Chloé Leriche

Secondo lungometraggio della regista quebecchese Chloé Leriche, Soleils Atikamekw ritrae il profondo dolore intergenerazionale della comunità Atikamekw di Manawan, Québec. La delicatezza estetica e l’accurato lavoro formale del film non sono volti a indorare la pillola, bensì a testimoniare la forza e la bellezza di una comunità che, seppur distrutta, tenta di ricostruire la propria memoria.

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“LE RAVISSEMENT” BY IRIS KALTENBACK

Article by Romeo Gjokaj

Translation by Camilla Lippi

Lydia (Hafsia Herzi) and Salomé’s lives are intricately and specularly linked: if one of them is happy, the other one suffers and viceversa. Therefore, on the same day that Salomé celebrates her birthday and her newly discovered pregnancy, Lydia mourns the end of her relationship with her boyfriend, letting herself go to a lonely and alienated autumnal Paris that resembles Taxi Driver’s (1976) New York. However, when Salomé gives birth, Lydia runs into Milos (Alexis Manenti) – an insomniac bus driver that impersonates De Niro’s Travis Bickle and with whom Lydia previously had a fling – and realizes that the newborn represents a desperate attempt for her to finally feel loved.

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“LE RAVISSEMENT” DI IRIS KALTENBACK

Le vite di Lydia (Hafsia Herzi) e Salomé (Nina Meurisse) sono legate tra loro in modo speculare: quando una è felice l’altra soffre e viceversa. Così, lo stesso giorno in cui Salomè festeggia il proprio compleanno e l’appena scoperta gravidanza, Lydia piange la fine della relazione con il suo fidanzato, abbandonandosi a una solitaria e alienata Parigi autunnale che sembra la New York di Taxi Driver (1976). Quando Salomè partorisce, però, Lydia rincontra per caso Milos (Alexis Manenti) – insonne conducente di autobus che fa il verso al Travis Bickle di De Niro e con cui Lydia ha precedentemente avuto un’avventura – e si rende conto che la neonata rappresenta per lei il disperato tentativo per potersi finalmente sentire amata.

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TORINO FILM FESTIVAL – THE 41st EDITION

Article by Enrico Nicolosi

Translation by Francesca Borgheresi

The “minestrone” (“melting pot”), which Steve Della Casa has mentioned many times on his last year in office before passing over the direction to Giulio Base, doesn’t refer to one of the titles of the retrospective section dedicated to Sergio Citti, rather to the result of the selection made by the manager and his staff. It’s not a miscellany that risks displeasing anyone, but a compact and consistent organism, composed of films and different activities – masterclasses, unscheduled events, talk shows and conferences – which dialogues with each other because of both affinity and opposition, always having filmmaking as their only essential reference.

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TORINO FILM FESTIVAL. LA 41MA EDIZIONE

Il “minestrone” che Steve Della Casa – all’ultimo anno di mandato prima di lasciare la direzione a Giulio Base – ha più volte citato non si riferisce a uno dei titoli che compongono la retrospettiva dedicata a Sergio Citti, bensì al risultato della selezione attuata dal direttore insieme ai suoi collaboratori. Non una miscellanea che rischierebbe di scontentare chiunque, ma un organismo compatto e omogeneo, composto da film e diverse attività – masterclass, eventi fuori programma, talk e convegni – che risuonano l’un l’altro sia per affinità che per opposizione, avendo sempre come unico indispensabile referente il cinema.

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“RAZZENNEST” DI JOHANNES GRENZFURTHNER

Parlare di Razzennest non è certo compito semplice. Quando si deve scrivere dei film d’autore, quei film che impongono il maiuscolo all’intero vocabolo e non soltanto alla lettera iniziale, credo sia sempre doveroso lasciare il giusto spazio all’opera, senza ornarla di termini che, come orpelli, si fermano alla pura apparenza rivelandosi d’inutile lustro. Razzennest appartiene a questa tipologia di film – in grado di coniugare le semplici immagini sullo schermo con le emozioni dello spettatore; film capaci di rendere l’esperienza cinema – o meglio l’esperienza io/film – intima, personale, unica. Dirvi cosa potete vedere in Razzennest è compito impossibile, e quindi mi scuso se in questa recensione mi limiterò a dire ciò che ci ho visto io.

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“MARTYRS” DI PASCAL LAUGIER

Il 23° TOHorror Fantastic Film Fest omaggia i 15 anni di uno degli horror più violenti e divisivi degli anni 2000, un vero e proprio punto di non ritorno per la New French Extremity. Un anniversario non casuale quello dei quindici anni, che crea uno strano cortocircuito con il tempo della narrazione del film. Diviso in tre parti, tre tappe diseguali e in una certa misura incongrue stilisticamente (un prologo ambientato quindici anni prima fatto di traumi infantili e indagini della polizia, una seconda parte da revenge movie al femminile, una terza che vive senza la protagonista e si espande fino a toccare il misticismo e la filosofia), Martyrs è una riflessione complessa sul (non)senso delle sofferenze umane e – sorprendentemente – sull’amore.

Lucie è una bambina vittima di torture che viene ritrovata in strada dalla polizia. Nell’istituto in cui viene ospitata stringe un forte legame con Anna, che la sostiene durante le visioni e i flashback che la tormentano. Quindici anni dopo, Lucie riconosce i suoi aguzzini da una foto sul giornale e si reca a casa loro per vendicarsi. Anna la segue, ma non sa che la sua compagna rimarrà uccisa e inizierà per lei un calvario nelle grinfie di un’organizzazione disposta a tutto per scoprire che cosa può vedere dell’aldilà un essere umano sospeso fra la vita e la morte.

Ciò che continua ad affascinare di Martyrs è proprio il ruotare con prepotente insistenza teorica intorno al concetto di visione, alla sua potenza e alle sue infinite possibilità e al contempo alla sua totale, nichilista insensatezza. Il film stesso è un’orribile esperienza di visione al servizio del nulla, una sevizia gratuita che si concretizza plasticamente nell’ultima scena del film, con la negazione della rivelazione, dell’immagine che Anna è riuscita a portare indietro dall’estasi del martirio, la risposta ultima al senso della vita umana. “Rimanga nel dubbio”: è la beffa e l’invito finale, la consolazione paradossale che ci resta. Una frase lapidaria che riconsidera l’immaginazione contro il reame dell’occhio-certezza, l’abbandonarsi completamente alla vita, al flusso senza sosta della sofferenza, guidati solo dal filo di Arianna della nostra umanità (la voce di Lucie che sorregge Anna lungo le stazioni della croce, la musica dolce che Laugier sovrappone alle ultime scene di tortura). L’ultima cosa che lo spettatore vede è un super8 di Anna e Lucie bambine, quindici anni prima, che giocano nel parco dell’istituto. Un piccolo frammento estrapolato dal filmato di documentazione che la polizia mostra ad Anna all’inizio del film e che, risemantizzato negli attimi estremi del film, diventa la testimonianza intima di un aldilà illusorio ma sempre negato, come il cinema stesso.

Irma Benedetto

“LES CHAMBRES ROUGES” DI PASCAL PLANTE

Si sa, il cinema è fatto di immagini e parole. Queste però non devono per forza essere in sintonia; possono anzi contraddirsi, scontrarsi, delle volte addirittura annullarsi, lasciando così lo spettatore nel pieno di pensieri sconnessi, di riflessioni incontrollate, di teorie istintive. Alla costante ricerca di uno spazio ospitale che permetta di accogliere e dipanare i propri dubbi, in questi casi il pubblico trova nell’opera filmica non uno strumento grazie al quale arrivare a una conclusione, ma al contrario un luogo dove il peregrinare alla ricerca di una soluzione non è solo concesso, ma addirittura obbligato.

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“SHE’S CONANN” DI BERTRAND MANDICO

Dopo aver conquistato una piccola ma salda platea grazie alla sua folgorante opera prima Les Garçons sauvages – presentata alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia nel 2017 –, Bertrand Mandico si trova nella scomoda posizione di dover andare alla ricerca di nuovi adepti, cercando però di non trascurare il séguito già acquisito. Accade così che il suo terzo film, esattamente come After Blue (Paradis sale, 2021), riesca a divertire gli ormai affezionati spettatori torinesi del ToHorror Fantastic Film Fest senza però raggiungere le vette toccate dal suo esordio e da alcuni suoi cortometraggi – tra tutti Boro in the Box (2011) –, e senza coinvolgere i neofiti del suo cinema. Nonostante alcune, sempre più consapevoli, intuizioni e la solita abbacinante messa in scena, She’s Conann non riesce infatti a schiodarsi dallo status di divertissement fugace e passeggero. Definizione che rischia, a meno di un cambio di rotta, di estendersi ingiustamente a macchia d’olio sulla totalità dell’opera del regista transalpino.

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“HOME INVASION” DI GRAEME ARNFIELD

A partire da una serie di incubi ricorrenti in cui la propria dimora viene invasa, alcuni personaggi della storia recente perfezionano i propri dispositivi di sicurezza per accertarsi che nessuno entri in casa senza permesso. Tutto sembra ridursi a questo: poter dormire sonni tranquilli. Invece, la tecnologia che avrebbe dovuto tenerli al sicuro li soggioga e li tiene svegli, nell’ansia perenne che qualcuno possa improvvisamente rivelarsi davanti allo spioncino. Una perenne angoscia verso l’esterno che sfocia nel voyeurismo più estremo.


In anteprima nazionale al TOHorror Film Fest, Home invasion di Graeme Arnfield indaga le correlazioni tra tecnologia e paranoia ossessiva attraverso la storia del campanello che da dispositivo di comunicazione con l’esterno si trasforma in strumento di controllo, confine tra se stessi e gli altri, custode di una soglia terrificante, guardiano silenzioso e onnipresente dalle reminiscenze orwelliane. Ultimo progresso tecnologico, Ring è un videocitofono che invia notifiche al proprietario in tempo reale, consente di parlare con i visitatori e di aprire il portone anche a distanza. In realtà, Ring è un sistema altamente codificato in grado di raccogliere costantemente dati sulle abitazioni nei quali viene installato: la tecnologia dei campanelli diventa allora un’attività di controllo profondamente compenetrata, direttamente connessa al cloud e condivisibile sui propri account, facilmente violabile anche da polizia e tribunali in nome della “pubblica sicurezza”.

“Ring non è un’azienda di campanelli: è un’azienda di dati che vende campanelli”.

Continuamente invaso da didascalie esplicative con titoli sensazionalistici che ben ricalcano gli effetti della nevrosi a cui il controllo tecnologico pare averci condannato, Home invasion mischia filmati di sicurezza domestici, clip estratte da internet e immagini d’archivio, ma affonda a piene mani anche nella tradizione cinematografica in cui l’home invasion è un tema ricorrente fin da Griffith (Lonely Villa, 1909), mettendo in comunicazione l’attuale cultura del terrore all’audiovisivo che così fortemente la alimenta. Ogni immagine rimane vincolata e costretta all’interno di uno spioncino grazie al fish-eye con cui è costruito tutto il film, espediente estetico che costringe gli spettatori a prendere coscienza della loro complicità verso il sistema della sorveglianza. Come gli abitanti delle case americane selezionate da Arnfield, anche noi osserviamo il mondo esterno al sicuro nelle nostre poltrone, mentre il videocitofono registra animali incuriositi fuori dalla porta, corrieri negligenti che lanciano i pacchi in consegna e inquietanti performance davanti (e per) la camera.

Della psicosi collettiva che attanaglia l’intera popolazione non è esente neanche lo stesso regista Graeme Arnfield che ne è, anzi, la prima vittima: Home invasion è stato infatti diretto, sceneggiato e montato senza uscire di casa. Interamente “made in bed”, dimostra fino a che punto può arrivare l’alienazione privata.

Sara Longo

“SOBRE LAS NUBES” DI MARÍA APARICIO

A volte alcuni film hanno davvero il sapore del ritratto. Non si presentano spesso: d’altronde non è mai facile ritrarre qualcuno o qualcosa, ma una volta palesati in tutta la loro forza, diventa difficile uscirne indifferenti. Perché un ritratto ben fatto è così: ha il potere di rendere noto ciò che prima era sconosciuto ai nostri occhi, di rendere viva una tela, o, come in questo caso, di rendere viva una città partendo dai ritratti di coloro che la popolano.

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Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino