In un mondo in cui i vassoi volano autonomamente, a cosa servono i camerieri? Eppure, il Wizarding World ne è pieno. A cosa serve una pentalogia incentrata sul magizoologo Newt Scamander (Eddie Redmayne) e sulle sue animalesche avventure quando basterebbe un unico lungometraggio dal successo assicurato incentrato sullo scontro tra Silente e Grindelwald? Eppure, siamo già al terzo film.
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“DAYS” DI TSAI MING-LIANG
Dopo Stray Dogs (2013), film che ha richiesto uno iato lungo sette anni per vedere assorbita l’eco del suo silenzio, Tsai Ming-liang torna al lungometraggio di finzione con Days (2020). Nel tempo intercorso, una sottile metamorfosi ha attraversato sotterraneamente il suo fare cinema: se in Stray Dogs si può rilevare una radicalità espressiva che – oltre a riaffermare – potenzia i tratti distintivi di Tsai, in Days nessuna forma resiste. Se non come riverbero simulacrale di quanto è stato, formalismo ingenerato nell’occhio di chi guarda.
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Una coppia in crisi parte con i figli per un’ultima vacanza prima della separazione; la meta è un resort tropicale trovato su internet, un luogo apparentemente da sogno che si rivela teatro di avvenimenti oscuri e inspiegabili. Queste le premesse di Old, l’ultimo thriller di M. Night Shyamalan tratto dal graphic novel Château de sable. Il fumetto di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters diviene lo spunto perfetto per declinare temi e modi tipici del regista, che aggiunge un altro tassello al proprio universo fantastico e inquietante, dominato dal sovrannaturale. A minacciare i protagonisti, costringendoli a fronteggiare le proprie debolezze, è questa volta un’anomalia nello scorrere del tempo (ogni mezz’ora corrisponde a un anno), per cui la famiglia Capa si ritrova a invecchiare precocemente.
Shyamalan si confronta con una delle ossessioni più antiche dell’umanità, quella del tempus fugit, riaggiornandola alla luce delle nevrosi attuali, della coazione alla pianificazione e al consumo di esperienze, ambientandola nel contesto che più la esaspera: le vacanze. La nevrosi affligge gli adulti (il padre è un contabile fissato con le statistiche) quanto le nuove generazioni, come indicano i passatempi del piccolo Trent, che cataloga gli sconosciuti per nome e professione e programma per tappe il proprio futuro, con tanto di accenno al mutuo. Ma come ogni volta in cui il regista affronta la catastrofe questa si fa rivelazione, e il sovrannaturale è occasione per una presa di coscienza: ogni tentativo di spiegare il mondo è instabile e per quanto i personaggi affastellino teorie il mistero dell’isola resta insolubile. Come in The Happening (2008), ci si salva accantonando l’assillo interpretativo, riscoprendo i legami e il valore del qui e ora, e la rivelazione giunge tornando a costruire castelli di sabbia.
Laddove statisti e medici falliscono, la chiave sta dunque in un gioco tra bambini, in un messaggio in codice che richiede il salto della fede, non in un dio ma nel gioco narrativo. Ancora una volta in Shyamalan, le storie salvano così come si svelano, mettendo a nudo le proprie strutture: dalla compressione temporale permessa dal montaggio che si fa centro tematico, alla presenza del regista in scena (qui demiurgo e spettatore, che osserva i personaggi appostato su un’altura), all’elaborazione stilistica evidenziata dagli insistiti fuori-campo; l’impalcatura cinematografica si manifesta apertamente, senza però minare la sospensione dell’incredulità. Come a ribadire che il cinema è sì finzione, ma è una storia a cui vogliamo (e forse dobbiamo) credere.
Chiara Rosaia
“IN THE HEIGHTS” DI JON M. CHU
Washington Heights è un quartiere ispanico di Manhattan dove tutti coltivano un “sueñito”, un piccolo sogno. Usnavi gestisce una bodega insieme al cugino Sonny e sogna di tornare nella Repubblica Dominicana, suo paese di origine, per riaprire il vecchio bar del padre deceduto. L’amica Vanessa, di cui è innamorato, vorrebbe diventare stilista mentre Nina, l’orgoglio del quartiere, frequenta il prestigioso college di Stanford. Nel torrido caldo newyorkese che ricorda Do the right thing di Spike Lee, a ritmo di scene di festa collettiva in perfetto stile West Side Story, il nuovo musical di Jon M. Chu racconta una storia tanto allegra quanto politicamente necessaria.
“NOMADLAND” DI CHLOé ZHAO
Il film, vincitore del Leone d’Oro e di tre Oscar (miglior lungometraggio, regia, attrice protagonista) riflette, una volta di più nella storia del cinema, sul mito della frontiera, attualizzando l’ipotesi di Frederick Jackson Turner – secondo cui il mito è l’essenza stessa della cultura americana – in una rilettura personale e insieme universale.
Nomadland è il ritratto di un paese in continuo movimento, di una terra di instancabili viaggiatori che calcano le orme dei propri antenati, quei pionieri dallo spiccato senso pratico e dal sentito individualismo che hanno contribuito a dare forma all’America di oggi.
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Dopo più di tre mesi di lockdown, il 15 giugno le luci dei cinema si sono riaccese. Era un giorno molto atteso, carico di speranze e di timori nell’illusione che con l’arrivo di questa data avremmo capito il futuro del cinema. Ma se già si parlava di crisi delle sale prima dell’emergenza Covid-19, come aspettarsi un evento straordinario per il giorno della riapertura? Sono stati infatti 116 gli schermi attivati, neanche il 10% sul totale di 1.218 presenti sul territorio. I film proposti sono stati 41, dei quali soltanto 8 sono state prime visioni al cinema di film già disponibili al pubblico attraverso piattaforme on demand, come Les Misérables e Favolacce.
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“IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE” DI DIAO YINAN
L’opera seconda di Yinan è una sinfonia visiva. Un gangster movie dalle tinte noir, in cui immagini e suoni si completano a vicenda per formare un insieme armonico, in cui il silenzio e la violenza esasperata sono gli elementi dominanti di una messa.
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La corsa di Parasite è stata davvero lunga: ha riscosso l’attenzione internazionale nella scorsa edizione del festival di Cannes e ha continuato a farsi sentire fino agli Oscar di febbraio, ricevendo premi e consensi in tutto il mondo. Lo sconfinato thriller sud coreano firmato da Bong Joon-ho si è così imposto come il film dell’anno. Alla luce dei quattro premi Oscar vinti la notte del 9 febbraio, ancora, dopo mesi di attenzione mediatica, c’è chi si domanda: perché Parasite è stato un fenomeno così dirompente?
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Monroeville, Alabama, fine anni ’80. L’afroamericano Walter McMillian (Jamie Foxx) viene condannato alla pena capitale per l’omicidio, mai commesso, di una donna bianca. L’ avvocato Bryan Stevenson (Michael B. Jordan), neolaureato a Harvard, si interessa alla vicenda e, grazie al supporto della collega Eva Ansley (Brie Larson), decide di aiutarlo a uscire dal braccio della morte.
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“Tu hai una voce che potrebbe portarti ad Oz”. Quella di L. B. Mayer sembrava una promessa, invece è stata una maledizione. Basato sullo spettacolo teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter, il film di Rupert Goold è un biopic che racconta la vita di Judy Garland attraverso due livelli narrativi, l’inizio della sua carriera sul set de Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939), che girò quando ancora non aveva 17 anni, e i suoi ultimi concerti a Londra nel 1969.
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Nel pieno della Prima Guerra Mondiale, due giovani caporali britannici, Schofield (George MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) devono compiere una missione disperata. L’ordine è di attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio che impedirà a 1600 uomini, tra cui il fratello di Blake, di finire in una trappola mortale. Per portare a termine la missione i due soldati dovranno percorrere la terra di nessuno, oltrepassare le linee tedesche, attraversare trincee e città distrutte, in una terribile corsa contro il tempo che si trasformerà in un’odissea piena di pericoli e insidie.
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I titoli d’apertura sono accompagnati dal rumore dei carboncini che raschiano sulla carta e dalle mani di un gruppo di giovani allieve che cercano di tratteggiare la figura della loro maestra. Inizia quindi un lungo flashback in cui quest’ultima sarà la protagonista di una storia d’amore ardente, come il titolo stesso del film suggerisce. Nella Francia del 1700 la giovane pittrice Marianne (Noémie Merlant) si reca sulla suggestiva ed impervia costa del nord per realizzare il ritratto di Héloise (Adèle Haenel), un ex novizia costretta a subire il medesimo destino della sorella, morta suicida. Il dipinto è infatti commissionato dalla madre della ragazza (Valeria Golino) che vuole darla in moglie a un nobile milanese.
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Matteo Garrone adatta la favola di Collodi restituendo allo spettatore un ritratto dell’infanzia dal forte impatto visivo e un’ambientazione che è, al tempo stesso, onirica e cupa.
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Il secondo e ultimo capitolo di It, firmato dall’argentino Andrés Muschietti, è uscito nelle sale di tutto il mondo giovedì cinque settembre. Il plot è semplice: a ventisette anni dalla vittoria del club dei perdenti, quest’ultimi, adulti, devono ritornare nella loro odiata cittadina di Derry, su richiesta di Mike Henlon (Isaiah Mustafa), dopo aver scoperto che It si è risvegliato.
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Spencer Reinhard (Barry Keoghan) è uno studente di arte figlio di una famiglia borghese, ha talento ma la vita che si prospetta davanti a lui gli appare mediocre ed ordinaria; è alla ricerca di un’esperienza trascendentale che caratterizza i percorsi di molti artisti ed è disposto ad accoglierla anche se si trattasse di una tragedia. Anche Warren Lipka (Evan Peters) è uno studente benestante e annoiato che vuole emanciparsi da una vita di monotonia e mediocrità. La svolta nella loro vita arriverà con la scoperta che nell’università di Spencer sono conservati alcuni dei libri più pregiati d’America, volumi che valgono milioni di dollari, custoditi da un’anziana segretaria. Coinvolgono gli amici Chas ed Erik e organizzano il furto di queste opere preziose.
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È uscito in sala questa settimana l’ultimo film di Sameh Zoabi, Tutti pazzi a Tel Aviv (Tel Aviv on Fire), acclamato dalla stampa e lungamente applaudito alla 75 Mostra del Cinema di Venezia e il cui protagonista, Kais Nashif (Salam), è anche stato premiato come miglior attore nella sezione “Orizzonti”.
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Ricorda insieme Shakespeare, Il Padrino e la tragedia greca questo Oro verde: c’era una volta in Colombia. Ma leviamoci subito il sassolino dalla scarpa: nonostante le pur ammissibili analogie tra questo film e quello di Leone cui si rimanda nella traduzione italiana, la nostra distribuzione si è macchiata per l’ennesima volta di tradimento nei confronti del titolo originale, Birds of Passage, che vorrebbe raccontare, più che banalmente il plot, metaforicamente lo spirito dei personaggi coinvolti nella vicenda: uccelli di passaggio, per l’appunto, e non gangster del contrabbando.
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