Čechov coined a now well-known dramaturgical principle: if there’s a shotgun on stage, it must go off. Nina (Patricia L. Arnaiz), whose name directly references The Seagull, always carries that shotgun with her. After thirty years in Madrid, she returns to her hometown, ready to strike. Like a hunter, she waits for the perfect moment to exact revenge on the man who abused her when she was just a young girl, a niña.
Čechov ha coniato un principio drammaturgico ormai celebre: se in scena c’è un fucile, non può non sparare. Nina (Patricia L. Arnaiz), il cui nome rimanda proprio a Il gabbiano, quel fucile lo porta sempre con sé. Dopo trent’anni a Madrid, ritorna nella sua città natale, pronta a colpire. Come una cacciatrice, attende il momento ideale per vendicarsi dell’uomo che abusava di lei quando era ragazza, una niña.
A love story and the desire to create a family are the starting point of Abdelhamid Bouchnack’s film. Mariem, an orphan, who does not wear the veil, and Dalì, a Muslim who prays from time to time, are two young Tunisians who represent the avant-garde to which their country aspires. The birth of their child, however, reveals the deep uncertainties that govern a stagnant culture.
Una storia d’amore e il desiderio di creare una famiglia sono il punto di partenza del film di Abdelhamid Bouchnack. Mariem, orfana e senza il velo, e Dalì, un mussulmano che a volte prega e altre no, sono due giovani tunisini che rappresentano l’avanguardia a cui aspira il loro Paese. Tuttavia, la nascita di unə figliə fa emergere e rivela le profonde incertezze che governano una cultura stagnante.
The Belgian director Wannes Destoop at his debut feature, enacts in Holy Rosita, a simple, community-focused, hopeful story.
Rosita (Daphne Agten) lives in a working-class block of houses, she works a variety of jobs, and she spends most of her free time with the neighborhood children, who are the only ones capable of giving her a few carefree moments. Rosita has only one dream, to become a mother. However, just when she manages to get pregnant, she begins to be tormented by doubts, caused by the uncertainty of living up to the role, economic problems and the judgments of the community in which she lives.
Una storia semplice, comunitaria, piena di speranza, quella che Wannes Destoop mette in scena in Holy Rosita, opera prima del regista belga.
Rosita (Daphne Agten) vive in un caseggiato popolare, svolge lavori di vario tipo e trascorre gran parte del suo tempo libero in compagnia dei bambini del quartiere, gli unici capaci di donarle qualche momento di spensieratezza. Rosita ha un unico sogno, quello di diventare madre. Tuttavia, proprio quando riesce a rimanere incinta, la protagonista comincia a essere tormentata dai dubbi, dettati dall’incertezza di essere all’altezza del ruolo, dai problemi economici e dai giudizi della comunità in cui vive.
The Last Act – scritto e diretto dall’iraniano Paymon Shahbod – si apre nei corridoi di un ospedale di Teheran dove sono in corso le riprese di un film con protagonista l’attrice Farzaneh (Marjan Ghamari).
The Last Act – written and directed by the Iranian filmmaker Paymon Shahbod – starts in the hallways of a hospital in Tehran, where the shoots of a film starring actress Farzaneh (Marjan Ghamari) are underway.
After directing a series of short films focusing on socio-political issues, Mara Tamkovich makes her debut with her first feature film, evocatively titled Under the Grey Sky, which takes the viewer back to the events following the 2020 Belarusian elections and the events in Square of Changes in Minsk, where riot police attacked unarmed protesters during a peaceful demonstration after Lukashenko’s proclamation, resulting in arrests and violence.
Dopo una serie di cortometraggi incentrati su questioni politico-sociali, Mara Tamkovich esordisce con il suo primo lungometraggio dall’evocativo titolo Under the Grey Sky che riporta lo spettatore alle vicende seguite alle elezioni bielorusse del 2020 e ai fatti di Piazza del Cambiamento a Minsk dove, dopo la proclamazione di Lukashenko, durante una manifestazione pacifica la polizia antisommossa attaccò i manifestanti inermi compiendo arresti e violenze.
It was August 26, 1950, when a man was walking through the streets of Turin for the last time. A farewell to the world, maybe a last weak unheard cry for help, and ultimately, the fatal choice to leave behind a life he had never been able to fully embrace. Il mestiere di vivere begins from the end, from Cesare Pavese’s last day, perhaps wanting to immediately put on stage (and so set aside) what has too often obscured his fame.
Era il 26 agosto del 1950 quando un uomo passeggiava per le strade di Torino un’ultima volta. Un addio al mondo, forse un ultimo tenue grido di aiuto non accolto, infine la fatale scelta di abbandonare questa vita che non era mai stato in grado di vivere a pieno. Il mestiere di vivere inizia dalla fine, dall’ultimo giorno di Cesare Pavese, forse a voler mettere subito in scena (e quindi da parte) ciò che ha fin troppo oscurato la sua fama.
An extraordinary time-capsule takes us to the late 1970s Turin, where a lost youth experiences the birth of a phenomenon, the ‘ultras’, which would gradually become more and more important in the public life of our country.
Una straordinaria capsula del tempo ci trasporta nella Torino di fine anni Settanta, dove una gioventù smarrita vive la nascita di un fenomeno, quello ultras, che diventerà via via sempre più importante nella vita pubblica del nostro paese.
We are rarely forgiving with Italian fiction filmmaking. We tend to consider it like a box full of unassuming or mediocre products, but films like Il corpo prove us wrong.
Siamo spesso poco clementi con il cinema italiano di finzione. Tendiamo a considerarlo come uno scatolone pieno di prodotti scadenti o poco coraggiosi, ma film come Il corpo ci dimostrano che siamo in errore.
Quanta sofferenza c’è nel “diventare grandi”? Se nel suo primo lungometraggio Juana a los 12 (2014), il regista argentino Martín Shanly aveva esplorato le incertezze di una ragazza che non si sente all’altezza delle aspettative degli adulti, in Arturo a los 30 il protagonista (interpretato dallo stesso Shanly, anche co-sceneggiatore del film) è un adulto che non riesce a sentirsi tale. Arturo incarna il millenial perfetto: sempre sotto farmaci, senza un lavoro stabile e per questo costretto a casa dei genitori, incapace di creare relazioni o di gestire nuove responsabilità. Va avanti così fino a quando, il giorno del matrimonio di un’amica, sarà costretto a confrontarsi con la propria esistenza.
Attraverso la scrittura del suo diario, Arturo si muove avanti e indietro nella storia della sua vita cercando di darle ordine, mescolando passato e presente secondo una logica associativa più che cronologica. Un flashback dopo l’altro iniziamo a comprendere che c’è qualcosa di profondamente irrisolto nel suo percorso di crescita che gli impedisce di varcare la soglia dell’età adulta. Come il pipistrello imprigionato che sbatte contro le vetrate di una chiesa in una delle prime scene del film, Arturo è sospeso in una perenne adolescenza, mentre chi gli sta intorno continua a crescere. È incapace di affrontare i traumi della propria vita, metaforicamente rappresentati dal dito rotto che non si preoccupa di curare. Chiuso nelle proprie insicurezze, è incostante e sfuggente come Julie di The Worst Person in The World (Joachim Trier, 2021), ma porta su di sé anche un’inadeguatezza che ci ricorda Nanni Moretti, da cui eredita la struttura del cinema-diario e la passione per le abbuffate solitarie.
Sarà forse l’inizio della pandemia – quando “non esiste più un modo giusto di vivere la vita” – a permettere ad Arturo di uscire dalla sua immobilità. Tra speranze disattese e traumi rimossi, Martín Shanly riesce a costruire in maniera efficace il ritratto di una generazione grazie a un personaggio che, nella sua goffaggine e tenerezza, sa farci sorridere.
Dal buio della sala, allo sguardo è concesso di contemplare le sponde di un piccolo fiume immerso nel verde, ma quello che sembra un limpido corso d’acqua è in realtà un ammasso di fanghiglia e cadaveri dilaniati, resti di una battaglia appena conclusa. Con Kubi, Kitano Takeshi torna alla regia con un dramma storico ambientato nel Giappone feudale, esattamente vent’anni dopo il grande successo di Zatōichi (2003), dedicato all’epopea del samurai cieco.
«A me basta che i soldi siano veri» pronuncia il protagonista, un uomo che, come altri, si è recato in una lussuosa villa ottocentesca per vendere il proprio corpo a entità misteriose in cambio di denaro. Uomini disperati disposti a sottomettersi all’ignoto pur di migliorare la propria condizione. The Complex Form, esordio del regista Fabio D’Orta, inserito nella sezione Crazies del Torino Film Festival 41, ci trascina in un’attesa estenuante che sembra non risolversi mai.
La 41ª edizione del Tff termina con la proiezione di Christine – La macchina infernale, horror del 1983 con cui Steve Della Casa decide di concludere i suoi due anni di direzione del festival. La scelta non è casuale: il film di John Carpenter fece parte, più di vent’anni fa, di una delle retrospettive dedicate ai cineasti americani poco compresi e un po’ snobbati dalla critica, come George Romero e John Milius. A quarant’anni dall’uscita nelle sale, Della Casa propone una lettura diversa di uno degli horror più riusciti e sottovalutati di Carpenter, tratto da uno dei romanzi più belli e trascurati di Stephen King. Un’opera rimasta in disparte, all’ombra dei film più noti del regista, come La cosa (The Thing, 1982) o Halloween (1978).
Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino
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