Il grande schermo ha da sempre dedicato attenzione allo spietato mondo dell’agonismo fisico e sportivo più tradizionale e, tra le opere recenti, possiamo ricordate Il cigno nero (Black Swan, 2010) di Darren Aronofsky oppure Tonya (I, Tonya, 2017) di Craig Gillespie. Negli ultimi anni l’interesse verso la competizione sportiva ha cominciato a includere categorie “anomale”, come ad esempio gli e-sports. In Italia un significativo passo avanti nella rappresentazione di questo mondo è stato fatto dal documentario Game of The Year del 2021 diretto da Alessandro Redaelli, forse il primo vero appassionato tributo al panorama videoludico nostrano.
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“GORGONA” DI ANTONIO TIBALDI
Quotidianità e lavoro. Due entità inseparabili nella casa di reclusione di Gorgona, un’isola-carcere a diciannove miglia di distanza dalle coste della Toscana. Un penitenziario concepito come colonia agricola. Un luogo dove culture, religioni, politica e musica s’incontrano senza scontrarsi. Uno spazio distante dal mondo reale. Un territorio dove addirittura i giornalisti perdono le coordinate del loro mestiere e a tratti si comportano come se stessero assistendo a uno spettacolo esotico da scoprire e da ammirare più che da analizzare con raziocinio.
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Che la Corea del Sud abbia un crescente problema con il lavoro è risaputo – lo testimonia il recente tentativo da parte del governo di aumentare le ore settimanali di lavoro da 52 a 69. Eppure la ‘palma’ della nazione più workaholic, almeno agli occhi del mondo occidentale, spetta ormai da decenni ai giapponesi. È proprio questo vuoto rappresentativo – in minima parte affrontato dai k-dramas esportati in tutto il mondo – che July Jung cerca di colmare con il suo secondo lungometraggio Next Sohee, presentato durante la Semaine de la critique del 75esimo Festival di Cannes, e ora film d’apertura della quarta edizione dei Job Film Days. Un film che ne contiene due, i quali non si oppongono l’uno all’altro ma cooperano per raggiungere la radice del problema, evitando di fermarsi sbrigativamente al primo e più superficiale colpevole.
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In The Visitors la regista Veronika Lišková si interroga su quale possa essere l’impatto delle scienze sociali sulla comunità, seguendo il lavoro svolto dalla sociologa (e amica) Zdenka nel suo progetto di analisi dei mutamenti sociali causati dai cambiamenti climatici nelle isole norvegesi Svalbard (nel circolo polare artico). Il film, in concorso nella sezione lungometraggi del Job Film Days, nonostante il nobile intento, fatica nella costruzione narrativa, perdendosi nei fili tematici che non vengono mai esaustivamente intrecciati tra di loro e smarrendosi nel tentativo di mostrare in che termini le scienze sociali possano essere uno strumento risolutivo per la crisi di una comunità.
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Vincitore della Palma d’oro come miglior film al 61esimo Festival di Cannes nel 2008, Entre les murs di Laurent Cantet è uno dei film che la quarta edizione di Job Film Days sceglie per omaggiare Laurent Cantet e al contempo per dare spazio al lavoro dell’insegnamento e alla scuola, luogo privilegiato per osservare da vicino le sfide di una società sempre più complessa. François Marin, interpretato da François Bégaudeau, l’autore dell’omonimo romanzo semi-autobiografico da cui è tratto il film, fa l’insegnante di lettere in una scuola secondaria nella periferia di Parigi. Come gli altri insegnanti della scuola, ogni giorno deve fare i conti con una classe piuttosto difficile: le sue lezioni vengono spesso interrotte da battute, commenti e provocazioni che, seppur fuori luogo, non mancano di sottolineare il divario che lo separa dai suoi allievi, perlopiù immigrati di prima o di seconda generazione. Il film segue le vicende di François e della sua classe durante tutto l’anno scolastico, tra litigi, incomprensioni e difficoltà d’ogni genere.
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Un planisfero con un enorme spazio bianco al suo interno: è questa la superficie su cui scorre il titolo dell’ultimo film di Matteo Garrone, Io capitano, vincitore del Leone d’argento per la regia all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un’immagine eloquente, che incarna l’idea di un’assenza di confini, di limiti. Eppure un limite i due protagonisti della storia, i cugini sedicenni Seydou (Seydou Sarr, insignito del premio Mastroianni come attore emergente) e Moussa (Moustapha Fall) ce l’hanno davanti ogni giorno: quello rappresentato dalla loro città natale, Dakar. I due sognano di lasciarla e di partire per fare fortuna in Europa. Senza dire niente alle proprie famiglie e dopo aver raccolto i soldi necessari, intraprendono una traversata che dal Senegal li porterà alle coste dell’Italia; ma non sarà un viaggio privo di difficoltà.
Continua la lettura di “IO CAPITANO” DI MATTEO GARRONE“JEANNE DU BARRY” DI MAïWENN
Inaugurata lunedì 17 luglio e in programma fino a fine mese, la Rassegna Cannes mon Amour propone un’ampia selezione di film dell’ultimo festival di Cannes in alcuni cinema di Roma, Milano, Torino, Bologna e Firenze. La prima serata è stata inaugurata dal film che ha aperto la 76° edizione del festival di Cannes, Jeanne du Barry, storia di una cortigiana di umili origini che si aggiudicò il titolo di ultima favorita del Re di Francia Luigi XV.
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Animali Selvatici – l’ultimo lungometraggio del cineasta romeno Cristian Mungiu, presentato in concorso al Festival di Cannes del 2022 – si apre con un’apparente e spiazzante contraddizione: nessun titolo di testa, nessun preambolo; solo una delle inquadrature a macchina fissa a cui ci ha tanto abituati nelle sue pellicole precedenti, che si focalizza su un bambino che esce di casa per andare a scuola. Dopo uno stacco di montaggio, la macchina da presa segue di spalle il bambino mentre attraversa il bosco dietro casa: lo sorpassa e si immobilizza nel momento in cui si ferma anche il bambino, il cui sguardo si è posato su qualcosa fuoricampo tra i rami alti degli alberi. Stacco al nero, cominciano a scorrere i titoli di testa. Più che in medias res, si dovrebbe parlare in questo caso di un incipit in medium nullum.
Leggi tutto: “ANIMALI SELVATICI” DI CRISTIAN MUNGIU Continua la lettura di “ANIMALI SELVATICI” DI CRISTIAN MUNGIU“RAPITO” DI MARCO BELLOCCHIO
Alla fine è tutto nello sguardo, sembra volerci dire Marco Bellocchio già nei poster e nelle locandine promozionali del suo ultimo film, Rapito, presentato in concorso alla 76sima edizione del Festival di Cannes. Lo sguardo del piccolo Edgardo Mortara (Enea Sala) – sestogenito di una famiglia bolognese ebrea prelevato nel 1858 dall’autorità pontificia perché segretamente battezzato e tradotto a Roma – rivolto verso noi spettatori mentre viene tenuto in braccio da papa Pio IX. Ed è proprio il suo sguardo il cuore del racconto: lo sguardo di un bambino che viene strappato a sei anni dalla sua casa, che del mondo non sa nulla. Specialmente del mondo cristiano. I suoi occhi si soffermano sulle immagini di Cristo, sulle icone che gli vengono continuamente messe sotto agli occhi per trasmettergli più efficacemente la “vera” fede. E l’operazione di conversione infine riesce, tant’è che Mortara avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni da missionario.
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Parigi, oggi. Sandra (Léa Seydoux) è una traduttrice e interprete vedova da cinque anni con una figlia piccola a carico, che si ritrova a fare i conti con la malattia degenerativa del padre (Pascal Greggory), ex professore universitario di filosofia, una situazione familiare turbolenta e una relazione extraconiugale con un amico di vecchia data, Clément (Melvil Poupaud). Il tutto avrà un forte impatto su di lei e sul suo modo di vivere e la spingerà a osservare il mondo da un’altra prospettiva.
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L’esordio alla regia di Laura Baumeister, in concorso alla 40esima edizione del Torino Film Festival, narra una storia crudele e dolorosa, in grado di unificare l’oppressione di cui è vittima il suo paese d’origine, il Nicaragua, con i soprusi ai quali la piccola Maria (l’energica e pensierosa Ara Alejandra Medal) è costretta a sottostare.
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Sono due le principali direttrici che si possono individuare quando si tratta di rappresentare gli animali al cinema: quella che li vede come soggetti emotivi familiari e rassicuranti, capaci di far commuovere e identificare lo spettatore, e quella che sottolinea la distanza e la qualità aliena del loro sguardo indecifrabile, che interroga e mette in crisi il punto di vista umano sul reale.
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Questa è “una storia che sa di tram che dalle borgate ti portano a Cinecittà per fare la comparsa”: la storia tutta italiana di un talento internazionale. Scritto e diretto da Adelmo Togliani e Daniele Di Biasio, Parlami d’amore ripercorre la carriera di Achille Togliani, cantante dalla voce di velluto e uomo bellissimo, un artista che, dalle riviste alle sale da ballo, ha accompagnato l’Italia nel dopoguerra e non l’ha lasciata più. Dopo aver lavorato come comparsa, iniziò la sua carriera di “idolo romantico” con i fotoromanzi al fianco di Sophia Loren, all’epoca Sofia Lazzaro, diventandone il fidanzato e riempiendo così le pagine della cronaca rosa.
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“Il Cristo in gola”, ultimo film di Antonio Rezza, completato diciott’anni dopo l’inizio della lavorazione, occasionalmente senza l’ausilio della sua storica partner teatrale Flavia Mastrella, è l’ennesima conferma della sua incredibile capacità di modellare il cinema alle sue esigenze performative, e mai viceversa. La scelta di utilizzare il linguaggio delle immagini per mettere in scena la sua particolarissima versione di Cristo, risulta evidente sin dall’inizio: la precisione, quasi filologica, con il quale l’attore originario di Novara traspone “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini viene squarciata dall’arrivo in scena dello stesso Rezza, creando una spaccatura insanabile tra questa e le precedenti rappresentazioni del figlio di Dio.
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“Per ricordare quel che è passato, andiamo piano, non c’è fretta”, canta Isabel Ruth ripercorrendo i passi di Ilda, personaggio che interpretò quasi sessant’anni fa nell’opera prima di Paulo Rocha, I verdi anni (1963). L’architettura narrativa di quest’ultima viene esplicitamente adottata dai due registi, João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata, come partitura per la loro ballade per i quartieri di una Lisbona ormai globalizzata e gentrificata.
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Campi sterminati, cieli lividi, vento che soffia impietoso: questo il paesaggio di Runner di Marian Mathias, crudo dramma sociale che racconta la scoperta dell’amore nell’immutabilità del Midwest americano. La storia di Haas, una sorta di Dorothy contemporanea che, come la protagonista de Il mago di Oz, viene colpita da un “ciclone” che la mette in viaggio: la scomparsa del padre e il pignoramento della casa. Partita alla volta dell’Illinois per soddisfare le ultime volontà del defunto, torna con la consapevolezza di poter scegliere del proprio destino.
Continua la lettura di “RUNNER” DI MARIAN MATHIAS“KRISTINA” di NICOLA SPASIC
Con molta delicatezza, Nikola Spasic ci racconta una storia in perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Un racconto per immagini iniziato sei anni fa con l’obiettivo di realizzare un’opera il cui centro narrativo fosse un soggetto forte. La protagonista di questa storia, Kristina, è una donna transgender che colleziona oggetti di antiquariato, ama i gatti e vive in una casa dal design ricercato ed elegante. Un ambiente, questo, completamente in contrasto con il suo lavoro. La donna, infatti, è una sex worker ma la sua professione non è il fulcro di ciò che vediamo sullo schermo. Quella che ci viene mostrata è una quotidianità perfettamente scandita e organizzata che pare quasi disturbata dagli incontri con i clienti. E ciò che rende più significativo e interessante il film di Spasic è il fatto che Kristina non sia un personaggio recitato da un’attrice professionista, bensì una persona reale alla quale il regista e la sceneggiatrice si sono voluti ispirare per costruire il film.
Leggi tutto: “KRISTINA” di NICOLA SPASICA differenza di ciò che ci si potrebbe aspettare, il sesso è un elemento esterno al film, sostituito dalla grande fede e spiritualità di Kristina. Molto significativo è l’incontro con Marko, un ragazzo conosciuto per caso e nel quale la protagonista continuerà a imbattersi ripetutamente, al punto da indurla a domandarsi se la presenza dell’uomo sia reale o il frutto della sua immaginazione. Durante un appuntamento i due hanno un dialogo intenso che li porta a confidarsi l’uno con l’altra e a parlare della loro fede. E con un gioco di campo-controcampo che, durante la scena, non li inquadra mai insieme, anche nello spettatore comincia a sorgere il dubbio sull’effettiva esistenza di Marko.
Kristina si rivela il luogo d’incontro tra la messa in scena e l’autenticità umana. Un omaggio a una vita “diversa” che trova la sua massima espressione nella scena finale, quando lo spettatore si trova a riflettere mettendo inevitabilmente in discussione anche sé stesso. Attraverso lo sguardo creativo del regista, Kristina diventa una persona alla quale è stata restituita appieno la propria dignità.
Gaia Verrone
Articolo uscito su «la Repubblica» il 2 dicembre 2022
“URBAN MYTHS” DI WON-KI HONG
La 40° edizione del Torino Film Festival apre le porte alle nuove tendenze del cinema horror attraverso una sezione competitiva: “Crazies” – sentito omaggio all’omonimo film cult di George A. Romero – si pone come obiettivo l’esplorazione di nuovi linguaggi carichi di alta tensione. Il crazy che ha inaugurato la categoria parte dal principio, indagando le leggende che alimentano i nostri incubi quotidiani: attraverso dieci racconti a sé stanti, Urban Myths dà spazio a quelle storie di paura che ci raccontavamo da bambini e ci facevano subito sentire “grandi”. Ma libera anche quelle ingombranti presenze di cui, una volta cresciuti, non riusciamo a disfarci. I cortometraggi racchiusi all’interno del film indagano l’emarginazione della vita urbana in un’ottica terrificante: perseguitati dal proprio passato, i cittadini di queste città desolate non hanno altro confronto se non con i morti.
Continua la lettura di “URBAN MYTHS” DI WON-KI HONG“THE WOODCUTTER STORY” DI MIKKO MYLLYLAHTI
“Mi chiedo perchè il realismo venga circoscritto esclusivamente alla percezione del mondo in stato di veglia. Il sogno che ho fatto stanotte è parte della mia realtà tanto quanto il mio qui e ora”, spiega Mikko Myllylahti in merito al suo esordio come regista in The Woodcutter Story. La sua esplorazione di impressioni oniriche, immerse in un’atmosfera percossa da brividi esistenziali kafkiani, mette in scena dei personaggi stoici, seppur caricaturali, e saturati almeno quanto lo sono i colori che brillano sullo sfondo innevato di un’ambientazione anonima e atemporale.
Leggi tutto: “THE WOODCUTTER STORY” DI MIKKO MYLLYLAHTILa sceneggiatura si esprime, oscillante come un pendolo, per esitazioni, silenzi sospesi e dialoghi asciutti ma perentori e iperbolici, restituendo un clima assurdo dalla comicità spiazzante e inattesa. Un umorismo inevitabile, quello di Myllylahti, impiegato come meccanismo di difesa universale nell’affrontare i più grandi interrogativi filosofici. Il protagonista, Pepe, è un taglialegna affabile e inspiegabilmente ottimista la cui quiete e stabilità verranno messe a dura prova dalle più travolgenti avversità. Ma non è il solo: ciascuno dei personaggi satellite è alle prese con le proprie peripezie, che ostacolano inevitabilmente il loro percorso verso il tanto ricercato quanto fugace senso delle cose. Questo film, che si dimostra essere al contempo serio e ironico, metaforico e d’intreccio, immortala questi avvenimenti apparentemente effimeri con inquadrature che ci tengono a distanza, inasprendo l’estraniazione tra noi e i moventi dei personaggi. Anche in virtù di ciò il costume design assume un ruolo determinante, in particolar modo per permetterci di riconoscere il taglialegna, anche in un campo lunghissimo.
Una rielaborazione fiabesca e laica del Libro di Giobbe che, invece di prendere in esame il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza del male nel mondo, si interroga su come si possa resistere al nichilismo e trovare la forza di confidare nell’avvenire in un mondo il cui significato sembra essere stato da tempo deturpato. Non si tratta più di trovare, dunque, una verità univoca e rassicurante, ma di dare respiro all’ambiguità e accogliere le prospettive dell’assurdo per poter scorgere sfaccettature del reale che altrimenti avremmo ignorato. Potremmo quindi riconoscere in Pepe l’ingenua sintesi tra la perseveranza di Sisifo e il successo del Viandante sul mare di nebbia che, pur raggiungendo la cima della montagna, vi trova una visuale offuscata.
Yulia Neproshina
“CINQUE UOMINI, UN DIARIO AL DI LÀ DELLA SCENA” DI COSIMO TERLIZZI
Antonio, Abder, Bartek, Boubacar e Dorin sono i protagonisti del nuovo documentario di Cosimo Terlizzi che, attraverso un collage di vecchi filmati amatoriali, ci restituisce un frammento dell’intimità e della vita dei cinque attori. Un’opera intima che testimonia ciò che accade lontano dal palcoscenico e dai riflettori, rappresentando la vita dell’attore nel momento in cui non sta più mettendo in scena la sua arte.
Leggi tutto: “CINQUE UOMINI, UN DIARIO AL DI LÀ DELLA SCENA” DI COSIMO TERLIZZI“Non sono bravo a filmare e ancora meno a parlare davanti all’obiettivo, ma ho deciso di fare un diario della tournée per registrare i sentimenti e i dubbi al di là della scena”, queste sono le prime parole dette in camera da Antonio quando, nel 2008, decidee di filmare i suoi compagni di scena durante la tournée del loro spettacolo, Cinq Hommes, immortalando viaggi in treno, passeggiate notturne e, soprattutto, i momenti condivisi nel camerino e dietro le quinte. Nel corso documentario siamo accompagnati dalla voce in voice over di Antonio che ci narra ciò che stiamo vedendo, trasportandoci all’interno delle immagini.
Quello realizzato da Terlizzi, in soli 62 minuti, è un omaggio alla figura dell’attore, mai disgiunta però dalla sua condizione di uomo. Questo consente allo spettatore di entrare in punta di piedi nel camerino e di osservare la gioia, la soddisfazione, la delusione e la frustrazione che i cinque uomini hanno vissuto insieme. La scelta di lasciare riprese e sonoro al loro stato amatoriale è in grado di donare al girato un valore aggiuntivo, trasmettendo in chi guarda quella nostalgia che si prova nel rivedere immagini del passato.
Protagonista indiscusso del documentario, però, è il camerino. Un luogo di passaggio, fisico ma immateriale. Un “non luogo” all’interno del quale tutto si muove nell’ombra e nel silenzio. Lo spettatore viene così invitato in quello spazio del quale conosce l’esistenza ma che, allo stesso tempo, gli è sconosciuto. Un luogo privato, che esclude lo sguardo esterno nel quale siamo invitati a entrare solo grazie all’obiettivo di Antonio.
Gaia Verrone