Archivi tag: TFF40

“CHIUSURA” DI ALESSANDRO ROSSETTO

Rivedere a ventuno anni dalla sua uscita Chiusura di Alessandro Rossetto rende ancora più ardua l’analisi del film. Vedere un mondo che non c’è più, percepire la consapevolezza che esso stesso aveva di essere giunto a una fase terminale, la fine di un millennio e tutte le paure a esso annesse, genera nello spettatore un misto di ansia e tenerezza. C’è l’amore per un passato che sta svanendo ma, allo stesso tempo, la consapevolezza che non molto è cambiato. La provincia rimane a distanza di anni un luogo paludoso, stagnante, a cui è difficile fuggire ma che attraverso l’immagine cinematografica ha un richiamo romantico e affascinante. È proprio la capacità di mostrare questa doppia anima della provincia e questo scarto tra tradizione che svanisce e modernità che avanza a rendere grande il cinema di Alessandro Rossetto. Chiusura, come detto dallo stesso regista, è un film che a distanza di anni è diventato una riflessione sul tempo che passa.

Leggi tutto: “CHIUSURA” DI ALESSANDRO ROSSETTO

Il documentario, restaurato sotto la supervisione di Rossetto stesso dall’Istituto Luce, segue la chiusura del negozio di parrucchiera della signora Flavia dopo 44 anni di attività. Il regista, laureato in antropologia, osserva attentamente i piccoli gesti di questo mondo, le parole degli abitanti che lo abitano, i conflitti che lo animano. A questo mondo se ne affiancano altri: il circo che arriva in città e la squadra di calcio femminile locale. L’osservazione di questi mondi si concentra allo stesso modo sugli impercettibili riti e conflitti, sulle emozioni personali delle persone che li abitano.

Ad aleggiare su questo microcosmo è però la nebbia invernale, elemento costante del film, che amplifica la sensazione di staticità e pure di fine, di chiusura di un periodo giunto ormai al suo termine. A spiccare però è la bellezza di questi elementi e la capacità del cinema del reale di dare fascino alle cose della vita comune. La sensazione di paralisi trascende e diventa bellezza: i gesti, le parole e i discorsi personali divengono ammalianti e affascinanti agli occhi dello spettatore.

Il tempo trascorso amplifica quindi l’esperienza di visione di Chiusura, a cui la riflessione sul tempo e la fine di un’era si aggiunge la riflessione a posteriori su un periodo che ormai è trascorso, ma le cui emozioni e sensazioni rimangono ancora incredibilmente vivide.

Cristian Cerutti

“LA PIEDAD” BY EDUARDO CASANOVA

Article by: Romeo Gjokaj

Translated by: Rita Brigante

When Mateo (Manel Llunell) is diagnosed with brain cancer, his mother Libertad (Ángela Molina) gets the chance she was looking for: Mateo is now harmless, in need of care and attention that only she can give him. Eduardo Casanova proposes an Oedipal love story with his second full-length-film “La piedad”, presented in competition at the 40th edition of Torino Film Festival.

Read more: “LA PIEDAD” BY EDUARDO CASANOVA

Mateo never leaves home without his mother, they sleep together in the same bed, and whenever one of them gets sick, both of them experience symptoms. Their personalities are blended to the point that they sometimes get swapped or one merges with the other; they laugh, cry, and suffer together. Mateo was born to satisfy his mother’s need to be essential for someone. What scares Libertad is the prospect that one day her son will grow up and be independent, take a bath on his own, and leave home. She wants him to stay in their little bubble in which she breastfeeds him and nurtures him forever, even though he is a grown man. The relationship between mother and son is compared with the parallel story set in North Korea, where dictator and subject cannot live without each other. Firstly, Mateo’s absent father plays the tyrant’s role, as he appears in Mateo’s dreams in the place of di Kim Jong-un while killing a unicorn, but the son will soon realize that the real cause of his discomfort his is mother.

As it is true with his first work, Skins (2017), Casanova is not scared of showing images that bring cinema back to pure visual art, building a voyeuristic relationship among the viewers that ask themselves whether they want to keep looking at the screen or not. The colour pink dominates the scene, exposing and dissecting the characters’ unspeakable secrets. They lose their humanity and become torn, sick pieces of flesh. The director is much interested in psychic anomalies rather than physical ones. Therefore, Casanova investigates the result of the combination of two psychic disorders: firstly, the Münchausen syndrome by proxy is the syndrome which leads Libertad to keep her son in a sickly stage by secretly drugging him, and secondly, the Stockholm syndrome that leads Mateo back to his tormentor, his mother. The son’s Oedipus complex, which makes him hate his father (whom he replaces) without even knowing him, contributes to the couple’s toxicity. Moreover, even though his mother is the cause of all his misfortunes, Mateo cannot survive without her, since he does not conceive anything except the morbid love that has accompanied him from birth.

“LA PIEDAD” DI EDUARDO CASANOVA

Quando a Mateo (Manel Llunell) viene diagnosticato un cancro al cervello, la madre Libertad (Ángela Molina) ha l’occasione che cercava: Mateo è ora totalmente indifeso, bisognoso di cure e attenzioni che solo lei è in grado di fornirgli. È una storia di amore edipico quella che Eduardo Casanova ci propone nel suo secondo lungometraggio La piedad, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

Leggi tutto: “LA PIEDAD” DI EDUARDO CASANOVA

Mateo non esce mai di casa senza la madre, dormono insieme nello stesso letto e quando uno dei due si ammala anche l’altro avverte i sintomi. Le personalità dei due sono talmente amalgamate da arrivare a scambiarsi e fondersi, ridendo, piangendo e soffrendo insieme. Mateo è nato proprio per soddisfare il bisogno della madre di essere indispensabile per qualcuno. La prospettiva che un giorno Mateo cresca e diventi indipendente, si faccia il bagno da solo e esca di casa per conto suo, spaventa la madre che cerca di tenerlo in una bolla in cui resti per sempre il suo bambino, da allattare a accudire, anche ora che è ormai cresciuto. Il rapporto tra madre e figlio dialoga con la vicenda parallela ambientata in Corea del Nord, nella quale dittatore e suddito non possono fare l’uno a meno dell’altro. Se all’inizio per Mateo è il padre assente a ricoprire il ruolo di tiranno e ad apparirgli in sogno nelle veci di Kim Jong-un intento ad uccidere un unicorno, presto si renderà conto che è invece la madre la causa del suo malessere.

Così come nella sua opera prima, Pelle (2017), Casanova non ha paura di mostrare immagini attraverso cui il cinema ritorna pura arte visiva, creando un legame voyeuristico con lo spettatore che si chiede se continuare a guardare o distogliere lo sguardo. Il colore rosa domina la scena mettendo a nudo e sviscerando i segreti inconfessabili dei personaggi, che perdono la propria umanità per diventare semplici pezzi di carne lacerati e malati. Ma più delle anomalie corporee, sono quelle psichiche ad interessare il regista. Casanova infatti indaga il risultato della combinazione di due disturbi psichiatrici quali la sindrome di Münchausen per procura, che porta la madre a tenere il figlio in stato di malattia somministrandogli farmaci di nascosto, e la sindrome di Stoccolma, che induce il figlio a tornare dalla madre-aguzzina. Il complesso edipico del figlio, che odia il padre senza averlo mai conosciuto e al quale si sostituisce, contribuisce poi alla nocività della coppia. Così, nonostante la madre sia la causa di tutti i suoi mali, Mateo non può fare a meno di lei, perché non concepisce nulla di diverso da quell’amore morboso che lo ha accompagnato dalla nascita.

Romeo Gjokaj

“THE PLAINS” BY DAVID EASTEAL

Article by: Enrico Nicolosi

Translated by: Giuliano Gisotti

The Plains, David Easteal’s first feature film, is the Australian filmmaker’s experimental attempt to faithfully reconstruct his time spent in the car of Andrew Rakowski, a lawyer in his 50s returning home at the end of his workday in Melbourne’s outer suburbs. A work that eludes definition, a radical, yet malleable cinema verité.

Continua la lettura di “THE PLAINS” BY DAVID EASTEAL

“LA LUNGA CORSA” BY ANDREA MAGNANI 

Article by: Romeo Gjokaj

Translated by: Niccolò Sereno

The oyster that remains attached to the rock on which it was birthed by fate will live peacefully. The oyster that instead ventures into the unknown in search of fortune can only end up swallowed by the ocean. This is the so-called “Ideal of the Oyster”, which is essential in the events of “I Malavoglia” by Giovanni Verga and of “La Lunga Corsa”, the second movie by director Andrea Magnani and the only Italian feature film in competition at the fortieth edition of the Turin Film Festival. 

Leggi tutto: “LA LUNGA CORSA” BY ANDREA MAGNANI 

Giacinto (Adriano Tardiolo) was born and raised in prison, the only environment he recognizes as home during his training process. Abandoned by his parents, he is looked after by prison guard Jack (Giovanni Calcagno), who becomes his figure of reference. However, Jack would like Giacinto to go out and make a living away from the bars and narrow corridors through which the boy enjoys running despite it being forbidden. Thus, he takes him to a family house which, however, is more of a prison for the child than the prison itself. As soon as he gets the chance, he runs away and attacks a man to get arrested and be able to go “home”, but he discovers that children cannot go to prison. So, he tries again on his eighteenth birthday. Jack understands that Giacinto will never change his mind and has him hired as a guard in the penitentiary, which thus becomes a place of work, lodging and recreation for him.

If “Easy – Un viaggio facile facile” (2017), Magnani’s first work, was a classic road movie, here instead a static journey is presented: Giacinto runs for hours but never moves, he remains inside his miniature “Matrix”, preferring the blue pill to the red one (colors that, among other things, are recurrent in the film). He wants to stay locked up in his cave because he sees nothing interesting in the frenetic stillness that pervades the exterior, where people seem to do nothing but run aimlessly between circling buses and construction sites that have been standing still for years. 

Jack tries to get Giacinto to escape from what he sees as a mental cage without realizing that he himself is the first of the prisoners chained to a life that doesn’t satisfy him and from which he tries to escape by drinking in the evening. Giacinto doesn’t run to escape or to win a race; he runs to run, unlike those like Jack who would like to flee, but stand still in their perpetual unhappiness.

“VIENS JE T’EMMÈNE” BY ALAIN GUIRAUDIE

Article by: Federico Lionetti

Translated by: Anna Polimeni

In the theory of pre-established social relations, the practice of affection allows one to unhinge the certainties on which one individual bases his or her relationship with the other. Life is a tumult of unexpected encounters, of ephemeral and transitory desires, of painful external interferences and accidental impediments: men must get used to the mutability of life, making themselves and their desires as inconstant as the unpredictable circumstances of reality.

Continua la lettura di “VIENS JE T’EMMÈNE” BY ALAIN GUIRAUDIE

“FAIRYTALE” DI ALEKSANDR SOKUROV

La sostanziale differenza tra noi e la Storia è che questa non parla, siamo noi a costringerla a farlo. Cosa accadrebbe però se essa ci guardasse in faccia, ci prendesse per mano e iniziasse a parlarci del più e del meno, dei suoi rimpianti e dei suoi sogni irrealizzabili? È ciò che si propone di fare Aleksandr Sokurov con il suo Fairytale: far parlare spontaneamente la Storia, a bassa voce e con un leggero tocco di umorismo.

Leggi tutto: “FAIRYTALE” DI ALEKSANDR SOKUROV

Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini e Winston Churchill si ritrovano riuniti nell’aldilà a chiacchierare mentre vagano per una nebbiosa selva oscura in attesa che il guardiano della porta decida se farli entrare in Paradiso. Il contenuto di queste conversazioni? Sbeffeggiarsi reciprocamente cercando ciascuno di far valere i propri ideali politici e sociali, comprendendosi nonostante le lingue diverse. Discorsi che evidenziano la loro dimensione privata cancellando l’aura solitamente attribuita loro dalla funzione pubblica e dalla Storia stessa. La parola viene dunque usata come strumento per conciliare i diversi punti di vista e per cercare di rompere la barriera con il passato e l’immagine cristalizzata che di loro abbiamo. Costruito attraverso filmati d’archivio, senza l’intervento di deep-fake o altri strumenti di intelligenza artificiale, il film chiama in causa il rapporto con il reale, la verosimiglianza, la memoria e la smitizzazione di questi personaggi, obiettivo che non avrebbe potuto certo perseguire ricorrendo ad attori che sostituissero questi volti, corpi e gesti che hanno cambiato la storia. Le voci prestate ai protagonisti sono poi perfettamente rese da un ottimo lip-sync che infonde vita alle sbiadite immagini immerse nella nebbiosa reminiscenza del passato.

Sokurov tenta di dare un senso alle difficoltà che il genere umano sta attraversando oggi facendo un passo indietro e soffermandosi sulle figure che maggiormente hanno plasmato quella realtà che conosciamo, individuati inevitabilmente nei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, evento che più ha eradicato le convinzioni positiviste sul progresso umano. Provare ad empatizzare con figure come Hitler e Stalin è l’arduo compito proposto allo spettatore, che attraverso tale operazione scopre che ogni avvenimento storico, anche il più terribile e malvagio, nasconde al suo interno solo uomini.

Romeo Gjokaj

“SHE SAID” DI MARIA SCHRADER

Il peso insostenibile dell’ambiguità manipolatoria, della colpevolizzazione infondata, dei silenzi complici. Il nuovo lungometraggio di Maria Schrader, fuori concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival, è una denuncia contro Harvey Weinstein che sprigiona il desiderio di gridare di cui le donne sono state tanto a lungo private, riscattando così il diritto alla loro voce.

Leggi tutto: “SHE SAID” DI MARIA SCHRADER

Una giovane donna all’alba della propria carriera, con l’animo che pullula di sogni e gli occhi colmi di ingenua speranza, viene travolta da una richiesta tanto inattesa quanto inopportuna proprio quando pensava di partecipare a un incontro di lavoro. “Mi strappò via la mia voce quel giorno, proprio mentre stavo iniziando a trovarla”, rivela Laura Madden, confessando la convinzione che ebbe per anni di essere stata la sola a non aver avuto la forza di opporsi alle molestie dal potente quanto temuto produttore della Miramax. Laura era tutt’altro che sola, ma il suo persecutore è stato per lungo tempo tutelato da un consolidato sistema che proteggeva sistematicamente e scrupolosamente i molestatori. Le giornaliste del “New York Times” Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Zakan) intrapresero un’inchiesta investigativa per portare alla luce le molestie e gli abusi sessuali commessi da Weinstein, che aveva oltrepassato i limiti non solo delle relazioni professionali, ma anche i confini nazionali, compiendo innumerevoli soprusi anche oltreoceano. 

L’équipe di She Said è consapevole di raccontare una storia vera e non lascia spazio alla violenza gratuita, alla quale le donne sono già abbondantemente esposte. L’imponente presenza fisica di Weinstein è restituita dalle testimonianze orali delle donne che descrivono gli episodi nei quali è lui a detenere l’inequivocabile agency di carnefice. Emblematica, al contempo, è invece la sua voce, che sentiamo in voice over, violenta e prepotente quanto i soffocanti accordi che indusse le sue vittime a firmare, privandole “legalmente” della loro dignità. Ripercorriamo, guidati da queste testimonianze, gli spazi da cui avrebbero tanto voluto fuggire, come in un incubo dal quale non era loro concesso di risvegliarsi. Questo film, tuttavia, vuole essere altresì uno spazio sicuro per tutte le donne coinvolte per esprimersi e condividere la propria sofferenza e rabbia. Prime tra tutte Megan e Jodi, che seguiamo ben oltre i processi investigativi e che Maria Schrader ci rivela con grande sensibilità e rispetto. La collaborazione e supervisione delle dirette interessate e la loro concessione a entrare nelle rispettive vite private sono state senz’altro indispensabili per raggiungere l’obiettivo di realizzare un film di forte risonanza e che incoraggi le donne a fidarsi le une delle altre.

Yulia Neproshina

“RODEO” BY LOLA QUIVORON

Article by: Cristian Cerutti

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

“I think one of the great subjects of the film is Julia’s body […] I was obsessed with the idea that it was her female body that created the narrative” Lola Quivoron

To deny the name we are given at birth is to open the door to an endless series of new possibilities and expectations. This continuous denial and reshaping of identity is what Julia, the protagonist of Rodeo by Lola Quivoron, presented in competition at the 40th edition of the Torino Film Festival, pursues.

Read all: “RODEO” BY LOLA QUIVORON

Julia, who grew up in a deprived environment on the outskirts of Paris, finds her chance to escape from herself through her passion for motorbikes and for rodeos, a term that identifies dangerous clandestine events in the world of motorcycling where riders perform stunt-like evolutions. It is precisely at one of these events that the incident from which the story starts occurs: during a rodeo in which Julia participates with one of the many motorbikes she steals during the film, Abra – the only one to have shown any sympathy for the girl – dies in an accident. From this point begins the difficult grieving process that develops in both Julia’s psychic and social dimensions: Abra, who constantly returns in Julia’s dreams after his death, leaves a vacancy in the group of bikers (all male) to which he belonged, the B-More.

Julia then steps into this void by climbing the hierarchies and beginning a classic journey of rise and fall of the protagonist. It is precisely the way Julia climbs the hierarchies of the group that is the most interesting element of Rodeo: in fact, the protagonist introduces herself by denying her previous identity and identifying herself as ‘The Stranger’. This absence of identity allows her to perform different roles and behaviours in the various situations in which she finds herself, assuming different guises and a chameleon-like, undefinable identity. She is thus transformed into an elusive figure, a character who is difficult to pigeonhole both in her behaviour and in her gender affiliation, a figure who continually unsettles the people around her. A key element in these transformations is precisely the protagonist’s body, which constantly modifies itself and changes its outward appearance depending on the situation and the people around it.

This work on the body makes the film a work of flesh, blood, dirt and motors and gives it a fascinating visual dimension that points to an almost physical involvement of the spectator, an almost fashionable dimension in which much space is given to the link between rap music and motors.

“THE PLAINS” DI DAVID EASTEAL

The Plains, primo lungometraggio di David Easteal, è lo sperimentale tentativo di ricostruire, tramite un vero e proprio reenactment, il tempo trascorso dal regista australiano nella macchina di Andrew Rakowski, avvocato sulla cinquantina che torna a casa alla fine della giornata lavorativa nella periferia esterna di Melbourne. Un’opera che sfugge alle definizioni, un cinema del reale radicale, eppure malleabile.

Continua la lettura di “THE PLAINS” DI DAVID EASTEAL

“LA LUNGA CORSA” DI ANDREA MAGNANI

L’ostrica che rimane attaccata allo scoglio su cui il caso l’ha fatta nascere vivrà serenamente. L’ostrica che invece si avventurerà verso l’ignoto in cerca di fortuna non potrà che finire inghiottita dall’oceano. È così definito “l’ideale dell’ostrica” che accompagna le vicende dei protagonisti de I Malavoglia di Giovanni Verga e del film La lunga corsa, seconda opera del regista Andrea Magnani e unico lungometraggio italiano in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

Leggi tutto: “LA LUNGA CORSA” DI ANDREA MAGNANI

Giacinto (Adriano Tardiolo) nasce e cresce in carcere, unico ambiente che riconosce come casa nel corso del suo processo di formazione. Abbandonato dai genitori, viene accudito dalla guardia penitenziaria Jack (Giovanni Calcagno), che diventa il suo punto di riferimento. Jack vorrebbe però che Giacinto uscisse e si facesse una vita lontano dalle sbarre e dagli stretti corridoi per i quali il ragazzo si diverte a correre nonostante sia vietato. Lo porta così in una casa-famiglia che risulta però per il bambino una prigione più del carcere stesso. Appena ne ha l’occasione fugge e aggredisce un uomo per essere arrestato e poter tornare “a casa”, ma scopre che i bambini non possono andare in prigione. Ci riprova così il giorno del suo diciottesimo compleanno. Jack capisce che Giacinto non cambierà mai idea e lo fa assumere come guardia nel penitenziario, che diventa così per lui luogo di lavoro, alloggio e svago.

Se Easy – Un viaggio facile facile (2017), opera prima di Magnani, era un classico road movie, qui viene invece presentato un viaggio statico: Giacinto corre per ore ma non si muove mai, rimane all’interno della sua Matrix in miniatura, preferendo la pillola blu a quella rossa (colori tra l’altro ricorrenti nel film). Vuole restare rinchiuso nella sua caverna perché non vede nulla di interessante nel frenetico immobilismo che pervade l’esterno, dove le persone non sembrano far altro che correre senza meta tra autobus che girano in tondo e cantieri fermi da anni.

Jack cerca di far evadere Giacinto da quella che lui vede come una gabbia mentale senza però rendersi conto che è lui stesso il primo dei prigionieri, incatenato a una vita che non lo soddisfa e dalla quale tenta di scappare bevendo la sera. Giacinto non corre per fuggire o per vincere una gara; lui corre per correre, a differenza di quelli come Jack che vorrebbero fuggire ma rimangono immobili nella propria perpetua infelicità.

Romeo Gjokaj

“VIENS JE T’EMMÈNE” DI ALAIN GUIRAUDIE

Nella teoria delle relazioni sociali precostituite, la pratica degli affetti permette di scardinare le certezze su cui l’individuo fonda il rapporto con l’altro. La vita è un tumulto di incontri inaspettati, di desideri effimeri e transitori, di dolorose interferenze esterne e di impedimenti accidentali: l’uomo deve abituarsi alla mutevolezza della vita, rendendo se stesso e i propri desideri incostanti quanto le imprevedibili circostanze della realtà.

Continua la lettura di “VIENS JE T’EMMÈNE” DI ALAIN GUIRAUDIE

“UNREST” DI CYRIL SCHÄUBLIN

«Dopo il soggiorno di qualche settimana con gli orologiai, le mie opinioni sul socialismo sono state risolte: ero un anarchico.» Con questa frase di Pyotr Kropotkin estratta dalle sue Memorie di un rivoluzionario (1877), il regista Cyril Schäublin decide di iniziare il suo secondo lungometraggio “Unrest” nel quale, ricostruendo gli eventi del 1870, racconta come l’indipendenza del pensiero degli artigiani delle Montagne del Giura abbia acceso la scintilla per la nascita del movimento anarchico internazionale.

Continua la lettura di “UNREST” DI CYRIL SCHÄUBLIN

“RODEO” DI LOLA QUIVORON

“Penso che uno dei grandi soggetti del film sia il corpo di Julia […] Ero ossessionata dall’idea che fosse il suo corpo femminile a creare la narrazione” Lola Quivoron

Negare il nome che ci è stato assegnato alla nascita significa aprire le porte a una serie infinita di nuove possibilità e aspettative. Questa negazione e rimodulazione continua dell’identità è ciò che insegue Julia, protagonista di Rodeo di Lola Quivoron, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

Leggi tutto: “RODEO” DI LOLA QUIVORON

Julia, cresciuta in un ambiente disagiato nella periferia di Parigi, trova la propria possibilità di fuggire da se stessa attraverso la sua passione per le moto e per i rodeo, termine che identifica nel mondo motociclistico pericolosi eventi clandestini dove i piloti si esibiscono in evoluzioni simili a quelle degli stuntman. È proprio a uno di questi eventi che accade l’incidente da cui parte la vicenda: durante un rodeo a cui Julia partecipa con una delle tante moto che ruba nel corso del film, Abra – l’unico ad aver mostrato simpatia alla ragazza – muore in un incidente. Da questo punto inizia il difficle processo di elaborazione del lutto che si sviluppa sia nella dimensione psichica che sociale di Julia: Abra, che ritorna costantemente nei sogni di Julia dopo la sua morte, lascia un posto vacante all’interno del gruppo di bikers (tutti maschi) cui apparteneva, i B-More.

Julia si inserisce allora in questo vuoto scalandone le gerarchie e iniziando un classico percorso di ascesa e caduta della protagonista. Proprio le modalità con cui Julia scala le gerarchie del gruppo sono l’elemento più interessante di Rodeo: la protagonista si presenta infatti negando la propria identità precedente e identificandosi come “La sconosciuta”. Questa assenza di identità le permette di performare ruoli e comportamenti diversi nelle varie situazioni in cui si trova, assumendo vesti differenti e un’identità camaleontica e non definibile. Si trasforma così in una figura sfuggente, un personaggio difficilmente incasellabile sia nei comportamenti che nell’appartenenza di genere, una figura che spiazza continuamente le persone che le stanno intorno. Elemento chiave di queste trasformazioni è proprio il corpo della protagonista che si modifica continuamente e cambia il suo aspetto esteriore a seconda della situazione e delle persone che lo circondano.

È questo lavoro sul corpo che fa del film un’opera fatta di carne, sangue, sporco e motori e gli conferisce un’affascinante dimensione visiva che punta un coinvolgimento quasi fisico dello spettatore, una dimensione quasi fashion, in cui molto spazio viene dato al legame tra musica rap e motori.

Cristian Cerutti

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” BY LAV DIAZ

Article by: Alessandro Pomati

Translation by: Ana Paula Da Silva Costa

The Philippines, 1973. The Monzon family, one of the country’s most prominent industrial dynasties, is facing a dramatic transition. Their elderly patriarch, Servando Monzon III, is dying from pancreatic cancer and his heir, his grandson Servando VI, is tasked with running the family sugar plantations under Fernando Marcos bloody repressive regime. Their destiny will eventually cross that of a young serial murderer sentenced to death.

Read more: “A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” BY LAV DIAZ

Lav Diaz’s intention seems clear right from the opening credits: to make, as he himself states, a “novel-film” from the family saga of the same name by Filipino author Ricardo Lee.

Presented out of competition at the 79th annual Venice International Film Festival, the film takes up many literary topoi: the high-ranking lineage of the family that is centrepiece of the story, a historical background more or less influencing the choices of the protagonists, a tormented love between members of different classes and family secrets that will be revealed as the narrative goes on. Diaz elaborates all this through a style that has made him popular among film buffs all over the world over: black and white photography, fixed shots, and dilated time frames.

Yet, for the most part, it is the story rather than the way in which it is told that dominates the scene. A tale of ‘Filipino violence’ indeed, focusing on the bloody events in which the Monzons played a role over the centuries, and that do not seem to find an end. Diaz’s direction, although immediately recognisable, is almost invisible as it is put at the service of the story, its linearity, the melodramatic tone of the events embodied by characters and density of happenings.

However, in certain moments – ‘few’, actually, considering its seven hours of duration – the personality of the director emerges in silent, intimate, and nocturnal contemplative moments, poetic, fresh and almost unrelated to the narration, but above all in his attention to the history of his own country, the true protagonist. Through what at first glance would appear to be post-production oversights, such as sudden dips and rises in the audio, out-of-sync, rustling microphones on clothes, Diaz gives substance to the cracks in history letting them creep in amidst the rigorous images. And it is precisely these ‘out-of-tune’ sounds that make of this film an echo of the true lives of those men and women who inspired this tale.

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

Isole Filippine, 1973. I Monzon, una delle dinastie industriali più in vista del Paese, si trova di fronte a un passaggio drammatico: l’anziano patriarca, Servando Monzon III, è in punto di morte a causa di un tumore al pancreas, e il suo erede, il nipote Servando VI, ha il compito di guidare le piantagioni di zucchero di famiglia durante il sanguinoso periodo di repressione vissuto dal Paese sotto la dittatura di Fernando Marcos. Il destino della famiglia finirà con l’incrociarsi con quello di un giovane pluriomicida condannato a morte.

Leggi tutto: “A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

L’intento di Lav Diaz appare chiaro fin dai titoli di testa: realizzare, come lui stesso sottolinea, un “romanzo-film” a partire dall’omonima opera letteraria della saga familiare firmata dall’autore filippino Ricardo Lee. E. Il film, (presentato fuori concorso alla 79sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia) riprende infatti tutti gli elementi letterari: la stirpe di alto rango al centro del racconto, lo sfondo storico più o meno influente sulle scelte dei protagonisti, l’amore contrastato tra esponenti di classi diverse, i segreti di famiglia che verranno svelati con il procedere della narrazione. Ma Diaz li elabora attraverso lo stile che lo ha reso riconoscibile agli occhi della cinefilia mondiale: fotografia in bianco e nero, inquadrature fisse, tempi dilatati.

Eppure, per buona parte, a farla da padrone è la storia, piuttosto che il modo in cui viene raccontata; una storia di “violenza filippina”, appunto, che si concentra sulle sanguinose vicende di cui si è resa protagonista la famiglia Monzon nel corso dei secoli e che non sembrano trovare un epilogo. In tutto questo, la regia di Diaz, per quanto perfettamente riconoscibile, si configura quasi come invisibile mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, della linearità della narrazione, dei toni melodrammatici delle vicende incarnate dai personaggi, della densità degli avvenimenti.

In alcuni momenti (in verità “pochi” se rapportati alle sette ore di durata), emerge tuttavia la personalità del metteur en scène e il suo respiro: i suoi silenzi, i suoi momenti contemplativi intimi e notturni, poetici, ariosi e quasi estranei alla narrazione; e, soprattutto, l’attenzione per la Storia del suo Paese, la vera protagonista. Attraverso quelle che a prima vista sembrerebbero sviste della post-produzione, come improvvisi abbassamenti e innalzamenti dell’audio, fuori sincrono, fruscii di microfoni sui vestiti, Diaz dà corpo alle crepe della Storia e lascia che si insinuino in mezzo alle immagini rigorose. E sono proprio questi suoni “stonati” a far sentire nel film l’eco della vita vera degli uomini e delle donne che hanno ispirato il racconto.

Alessandro Pomati

“IPERSONNIA” BY ALBERTO MASCIA

Article by: Marco di Pasquale

Translated by: Arianna Deiro

The dystopian narrative, which became popular in 20th century literature and cinema, has always been an effective tool to analyse and discuss contemporary society’s problems and changes. Alberto Mascia, with his movie Ipersonnia, takes the topics which in the past years have generated intense debates in Italy and puts them in a near future. The high crime rate and the severe overcrowding in Italian prisons have pushed politicians towards an extreme solution: turning prison sentences into years of forced sleep.

Read more: “IPERSONNIA” BY ALBERTO MASCIA

David Damiani (Stefano Accorsi) is a psychologist whose job consists in periodically waking up inmates to monitor their mental health. The forced sleep takes a toll especially on the convicts’ brain, as they find it hard to distinguish dream from reality. Ipersonnia is based on such dichotomy and the movie’s atmosphere draws inspiration from films such as eXistenz (Cronenberg – 1999) or Memento (Nolan – 2000). The dreamlike element directly correlates to psychoanalysis and its immoral use combined with technology. Due to a brainwave inhibitor, the inmate is vulnerable while the psychologist can insert all kind of ideas in his mind, even potentially convincing him of being guilty of crimes he did not commit. Therefore, Ipersonnia presents a new and interesting interpretation of the “transplants” of ideas carried out by the protagonists of Inception (Nolan – 2010). While in Nolan’s movie the manipulation only took place in the dreamlike worlds created by people’s minds, in Ipersonnia the process happens while they are awake, through psychanalysis. Technological advance, combined with psychotherapy, allows for the destruction of all the barriers of the unconscious and sleep simply becomes a moment of stasis and imprisonment. Despite all the thematical and narrative suggestions, the style of the director remains inert, in function of a simpler understanding of the events of the film.

Prison overcrowding, justice and its problematic implementation are important issues of our society that are hinted at by the film, but are relegated to the background. The narrative turns mostly to conspiracy theories and to the deterioration of the power which is trying to take control of the citizen’s minds. Ipersonnia is part of the recent attempt by Italian productions to make the public interested in genre film once again. Such attempt is perhaps lacklustre in its comparison with dystopia, which would require a critical and in-depth analysis of such current and relevant issues, both in its content and in its form.

“IPERSONNIA” DI ALBERTO MASCIA

La narrazione distopica, affermatasi nella letteratura e nel cinema del Novecento, è da sempre un efficace strumento di analisi e discussione dei problemi e dei cambiamenti della società contemporanea. Alberto Mascia con il suo film Ipersonnia, sposta in un futuro prossimo argomenti che negli ultimi anni hanno generato intensi dibattiti nel nostro Paese. L’alto tasso di criminalità e il grave sovraffollamento delle carceri italiane hanno spinto la classe politica verso una soluzione estrema: trasformare la pena detentiva in anni di sonno forzato.

Leggi tutto: “IPERSONNIA” DI ALBERTO MASCIA

David Damiani (Stefano Accorsi), è uno psicologo che si occupa del risveglio periodico dei detenuti per monitorarne la salute mentale. I condannati subiscono gli effetti del sonno artificiale principalmente a livello cerebrale, facendo fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Su questa dicotomia si basa Ipersonnia, con atmosfere debitrici di film come eXistenz (Cronenberg – 1999) o Memento (Nolan – 2000). L’elemento onirico si lega direttamente alla psicanalisi e al suo uso immorale unito con la tecnologia. Attraverso un inibitore di onde cerebrali il detenuto rimane vulnerabile mentre lo psicoterapeuta può immettere nella sua mente ogni tipo di idea fino a convincerlo della colpevolezza di crimini non commessi. Ipersonnia propone quindi un’interessante rivisitazione degli “innesti” di idee effettuati dai protagonisti di Inception (Nolan – 2010). Se in quest’ultimo film la manipolazione si compiva interamente nei mondi onirici creati dalla mente, in Ipersonnia tutto questo avviene da svegli, attraverso la psicanalisi. Il progresso tecnologico combinato con la psicoterapia distrugge ogni barriera dell’inconscio e il sonno diventa un mero momento di stasi e di prigionia. Di fronte a queste suggestioni tematiche e narrative lo stile registico rimane tuttavia inerte, in funzione della semplice comprensione degli eventi del film.

Il sovraffollamento delle carceri, la giustizia e la sua problematica applicazione sono questioni importanti della nostra società che la pellicola accenna sommariamente, relegandole sullo sfondo. La narrazione vira piuttosto sul complottismo e sulla degenerazione del potere che cerca di prendere il controllo delle menti dei cittadini. Ipersonnia si inserisce nel recente tentativo della produzione italiana di riavvicinare il pubblico al cinema di genere, tentativo che risulta forse mancato proprio nel confronto con la distopia, che richiederebbe una visione critica e approfondita di questioni attuali così rilevanti, sia nella forma che nel contenuto filmico.

“FALCON LAKE” BY CHARLOTTE LE BON

Article by: Marta Faggi

Translated by: Sara Borraccino

On the shore of their lake, Chloé (Sara Montpetit) asks Bastien (Joseph Engel) what his greatest fear is: the boy smiles with a shrug and replies that it is masturbating in front of mom and dad. In tears Chloé confesses then her own: “I think my greatest fear is to be lonely all my life.”

Read all: “FALCON LAKE” BY CHARLOTTE LE BON

Charlotte Le Bon, in her directorial debut, plumbs the age of adolescence by telling the story of a summer interlude at the lake. To do so, she draws heavily from the graphic novel Una Sorella (Bao Publishing, 2018) by french author Bastien Vivès, in which we find a recollection of all the ambivalences of the early youthful desires. Falcon Lake focuses on the mutual attraction between the two main characters. Chloé is a 16-year-old girl who tries so hard to act like an adult even when she’d rather press pause on everything. It might be this nature of hers that drives her to seek out Bastien, who’s two years younger than her and is openly inexperienced and subjugated by the charm of her ostentatious and constructed confidence. The two kids are immortalized in their purest naiveté as they awkwardly discover each other’s bodies. In the background, the actual adults, the parents. In Una Sorella, Vivès never depicts their faces, because that story is not theirs. And Le Bon reproposes this choice in her own language, the language of film: the parents are relegated off-screen, the faces unseen, with only their voice as a testament of presence.

In the last act, Le Bon, also the author of the screenplay, detaches her work from the one her feature film is based on. The ending she chose for the male protagonist is symbolic of the core of adolescence itself, an age spent on the edge between life and death. “There are ghosts who do not know they are dead,” and it is these ghosts, with their desires, who make up our youth. The two kids live their experiences in an absolute and fatalistic way, without the emotional processing typical of those who have already gone through adolescence and emerged unscathed.

Falcon Lake does not stray very far from coming-of-age narrative clichés. Despite that, the director creates a space of rigorous representation in which the anxieties and discoveries of adolescence alternate, within which the viewer can find themselves and their own experience.

“COMA” DI BERTRAND BONELLO

“Cara Anna, non è la prima volta che mi rivolgo a te in questo modo”. È con queste parole che inizia l’ultimo film di Bertrand Bonello, una lettera aperta piena di amore e sensibilità rivolta alla figlia adolescente. Il regista aveva già cercato di comunicare con la ragazza attraverso il suo cinema con Nocturama (2016), di cui compaiono alcune immagini all’inizio del film in un montaggio così confuso da trasformarne i fotogrammi in pura astrazione. Se lo sforzo di entrare in contatto con la figlia non era allora riuscito dato che lei non ha visto il film, Bonello ci riprova, realizzando un’opera più intima, personale e al contempo universale che si rivolge alla figlia ma anche alle nuove generazioni.

Continua la lettura di “COMA” DI BERTRAND BONELLO