Archivi categoria: Occhio in sala

“IL MUTO DI GALLURA” DI MATTEO FRESI

Ispirato ai fatti realmente accaduti narrati nell’omonimo romanzo del 1884 di Enrico Costa , Il muto di Gallura è l’unico lungometraggio italiano in concorso al TFF 39. Nella Sardegna di metà Ottocento, una faida scoppia tra due famiglie galluresi innescando un conflitto che attraverso una catena di torti reciproci si protrae per diversi anni; in nome dell’antica e sacra legge del taglione, ben 70 persone vengono uccise, molte per mano di un ragazzo sordomuto, Bastiano Tarsu.

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“TITANE” DI JULIA DUCORNAU

Una bambina imita con la bocca il rumore del motore dell’auto su cui sta viaggiando con il proprio padre annoiato. La bambina all’improvviso si toglie la cintura e l’uomo perde il controllo del veicolo nel tentativo di riportarla all’ordine. In men che non si dica, la macchina è in panne al fianco del guardrail: il padre è quasi illeso, ma la bambina è gravemente ferita alla testa. In ospedale, le verrà applicata una placca di titanio sul lato destro della scatola cranica per riparare il danno; e la prima cosa che la bimba farà una volta uscita sarà andare ad abbracciare la macchina del padre, come se con questa “aggiunta” metallica lei e il veicolo fossero finalmente uguali: niente più imitazioni infantili.

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“IL BUCO” DI MICHELANGELO FRAMMARTINO

Dopo Le quattro volte (2010) e Alberi (2013) Michelangelo Frammartino torna in sala con Il buco, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival del Cinema di Venezia. Il film ricostruisce l’esplorazione di una delle grotte più profonde al mondo, l’Abisso del Bifurto, avvenuta nel 1961 in Calabria, per mano di un gruppo di giovani speleologi partiti dal Nord. Frammartino presta la propria ricerca cinematografica alla ricostruzione storica in un film che è un’esperienza avvolgente e sensoriale.

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“THE CARD COUNTER” DI PAUL SCHRADER

Una figura si aggira per i casinò d’America: una figura spesso vestita di nero o di grigio, un autentico pugno in un occhio se messa a contatto con le luci sgargianti delle slot machines; una figura dallo sguardo tagliente, profondo e impenetrabile; una figura che, soprattutto, vince sempre al tavolo del Black Jack, non somme grosse, ma comunque discrete; un uomo (Oscar Isaac) che si fa chiamare William Tell, un nome troppo “grosso” rispetto al suo modo di fare geometrico e schivo. E che tuttavia ha attirato degli sguardi su di lui: quello di una “agente” di giocatori d’azzardo (Tiffany Haddish), che lo vorrebbe nella sua scuderia; e quello di un ragazzo, Cirk (Tye Sheridan), che vorrebbe assoldarlo per una missione che affonda le mani proprio nel suo passato, un passato che William farebbe di tutto pur di sotterrare.

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“QUI RIDO IO” DI MARIO MARTONE

Nel 1904, Gabriele D’Annunzio mette in scena La figlia di Iorio. C’è grande attesa e sui giornali non si parla d’altro. Eppure, a una delle rappresentazioni svoltesi a Roma, c’è uno spettatore che, nel clima di grande tensione nella sala, riesce a stento a trattenere le risate. Questo individuo non si trova nelle file della platea, ma in alto, nei palchi, tra le autorità: il suo nome è Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), il “re” della commedia napoletana di quegli anni, che in quel momento sta portando a Roma il suo Miseria e nobiltà. Ma l’idea di realizzare un parodia della tragedia di D’Annunzio diventa per lui irresistibile. Il “re” chiede così udienza al “vate”, che gli dà il suo benestare per realizzare l’opera, che si intitolerà Il figlio di Iorio. Tuttavia, le cose non vanno come previsto e Scarpetta, privo di un qualsiasi documento che attesti l’approvazione di D’Annunzio, si ritroverà sotto processo per plagio.

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“MONDOCANE” DI ALESSANDRO CELLI

All’ombra dell’acciaieria di Taranto, in un futuro non meglio precisato, avvolta in una nube gialla abbacinante è sorta una piccola megalopoli, una favela. A nessuno che non sia autorizzato è permesso entrarci, ma i suoi abitanti, radunatisi in veri e propri clan, sono soliti compiere delle sortite all’esterno con intenti non particolarmente leciti, e si spartiscono il territorio al di qua del muro che separa la favela dal resto del mondo . Ma non tutti riescono a integrarsi nei clan di questa colonia, si accede solo su invito: è il caso di Pietro (Dennis Protopapa) e Cristian (Giuliano Soprano), due giovani al servizio di un burbero pescatore, che agognano un posto in una delle bande. Nel loro tentativo di emergere nel mondo della favela, incroceranno la loro strada con quella di una ragazzina proveniente dal mondo esterno e impiegata nell’acciaieria (Ludovica Nasti), e con quella di una tenace poliziotta determinata a porre fine alle scorribande dei clan (Barbara Ronchi), in particolare di quello delle “Formiche”, capitanato dal temibile “Testacalda” (Alessandro Borghi), a cui i due giovani finiranno con l’affiliarsi.

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“OLD” DI M. NIGHT SHYAMALAN

Una coppia in crisi parte con i figli per un’ultima vacanza prima della separazione; la meta è un resort tropicale trovato su internet, un luogo apparentemente da sogno che si rivela teatro di avvenimenti oscuri e inspiegabili. Queste le premesse di Old, l’ultimo thriller di M. Night Shyamalan tratto dal graphic novel Château de sable. Il fumetto di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters diviene lo spunto perfetto per declinare temi e modi tipici del regista, che aggiunge un altro tassello al proprio universo fantastico e inquietante, dominato dal sovrannaturale. A minacciare i protagonisti, costringendoli a fronteggiare le proprie debolezze, è questa volta un’anomalia nello scorrere del tempo (ogni mezz’ora corrisponde a un anno), per cui la famiglia Capa si ritrova a invecchiare precocemente.

Shyamalan si confronta con una delle ossessioni più antiche dell’umanità, quella del tempus fugit, riaggiornandola alla luce delle nevrosi attuali, della coazione alla pianificazione e al consumo di esperienze, ambientandola nel contesto che più la esaspera: le vacanze. La nevrosi affligge gli adulti (il padre è un contabile fissato con le statistiche) quanto le nuove generazioni, come indicano i passatempi del piccolo Trent, che cataloga gli sconosciuti per nome e professione e programma per tappe il proprio futuro, con tanto di accenno al mutuo. Ma come ogni volta in cui il regista affronta la catastrofe questa si fa rivelazione, e il sovrannaturale è occasione per una presa di coscienza: ogni tentativo di spiegare il mondo è instabile e per quanto i personaggi affastellino teorie il mistero dell’isola resta insolubile. Come in The Happening (2008), ci si salva accantonando l’assillo interpretativo, riscoprendo i legami e il valore del qui e ora, e la rivelazione giunge tornando a costruire castelli di sabbia.

Laddove statisti e medici falliscono, la chiave sta dunque in un gioco tra bambini, in un messaggio in codice che richiede il salto della fede, non in un dio ma nel gioco narrativo. Ancora una volta in Shyamalan, le storie salvano così come si svelano, mettendo a nudo le proprie strutture: dalla compressione temporale permessa dal montaggio che si fa centro tematico, alla presenza del regista in scena (qui demiurgo e spettatore, che osserva i personaggi appostato su un’altura), all’elaborazione stilistica evidenziata dagli insistiti fuori-campo; l’impalcatura cinematografica si manifesta apertamente, senza però minare la sospensione dell’incredulità. Come a ribadire che il cinema è sì finzione, ma è una storia a cui vogliamo (e forse dobbiamo) credere.

Chiara Rosaia

“IN THE HEIGHTS” DI JON M. CHU

Washington Heights è un quartiere ispanico di Manhattan dove tutti coltivano un “sueñito”, un piccolo sogno. Usnavi gestisce una bodega insieme al cugino Sonny e sogna di tornare nella Repubblica Dominicana, suo paese di origine, per riaprire il vecchio bar del padre deceduto. L’amica Vanessa, di cui è innamorato, vorrebbe diventare stilista mentre Nina, l’orgoglio del quartiere, frequenta il prestigioso college di Stanford. Nel torrido caldo newyorkese che ricorda Do the right thing di Spike Lee, a ritmo di scene di festa collettiva in perfetto stile West Side Story, il nuovo musical di Jon M. Chu racconta una storia tanto allegra quanto politicamente necessaria.

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“NOMADLAND” DI CHLOé ZHAO

Il film, vincitore del Leone d’Oro e di tre Oscar (miglior lungometraggio, regia, attrice protagonista) riflette, una volta di più nella storia del cinema, sul mito della frontiera, attualizzando l’ipotesi di Frederick Jackson Turner – secondo cui il mito è l’essenza stessa della cultura americana – in una rilettura personale e insieme universale.

Nomadland è il ritratto di un paese in continuo movimento, di una terra di instancabili viaggiatori che calcano le orme dei propri antenati, quei pionieri dallo spiccato senso pratico e dal sentito individualismo che hanno contribuito a dare forma all’America di oggi.

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“SPACCAPIETRE” DI GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

In concorso nella sezione “Giornate degli Autori” alla settantasettesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Spaccapietre dei fratelli De Serio porta sul grande schermo una storia dall’attualità spiazzante e insieme in grado di attraversare trasversalmente tempi diversi, collocandosene al di fuori: una storia assoluta.
Ambientato nelle periferie pugliesi dei nostri giorni, il film si addentra nei soprusi di un caporalato senza tempo, che oggi come ieri violenta la dignità dell’uomo. L’inesorabile movimento di discesa negli inferi di questa realtà si compie nel film con un andamento talmente naturale da turbare, come uno scivolamento che inevitabilmente conduca alla scoperta di un orrore sempre maggiore.

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“LE SORELLE MACALUSO” DI EMMA DANTE

Nella periferia di Palermo, in una grande casa avvolta in una perenne penombra, vivono da sole cinque sorelle, ognuna di loro diversa dalle altre quattro, sia per età sia per indole: chi ha sempre il naso dentro un libro; chi pensa solo a farsi bella; chi ha la passione per il cibo; chi sogna di diventare una ballerina; e chi, ancora, non ha una personalità ben definita, e guarda alle sorelle maggiori per capire chi vuole essere.

L’unico mezzo di sostentamento delle ragazze è l’allevamento e l’addestramento di colombe per i grandi eventi mondani. E quando non si occupano di questo compito a tratti snervante, le cinque sorelle vanno al mare, per ballare e per sconfiggere la canicola facendo un tuffo nell’azzurro male siciliano. Ma è proprio in questo luogo deputato al loro svago che si abbatterà la disgrazia che cambierà per sempre le loro vite.

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“MATTHIAS E MAXIME” DI XAVIER DOLAN

Lui si chiama Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas): 26 anni, promessa di un prestigioso studio legale canadese, irsuto, concreto. Lui si chiama Maxime (Xavier Dolan): 26 anni, barista, ipersensibile, una voglia rosso acceso sulla guancia destra, in procinto di lasciare il Canada per trasferirsi in Australia. I due sono amici sin dall’infanzia e nel corso degli anni hanno sviluppato un rapporto di fratellanza più di sangue che spirituale, onesto e scevro da qualsiasi imbarazzo.

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“VOLEVO NASCONDERMI” DI GIORGIO DIRITTI

Nell’Italia del primo dopoguerra, uno spettro si aggira per le campagne emiliane: vive in cascine abbandonate dove soffre il freddo e la fame; schiva la presenza umana in ogni sua forma; elabora composizioni pittoriche dal carattere primitivo, servendosi soltanto degli strumenti che la natura gli mette a disposizione. Questo spettro ha un’età e un nome: Antonio Ligabue, 20 anni, nato e cresciuto in Svizzera e in seguito estradato in Italia.

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“CATS” DI TOM HOOPER

Primo candidato alla vittoria dei Rezzie 2020 con 9 nominations, il discusso e travagliato film di Tom Hooper, Cats, è infine arrivato anche nei cinema italiani. E’ tratto dall’omonimo musical, uno dei più famosi per incassi e longevità, che aveva debuttato nel 1981 a Londra e continua tuttora a essere riproposto in tutti i teatri del mondo, Italia compresa.

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“IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE” DI DIAO YINAN

L’opera seconda di Yinan è una sinfonia visiva. Un gangster movie dalle tinte noir, in cui immagini e suoni si completano a vicenda per formare un insieme armonico, in cui il silenzio e la violenza esasperata sono gli elementi dominanti di una messa.

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“PARASITE” TORNA IN SALA DOPO IL PREMIO OSCAR

La corsa di Parasite è stata davvero lunga: ha riscosso l’attenzione internazionale nella scorsa edizione del festival di Cannes e ha continuato a farsi sentire fino agli Oscar di febbraio, ricevendo premi e consensi in tutto il mondo. Lo sconfinato thriller sud coreano firmato da Bong Joon-ho si è così imposto come il film dell’anno. Alla luce dei quattro premi Oscar vinti la notte del 9 febbraio, ancora, dopo mesi di attenzione mediatica, c’è chi si domanda: perché Parasite è stato un fenomeno così dirompente? 

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“IL DIRITTO DI OPPORSI” DI DESTIN DANIEL CRETTON

Monroeville, Alabama, fine anni ’80. L’afroamericano Walter McMillian (Jamie Foxx) viene condannato alla pena capitale per l’omicidio, mai commesso, di una donna bianca. L’ avvocato Bryan Stevenson (Michael B. Jordan), neolaureato a Harvard, si interessa alla vicenda e, grazie al supporto della collega Eva Ansley (Brie Larson), decide di aiutarlo a uscire dal braccio della morte.

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“MEMORIES OF MURDER” DI BONG JOON-HO

Corea del Sud, fine anni Ottanta. In una cittadina di provincia cominciano a essere rinvenuti cadaveri di giovani donne brutalmente assassinate, soffocate attraverso l’uso inconsulto dei loro stessi indumenti intimi. La polizia locale indaga, ma la scarsità di competenze e di adeguati strumenti d’indagine, unitamente alla mancata collaborazione della comunità locale, mette l’intero dipartimento in crisi.

A fare maggiormente le spese di questa crisi è il detective Park Du-man (Song Kang-ho), poliziotto dai sentimenti nobili ma dai modi bruschi, un po’ antropologo, un po’ chiromante, che si improvvisa anche membro della Scientifica, medico legale e aguzzino durante gli interrogatori.

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