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“RODEO” DI LOLA QUIVORON

“Penso che uno dei grandi soggetti del film sia il corpo di Julia […] Ero ossessionata dall’idea che fosse il suo corpo femminile a creare la narrazione” Lola Quivoron

Negare il nome che ci è stato assegnato alla nascita significa aprire le porte a una serie infinita di nuove possibilità e aspettative. Questa negazione e rimodulazione continua dell’identità è ciò che insegue Julia, protagonista di Rodeo di Lola Quivoron, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Julia, cresciuta in un ambiente disagiato nella periferia di Parigi, trova la propria possibilità di fuggire da se stessa attraverso la sua passione per le moto e per i rodeo, termine che identifica nel mondo motociclistico pericolosi eventi clandestini dove i piloti si esibiscono in evoluzioni simili a quelle degli stuntman. È proprio a uno di questi eventi che accade l’incidente da cui parte la vicenda: durante un rodeo a cui Julia partecipa con una delle tante moto che ruba nel corso del film, Abra – l’unico ad aver mostrato simpatia alla ragazza – muore in un incidente. Da questo punto inizia il difficle processo di elaborazione del lutto che si sviluppa sia nella dimensione psichica che sociale di Julia: Abra, che ritorna costantemente nei sogni di Julia dopo la sua morte, lascia un posto vacante all’interno del gruppo di bikers (tutti maschi) cui apparteneva, i B-More.

Julia si inserisce allora in questo vuoto scalandone le gerarchie e iniziando un classico percorso di ascesa e caduta della protagonista. Proprio le modalità con cui Julia scala le gerarchie del gruppo sono l’elemento più interessante di Rodeo: la protagonista si presenta infatti negando la propria identità precedente e identificandosi come “La sconosciuta”. Questa assenza di identità le permette di performare ruoli e comportamenti diversi nelle varie situazioni in cui si trova, assumendo vesti differenti e un’identità camaleontica e non definibile. Si trasforma così in una figura sfuggente, un personaggio difficilmente incasellabile sia nei comportamenti che nell’appartenenza di genere, una figura che spiazza continuamente le persone che le stanno intorno. Elemento chiave di queste trasformazioni è proprio il corpo della protagonista che si modifica continuamente e cambia il suo aspetto esteriore a seconda della situazione e delle persone che lo circondano.

È questo lavoro sul corpo che fa del film un’opera fatta di carne, sangue, sporco e motori e gli conferisce un’affascinante dimensione visiva che punta un coinvolgimento quasi fisico dello spettatore, una dimensione quasi fashion, in cui molto spazio viene dato al legame tra musica rap e motori.

Cristian Cerutti

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” BY LAV DIAZ

Article by: Alessandro Pomati

Translation by: Ana Paula Da Silva Costa

The Philippines, 1973. The Monzon family, one of the country’s most prominent industrial dynasties, is facing a dramatic transition. Their elderly patriarch, Servando Monzon III, is dying from pancreatic cancer and his heir, his grandson Servando VI, is tasked with running the family sugar plantations under Fernando Marcos bloody repressive regime. Their destiny will eventually cross that of a young serial murderer sentenced to death.

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Lav Diaz’s intention seems clear right from the opening credits: to make, as he himself states, a “novel-film” from the family saga of the same name by Filipino author Ricardo Lee.

Presented out of competition at the 79th annual Venice International Film Festival, the film takes up many literary topoi: the high-ranking lineage of the family that is centrepiece of the story, a historical background more or less influencing the choices of the protagonists, a tormented love between members of different classes and family secrets that will be revealed as the narrative goes on. Diaz elaborates all this through a style that has made him popular among film buffs all over the world over: black and white photography, fixed shots, and dilated time frames.

Yet, for the most part, it is the story rather than the way in which it is told that dominates the scene. A tale of ‘Filipino violence’ indeed, focusing on the bloody events in which the Monzons played a role over the centuries, and that do not seem to find an end. Diaz’s direction, although immediately recognisable, is almost invisible as it is put at the service of the story, its linearity, the melodramatic tone of the events embodied by characters and density of happenings.

However, in certain moments – ‘few’, actually, considering its seven hours of duration – the personality of the director emerges in silent, intimate, and nocturnal contemplative moments, poetic, fresh and almost unrelated to the narration, but above all in his attention to the history of his own country, the true protagonist. Through what at first glance would appear to be post-production oversights, such as sudden dips and rises in the audio, out-of-sync, rustling microphones on clothes, Diaz gives substance to the cracks in history letting them creep in amidst the rigorous images. And it is precisely these ‘out-of-tune’ sounds that make of this film an echo of the true lives of those men and women who inspired this tale.

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

Isole Filippine, 1973. I Monzon, una delle dinastie industriali più in vista del Paese, si trova di fronte a un passaggio drammatico: l’anziano patriarca, Servando Monzon III, è in punto di morte a causa di un tumore al pancreas, e il suo erede, il nipote Servando VI, ha il compito di guidare le piantagioni di zucchero di famiglia durante il sanguinoso periodo di repressione vissuto dal Paese sotto la dittatura di Fernando Marcos. Il destino della famiglia finirà con l’incrociarsi con quello di un giovane pluriomicida condannato a morte.

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L’intento di Lav Diaz appare chiaro fin dai titoli di testa: realizzare, come lui stesso sottolinea, un “romanzo-film” a partire dall’omonima opera letteraria della saga familiare firmata dall’autore filippino Ricardo Lee. E. Il film, (presentato fuori concorso alla 79sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia) riprende infatti tutti gli elementi letterari: la stirpe di alto rango al centro del racconto, lo sfondo storico più o meno influente sulle scelte dei protagonisti, l’amore contrastato tra esponenti di classi diverse, i segreti di famiglia che verranno svelati con il procedere della narrazione. Ma Diaz li elabora attraverso lo stile che lo ha reso riconoscibile agli occhi della cinefilia mondiale: fotografia in bianco e nero, inquadrature fisse, tempi dilatati.

Eppure, per buona parte, a farla da padrone è la storia, piuttosto che il modo in cui viene raccontata; una storia di “violenza filippina”, appunto, che si concentra sulle sanguinose vicende di cui si è resa protagonista la famiglia Monzon nel corso dei secoli e che non sembrano trovare un epilogo. In tutto questo, la regia di Diaz, per quanto perfettamente riconoscibile, si configura quasi come invisibile mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, della linearità della narrazione, dei toni melodrammatici delle vicende incarnate dai personaggi, della densità degli avvenimenti.

In alcuni momenti (in verità “pochi” se rapportati alle sette ore di durata), emerge tuttavia la personalità del metteur en scène e il suo respiro: i suoi silenzi, i suoi momenti contemplativi intimi e notturni, poetici, ariosi e quasi estranei alla narrazione; e, soprattutto, l’attenzione per la Storia del suo Paese, la vera protagonista. Attraverso quelle che a prima vista sembrerebbero sviste della post-produzione, come improvvisi abbassamenti e innalzamenti dell’audio, fuori sincrono, fruscii di microfoni sui vestiti, Diaz dà corpo alle crepe della Storia e lascia che si insinuino in mezzo alle immagini rigorose. E sono proprio questi suoni “stonati” a far sentire nel film l’eco della vita vera degli uomini e delle donne che hanno ispirato il racconto.

Alessandro Pomati

“IPERSONNIA” BY ALBERTO MASCIA

Article by: Marco di Pasquale

Translated by: Arianna Deiro

The dystopian narrative, which became popular in 20th century literature and cinema, has always been an effective tool to analyse and discuss contemporary society’s problems and changes. Alberto Mascia, with his movie Ipersonnia, takes the topics which in the past years have generated intense debates in Italy and puts them in a near future. The high crime rate and the severe overcrowding in Italian prisons have pushed politicians towards an extreme solution: turning prison sentences into years of forced sleep.

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David Damiani (Stefano Accorsi) is a psychologist whose job consists in periodically waking up inmates to monitor their mental health. The forced sleep takes a toll especially on the convicts’ brain, as they find it hard to distinguish dream from reality. Ipersonnia is based on such dichotomy and the movie’s atmosphere draws inspiration from films such as eXistenz (Cronenberg – 1999) or Memento (Nolan – 2000). The dreamlike element directly correlates to psychoanalysis and its immoral use combined with technology. Due to a brainwave inhibitor, the inmate is vulnerable while the psychologist can insert all kind of ideas in his mind, even potentially convincing him of being guilty of crimes he did not commit. Therefore, Ipersonnia presents a new and interesting interpretation of the “transplants” of ideas carried out by the protagonists of Inception (Nolan – 2010). While in Nolan’s movie the manipulation only took place in the dreamlike worlds created by people’s minds, in Ipersonnia the process happens while they are awake, through psychanalysis. Technological advance, combined with psychotherapy, allows for the destruction of all the barriers of the unconscious and sleep simply becomes a moment of stasis and imprisonment. Despite all the thematical and narrative suggestions, the style of the director remains inert, in function of a simpler understanding of the events of the film.

Prison overcrowding, justice and its problematic implementation are important issues of our society that are hinted at by the film, but are relegated to the background. The narrative turns mostly to conspiracy theories and to the deterioration of the power which is trying to take control of the citizen’s minds. Ipersonnia is part of the recent attempt by Italian productions to make the public interested in genre film once again. Such attempt is perhaps lacklustre in its comparison with dystopia, which would require a critical and in-depth analysis of such current and relevant issues, both in its content and in its form.

“IPERSONNIA” DI ALBERTO MASCIA

La narrazione distopica, affermatasi nella letteratura e nel cinema del Novecento, è da sempre un efficace strumento di analisi e discussione dei problemi e dei cambiamenti della società contemporanea. Alberto Mascia con il suo film Ipersonnia, sposta in un futuro prossimo argomenti che negli ultimi anni hanno generato intensi dibattiti nel nostro Paese. L’alto tasso di criminalità e il grave sovraffollamento delle carceri italiane hanno spinto la classe politica verso una soluzione estrema: trasformare la pena detentiva in anni di sonno forzato.

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David Damiani (Stefano Accorsi), è uno psicologo che si occupa del risveglio periodico dei detenuti per monitorarne la salute mentale. I condannati subiscono gli effetti del sonno artificiale principalmente a livello cerebrale, facendo fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Su questa dicotomia si basa Ipersonnia, con atmosfere debitrici di film come eXistenz (Cronenberg – 1999) o Memento (Nolan – 2000). L’elemento onirico si lega direttamente alla psicanalisi e al suo uso immorale unito con la tecnologia. Attraverso un inibitore di onde cerebrali il detenuto rimane vulnerabile mentre lo psicoterapeuta può immettere nella sua mente ogni tipo di idea fino a convincerlo della colpevolezza di crimini non commessi. Ipersonnia propone quindi un’interessante rivisitazione degli “innesti” di idee effettuati dai protagonisti di Inception (Nolan – 2010). Se in quest’ultimo film la manipolazione si compiva interamente nei mondi onirici creati dalla mente, in Ipersonnia tutto questo avviene da svegli, attraverso la psicanalisi. Il progresso tecnologico combinato con la psicoterapia distrugge ogni barriera dell’inconscio e il sonno diventa un mero momento di stasi e di prigionia. Di fronte a queste suggestioni tematiche e narrative lo stile registico rimane tuttavia inerte, in funzione della semplice comprensione degli eventi del film.

Il sovraffollamento delle carceri, la giustizia e la sua problematica applicazione sono questioni importanti della nostra società che la pellicola accenna sommariamente, relegandole sullo sfondo. La narrazione vira piuttosto sul complottismo e sulla degenerazione del potere che cerca di prendere il controllo delle menti dei cittadini. Ipersonnia si inserisce nel recente tentativo della produzione italiana di riavvicinare il pubblico al cinema di genere, tentativo che risulta forse mancato proprio nel confronto con la distopia, che richiederebbe una visione critica e approfondita di questioni attuali così rilevanti, sia nella forma che nel contenuto filmico.

“FALCON LAKE” BY CHARLOTTE LE BON

Article by: Marta Faggi

Translated by: Sara Borraccino

On the shore of their lake, Chloé (Sara Montpetit) asks Bastien (Joseph Engel) what his greatest fear is: the boy smiles with a shrug and replies that it is masturbating in front of mom and dad. In tears Chloé confesses then her own: “I think my greatest fear is to be lonely all my life.”

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Charlotte Le Bon, in her directorial debut, plumbs the age of adolescence by telling the story of a summer interlude at the lake. To do so, she draws heavily from the graphic novel Una Sorella (Bao Publishing, 2018) by french author Bastien Vivès, in which we find a recollection of all the ambivalences of the early youthful desires. Falcon Lake focuses on the mutual attraction between the two main characters. Chloé is a 16-year-old girl who tries so hard to act like an adult even when she’d rather press pause on everything. It might be this nature of hers that drives her to seek out Bastien, who’s two years younger than her and is openly inexperienced and subjugated by the charm of her ostentatious and constructed confidence. The two kids are immortalized in their purest naiveté as they awkwardly discover each other’s bodies. In the background, the actual adults, the parents. In Una Sorella, Vivès never depicts their faces, because that story is not theirs. And Le Bon reproposes this choice in her own language, the language of film: the parents are relegated off-screen, the faces unseen, with only their voice as a testament of presence.

In the last act, Le Bon, also the author of the screenplay, detaches her work from the one her feature film is based on. The ending she chose for the male protagonist is symbolic of the core of adolescence itself, an age spent on the edge between life and death. “There are ghosts who do not know they are dead,” and it is these ghosts, with their desires, who make up our youth. The two kids live their experiences in an absolute and fatalistic way, without the emotional processing typical of those who have already gone through adolescence and emerged unscathed.

Falcon Lake does not stray very far from coming-of-age narrative clichés. Despite that, the director creates a space of rigorous representation in which the anxieties and discoveries of adolescence alternate, within which the viewer can find themselves and their own experience.

“COMA” DI BERTRAND BONELLO

“Cara Anna, non è la prima volta che mi rivolgo a te in questo modo”. È con queste parole che inizia l’ultimo film di Bertrand Bonello, una lettera aperta piena di amore e sensibilità rivolta alla figlia adolescente. Il regista aveva già cercato di comunicare con la ragazza attraverso il suo cinema con Nocturama (2016), di cui compaiono alcune immagini all’inizio del film in un montaggio così confuso da trasformarne i fotogrammi in pura astrazione. Se lo sforzo di entrare in contatto con la figlia non era allora riuscito dato che lei non ha visto il film, Bonello ci riprova, realizzando un’opera più intima, personale e al contempo universale che si rivolge alla figlia ma anche alle nuove generazioni.

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“COMA” BY BERTRAND BONELLO

Article by: Fabio Bertolotto

Translated by: Laura Todeschini

‘Dear Anna, this is not the first time I have addressed you in this way’. It is with these words that Bertrand Bonello’s latest film begins. Words which pave the way to an open letter full of love and sensitivity addressed to his teenage daughter. The director had already tried to communicate with the girl through the cinema with Nocturama (2016). Some images of this film appear at the beginning of Coma in a confused montage that turns the frames into pure abstraction. The previous effort to get in touch with his daughter had been unsuccessful, since she had not seen the film. For this reason, Bonello tries again, making a more intimate, personal and, at the same time, universal work that addresses his daughter and also new generations.

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“FALCON LAKE” DI CHARLOTTE LE BON

Sono sulla riva del loro lago, quando Chloé (Sara Montpetit) chiede a Bastien (Joseph Engel) quale sia la sua più grande paura: il ragazzo sorride, scrolla le spalle e risponde che è masturbarsi di fronte a mamma e papà. Quando Chloé si confessa a sua volta, sta piangendo: «Credo che la mia più grande paura sia di sentirmi sola tutta la vita».

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Charlotte Le Bon, al suo esordio alla regia, scandaglia l’adolescenza mostrandola durante una parentesi estiva al lago. Per farlo, attinge a piene mani dalla graphic novel Una sorella (Bao Publishing, 2018) del francese Bastien Vivès, in cui vengono trattate le ambivalenze del desiderio giovanile al suo nascere. Falcon Lake si concentra sull’attrazione reciproca tra i due protagonisti. Lei, Chloé, è una sedicenne che si sforza di comportarsi da adulta anche quando vorrebbe solo darsi il tempo di cui ha bisogno. È forse proprio questo che la spinge a ricercare Bastien, di due anni più giovane di lei, apertamente inesperto e soggiogato dal fascino della ostentata e costruita sicurezza di lei. I due ragazzi sono immortalati nella loro più pura ingenuità, mentre scoprono, impacciati, uno il corpo dell’altra. Sullo sfondo del loro rapporto ci sono gli adulti veri e propri, i genitori. In Una sorella, Vivès non disegna mai i volti, perché quella non è la loro storia. Le Bon ripropone questa scelta nel suo linguaggio, quello cinematografico: i genitori sono relegati fuori campo, i visi non si vedono e rimangono soltanto le voci.

Nel finale, Le Bon, anche autrice della sceneggiatura, si discosta dall’opera su cui è basato il suo lungometraggio. La conclusione che ha scelto per il protagonista maschile è l’emblema dell’adolescenza in sé, rappresentata come un periodo della vita al confine tra la vita e la morte. «Ci sono fantasmi che non sanno di essere morti» e sono questi fantasmi, con i loro desideri, a popolare la giovinezza. I protagonisti vivono le loro esperienze in maniera assoluta e fatalista, senza l’elaborazione emotiva tipica di chi l’adolescenza l’ha già superata e ne è uscito indenne.

Falcon Lake non si allontana molto dai cliché narrativi del coming of age. Nonostante questo limite, la regista crea uno spazio di rigorosa rappresentazione in cui si alternano inquietudini e scoperte dell’adolescenza, dentro le quali lo spettatore può ritrovare se stesso e il proprio vissuto.

Marta Faggi

TORINO FILM FESTIVAL. THE 40TH EDITION

Article by: Davide Troncossi

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

With the presentation to the press of the Casa Torino Film Festival, the run-up to TFF40 came to an end. It will begin (screenings, events, masterclasses) on November 25th with the opening ceremony at the Teatro Regio in Turin, for the first time also broadcast live on radio as part of Hollywood Party on Rai Radio3, dedicated to «a tale through music and images on the relationship between the Beatles, the Rolling Stones and cinema».

Last week, the opening press conference of the event took place at the Cinema Quattro Fontane in Rome, celebrating the important milestone of its fortieth edition, coinciding with the long-awaited emergence from the devastating pandemic nightmare.

The promoters unveiled an ambitious, varied and richly innovative program, both in terms of the films on offer and the spaces for interaction between artists and the public, laying the foundations for an edition full of expectations.

In terms of logistics, the first novelty is the Casa Torino Film Festival, which will be located in the Cavallerizza Reale, also the festival’s Media Centre, thanks to the collaboration with our University. The centre aims to become «the nerve centre of the festival where most of the meetings and events will take place», as the new artistic director Steve Della Casa presented it (in fact a veteran already at the helm of the TFF between 1999 and 2002, and one of its founders in 1982 under the impetus of Gianni Rondolino and Ansano Giannarelli). Moreover, as summarised by the president of the National Museum of Cinema in Turin, the TFF’s promoting body, Enzo Ghigo, the entire city will be involved through a «look of the city that will go beyond the usual festival spaces to dress up the squares and streets of Turin with real works of art, created by the brilliant graphic trait of Ugo Nespolo, who also signed the guiding image». A sort of urban mapping that has long been in vogue in large metropolises and is likely to appeal to visitors of all ages.

Many guests will arrive in Turin during the festival, well-known faces from show business, music, cinema and beyond. The legendary protagonist of A Clockwork Orange, Malcolm McDowell (who will receive the Star of the Mole, will be honoured with a retrospective and will hold a masterclass), Paola Cortellesi, Toni Servillo, Mario Martone, Paolo Sorrentino, but also Vittorio Sgarbi, the singer Noemi, the producer Marina Cicogna, Michele Placido, Sergio Castellitto, the former goal twins Vialli and Mancini, Simona Ventura and many others will be among the guests.

As far as the program is concerned, in addition to a competition of national and international previews divided into the feature, documentary and short film sections, a rich out-of-competition section stands out (for a total of 173 works, 81 of which are world premieres) ranging from the solo show of the young Spanish director Carlos Vermut to the Portraits and Landscapes category, from the more “committed” section (Of Conflicts and Ideas) to the New Worlds of Auteur, up to Crazies, an anthology of films on what is new in horror production worldwide, destined to send the multitude of fans of the genre into raptures.

Malcolm McDowell

Not forgetting Back to life (the restored films), High Noon (the misunderstood classic American westerns), the homage to documentary filmmaker/collector Mike Kaplan, and the unfailing Masterclasses, what stands out is the strongly heterogeneous character of a program aimed at highlighting first works as well as average genre cinema (plus the so-called B-series production but with cult-movie potential), trying to be «a festival that remembers the past but thinks of the future, a festival that is cultured but popular, research but fun. A festival that wants to be a party».

With a keen eye on contemporary issues such as environmental sustainability, gender violence, which will also be remembered by the event’s patroness Pilar Fogliati with the anniversary of the International Day for the Elimination of Violence against Women, the many guests who will meet the public «telling their ideas and their point of view» and the varied schedule, the director emphasizes the festival’s desire to combine high and low culture, aiming to involve professionals from the sector, the event’s loyal audience and those who, intrigued by the novelties, will be able to approach the event.

TORINO FILM FESTIVAL. LA 40ma EDIZIONE

Con la presentazione alla stampa della Casa Torino Film Festival si è conclusa la fase di avvicinamento al TFF40 che aprirà (proiezioni, eventi, masterclass) il 25 novembre con la cerimonia di apertura al Teatro Regio di Torino, per la prima volta anche in diretta radiofonica all’interno di Hollywood Party su Rai Radio3, dedicata a “un racconto per musica e immagini sul rapporto tra i Beatles, i Rolling Stones e il cinema”. 

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“MI PIACE LAVORARE (MOBBING)” DI FRANCESCA COMENCINI

Mi piace lavorare (Mobbing) è la storia di Anna, una segretaria contabile – interpretata da Nicoletta Braschi – che vive con la figlia Morgana. Quando l’azienda in cui è impiegata viene assorbita da una multinazionale, il suo lavoro viene snaturato e le sue giornate si susseguono all’insegna di microaggressioni e di un progressivo isolamento. Job Film Days ne presenta una rara copia in 35mm per chiudere l’omaggio a Francesca Comencini.

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“EL GRAN MOVIMIENTO” DI KIRO RUSSO

Un anno dopo aver vinto il Premio speciale della giuria nella sezione Orizzonti della 78esima Mostra del Cinema di Venezia, El Gran Movimiento (2021) torna in Italia in occasione della terza edizione dei JOB FILM DAYS. A partire da un prologo (alla quale corrisponde un epilogo) debitore delle sinfonie urbane di matrice russo-tedesca, Kiro Russo intesse un racconto eccentrico e multiforme, in grado di guidare lo spettatore sia attraverso il caos della metropoli sia nei meandri della mente di Elder (Julio Cezar Ticona), il nostro pseudo-protagonista.

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“NON SONO MAI TORNATA INDIETRO” DI SILVANA COSTA

Quando Iolanda ha sei anni viene affidata in servizio a una famiglia. Iolanda cresce e nel frattempo nella famiglia nasce una nipote, Silvana: Iolanda l’accudisce e, tra le due, negli anni si sviluppa un rapporto simile a quello tra madre e figlia. Poco più che quarantenne, i nonni ormai scomparsi, Iolanda parte per il Canada in cerca della libertà. E’ una scelta difficile e coraggiosa; non torna più indietro. A distanza di molto tempo Silvana, ormai diventata ragazza e regista, decide di farne un film. Questo film: Non sono mai tornata indietro.

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“WOMAN AND THE GLACIER” DI AUDRIUS STONYS

“La mia prima idea era di fare un film su una donna fragile e sulle montagne eterne e solide, ma in realtà ho visto che le montagne, seppur forti, hanno anche una componente fragile” così Audrius Stonys descrive la genesi e gli sviluppi di Woman and The Glacier, presentato durante la terza edizione di Job Film Days, in collaborazione con il Politecnico di Torino, per discutere del sempre più rilevante argomento dei cambiamenti climatici e, nello specifico, della glaciologia.

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“THE GIRL FROM DAK LAK” DI MAI HUYEN CHI E PEDRO ROMAM

Un futuro promettente che non si rivela come tale, la solidarietà femminile, una ragazza che parte da una regione montagnosa per spostarsi nella grande città – Ho Chi Minh – “l’American Dream” del Vietnam; sono queste le linee narrative di un film lieve, The Girl From Dak Lak (proiettato ai Job Film Days 2022) che, pur senza una grande produzione alle spalle, riesce a scavare nella verità. Partita alla volta della metropoli in cerca di liberazione, Suong è ben presto rapita dalle dinamiche quadrate e meccaniche di una vita diversa da quella che aspettava.

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“TOMMASO BLU” DI FLORIAN FURTWÄNGLER

La recente ristampa di Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud del poeta-operaio Tommaso Di Ciaula, è l’occasione perfetta per godersi Tommaso Blu (1987) di Florian Furtwängler, pellicola tratta dal suddetto libro che, nonostante fosse stata girata in Italia e pensata per il pubblico italiano, rimase inedita nel nostro paese. Il proficuo incontro tra lo scrittore pugliese, il sociologo Peter Kammerer e il regista nipote del famoso compositore Wilhelm Furtwängler, portò alla creazione di un film profetico, capace di assorbire le idee anticapitaliste e rivoluzionarie dell’opera originale per tramutarle in un racconto lineare, ma non per questo meno sconvolgente.

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“WORKING CLASS HEROES” DI MILOŠ PUŠIĆ

In occasione del suo terzo lungometraggio, scelto come film d’apertura della terza edizione dei JOB FILM DAYS, Miloš Pušić narra, tra il serio e il faceto, una storia che si nutre di una messa scena cangiante e imprevedibile per mostrare la mancanza di tutele e diritti dei lavoratori in Serbia. Working Class Heroes racconta di un gruppo di operai edili alle prese con il completamento di un edificio in un clima di illegalità e corruzione. La società di costruzioni però li ha ingaggiati principalmente per far finta di lavorare, per convincere gli investitori, attraverso l’immagine distorta della televisione, della bontà del progetto. Il cantiere diventa quindi un set che alimenta il sogno, ormai marcio fino al midollo, della possibilità di convivere con queste condizioni.

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“CELLULOID BORDELLO” DI JULIANA PICCILLO

Scintillante, misterioso, condannato eppure bramato dagli occhi di tutti: nulla si presta a essere indagato dal cinema come il mondo del sex work. Celluloid Bordello, il documentario di Juliana Piccillo, presentato durante la quinta edizione del Fish&Chips Film Festival, si propone di raccontare il complicato rapporto tra sex workers e grande schermo, presentandone gli stereotipi, i pregiudizi e i luoghi comuni attraverso il punto di vista di chi ha scelto di svolgere questa professione.

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“IL SIGNORE DELLE FORMICHE” DI GIANNI AMELIO

1968. In un’aula di tribunale di Roma viene celebrato il processo a carico dell’intellettuale e drammaturgo piacentino Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), accusato di aver “plagiato” (cioè circuito a scopi sessuali) due ragazzi. La sentenza lo dichiarerà colpevole, condannandolo a nove anni di reclusione.

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