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“Nodo alla gola” (“Rope”) di Alfred Hitchcock

Il primo film a colori di Alfred Hitchcock, basato interamente sul piano sequenza, non è semplicemente un film sperimentale. La cura con cui vengono descritte due menti deviate che si macchiano di un omicidio per il puro gusto di farlo sfida il codice Hays con la sottintesa omosessualità di Brandon e Philip. I due sono legati da un rapporto servo-padrone: Brandon, la mente criminale attratta dal brivido del delitto perfetto, architetta un buffet sopra il sarcofago del morto, invitando – qui sta l’humour necrofilo e perverso – i parenti della vittima, nonché la sua fidanzata e il suo migliore amico. La provocazione di Brandon sta anche nell’invitare un suo vecchio insegnante di filosofia, Rupert Cadell (interpretato da James Stewart), intollerante verso le convenzioni sociali e sostenitore di una nietzschiana teoria sull’omicidio riservato a pochi eletti, ovviamente presa alla lettera e fraintesa dagli assassini.

Sarà il nervosismo di Philip, anello debole della catena, a fare insospettire Rupert e a portarlo allo svelamento dei colpevoli. Il titolo del film, infatti, non si riferisce soltanto allo strangolamento, ma anche al senso di angoscia provocato dall’uccisione. Ma la vera protagonista del film è la macchina da presa che segue i personaggi non solo nei loro movimenti, ma talvolta anche nei loro ragionamenti: lo dimostra la finale ricostruzione del delitto da parte di Rupert. I raccordi sulla schiena (la tecnica di allora non avrebbe permesso di realizzare un unico piano sequenza) e la recitazione degli attori condizionati dagli ostacoli del set e dall’ingombro dei macchinari tecnici, aumentano il senso di claustrofobia e tensione nevrotica. Non a caso, oltre a Nietzsche, viene più volte citato Freud: gli oggetti non sono semplicemente “prove” ma veri e propri “simboli”, come il portasigarette che serve a Rupert per incastrare i colpevoli.

Carlo Montrucchio, studente del Corso di Critica   cinematografica (DAMS, a.a. 2015-2016)

“Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese

Le cosiddette commedie casalinghe”, quelle giocate interamente su un gruppo di persone riunite attorno ad un tavol, sono diventate negli ultimi anni sempre più diffuse all’interno della cinematografia europea. Ha deciso di cimentarsi in questo particolare genere anche Paolo Genovese con il suo film Perfetti sconosciuti.

Il punto di partenza della vicenda è una proposta, apparentemente innocente, fatta dalla padrona di casa ai suoi ospiti: mettere il proprio cellulare sul tavolo e rivelare pubblicamente ogni tipo di comunicazione che verrà ricevuta nel corso della serata. Ben presto questo gioco si tramuterà in un massacro in cui ognuno vedrà svelati i propri segreti, presenti e passati. Le certezze che tutti avevano nei confronti dei loro amici o amiche, mogli o mariti, vengono sgretolate una ad una. Nessuno può fidarsi più di nessuno. Quelli che ognuno ritrova davanti a sé sono dei perfetti sconosciuti.

Il grande pregio di questo film, per certi versi apertamente comico, per altri decisamente malinconico, consiste nell’aver creato un’alchimia assoluta fra i sette attori coinvolti; infatti interagiscono fra loro con una naturalezza talmente disarmante da farli sembrare, anche nella vita reale, amici di lunga data.

Fra di loro spiccano Valerio Mastandrea (Lele) e Giuseppe Battiston (Beppe) ma sono tutti perfettamente adatti ai personaggi che interpretano e hanno saputo caratterizzarli al meglio. Ma prima di tutto sono da apprezzare i dialoghi, ai quali è stata prestata una cura tanto particolareggiata da non farli cadere mai nel banale, evitando così ogni tempo morto per l’intera durata del film. Infine è da notare la metafora dell’eclissi lunare, che segnala il fatto che venga illuminato il “dark side of the Moon” proprio mentre la Luna finisce per oscurarsi.

Mattia Olivero, studente del Corso di Critica cinematografica (DAMS, a.a. 2015-2016)