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“OUR LADY OF THE CHINESE SHOP” BY ERY CLAVER

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Marco di Pasquale

What Ery Claver tries to tell metaphorically with Our Lady of The Chinese Shop is the exploitation of Angola. After Portuguese colonialism, the country became the target of the economic interests of China, which has recently invested in several African countries to profit from the enormous mineral and natural resources.

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In a poor neighbourhood of Luanda, during the Covid-19 pandemic, hopes and fears are projected in plastic icons of Our Lady sold in a small Chinese shop. The owner, Zhang Wei (Meili Li), punctuates the timing of the story and his voice, in a mysterious and poetic tone, offers the viewer a further interpretation of what is shown by the camera. He, the omniscient narrator, sees and knows everything about the stories that intertwine in the film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumed by grief at the loss of her daughter, and Zoyo (Willi Ribeiro) in search of a missing friend. Their repressed resentment is reflected in the restless movements of the camera, which does not stop even in the most static scenes. The two characters metaphorically represent the country’s feelings of revenge against its rulers. If the old Portuguese colonisation is represented by the strong presence and importance of the Catholic religion in the community, Chinese economic dominance is shown through the bright neon signs of Xiaomi, a smartphone company.

The society represented by Ery Claver seems desperate for guidance. Religion has nothing to offer but plastic figures, while politics and its decadence are represented by a surreal and parodistic meeting of the Chinese Communist Party, staged in a city arena that was never completed and is now in ruins. The only way, the director suggests, is that of rebellion. Zoyo, in an act of desperation, destroys the Chinese shop and its icons, while Domingas finds her emancipation in revenge on her abusive husband responsible for the death of her daughter. The discourse brought forward by Ery Claver, through allegories and shots with a strong symbolic charge, takes on a universal character of protest against the new and silent forms of exploitation and colonialism perpetrated in poor countries throughout the world.

“OUR LADY OF THE CHINESE SHOP” DI ERY CLAVER

Quello che Ery Claver cerca di raccontare metaforicamente con Our Lady of The Chinese Shop è lo sfruttamento dell’Angola. Dopo il colonialismo portoghese il paese è diventato obiettivo degli interessi economici della Cina, che recentemente ha investito in diversi paesi africani per trarre profitti dalle enormi risorse minerarie e naturali.

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In un quartiere povero di Luanda, durante la pandemia di Covid-19, speranze e paure sono proiettate in icone di plastica della Madonna vendute in un piccolo negozio cinese. Il proprietario, Zhang Wei (Meili Li), scandisce i tempi del racconto e la sua voce, con tono misterioso e poetico, offre allo spettatore un’ulteriore interpretazione di ciò che viene mostrato dalla macchina da presa. Egli, narratore onnisciente, vede e conosce tutto delle storie che si intrecciano nel film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumata dal dolore per la perdita della figlia, e Zoyo (Willi Ribeiro) alla ricerca di un amico scomparso. Il loro risentimento represso si rispecchia nei movimenti irrequieti della macchina da presa che non si ferma neanche nelle scene più statiche. I due personaggi rappresentano metaforicamente i sentimenti di rivalsa del paese nei confronti dei suoi dominatori. Se l’antica colonizzazione portoghese è rappresentata dalla forte presenza e importanza della religione cattolica nella comunità, il predominio economico cinese viene mostrato attraverso le luminose insegne al neon della Xiaomi, azienda produttrice di smartphone.

La società rappresentata da Ery Claver sembra alla disperata ricerca di una guida. La religione non ha altro da offrire che figure di plastica, mentre la politica e la sua decadenza vengono rappresentate da una surreale e parodistica riunione del partito comunista cinese, messa in scena in un’arena cittadina mai completata e ormai in rovina. L’unica via, suggerisce il regista, è quella della ribellione. Zoyo, infattti, in un atto di disperazione distrugge il negozio cinese e le sue icone, mentre Domingas trova la sua emancipazione nella vendetta sul marito violento e responsabile della morte della figlia. Il discorso portato avanti da Ery Claver, attraverso allegorie e inquadrature dalla forte carica simbolica, assume un carattere universale di protesta contro le nuove e silenziose forme di sfruttamento e colonialismo perpetrate nei paesi poveri di tutto il mondo.

Marco Di Pasquale

“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” BY ALAIN UGHETTO 

Article by: Emidio Sciamanna 

Translated by: Maria Bellantoni

Memories of a distant past that gradually fades in time often remain linked to an ideal world reworked by our minds to preserve emotions, sensations, fleeting instants of our existence in which we have, even for an instant, savoured flashes of true happiness. Manodopera recounts the world evoked by the sweet and nostalgic words of a grandmother, restoring the memory of a bygone era, made up of sacrifices and carefreeness, suffering and love.

The location, recreated in stop-motion, is a small mountain village at the foot of Monviso. It is called Borgata Ughettera and recalls the director Alain Ughetto’s Piedmontese origins. The film comes to life through the words of Cesira, his grandmother, who thinks back to her youth towards the end of the 19th century. Starting from some fundamental events, she thus gives rise to a reality suspended in time that is emphasised by the fragile malleability of the plasticine with which the characters are made of.

Between cardboard houses and bizarre broccoli trees, the objects somehow represent an indispensable aspect of the story; tangible elements whose purpose is to bring the sweetness of a memory closer to the purity of nature. The simplicity of the poor peasant world, the meeting with her future husband Luigi, the difficult periods of war and the need to emigrate to France in order to work and survive: these are the episodes that characterise Cesira’s past and that she describes to her nephew, in a surreal and poetic exchange between the animated universe and the real presence of the director on stage.

What Ughetto wanted to tell is not only the story of his origins, but also the story of all immigrants, wherever they come from in the world. A story of hard work, of adaptation, of gazes that lacerate the soul and leave irremediable wounds. This is why certain stereotypes in the film take on a different meaning, as if they were the images perceived by those who feel invaded and – not knowing other cultures and not understanding the languages spoken by migrants – judge those from other countries as inferior. As the original title makes clear: “forbidden to dogs and Italians”, a dramatic situation that our families have had to live with in the past and that is being played out again today, this time through the eyes of the viewer.

“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” DI ALAIN UGHETTO

I ricordi di un passato lontano che progressivamente svanisce nel tempo rimangono spesso legati a un mondo ideale rielaborato dalla nostra mente per preservare emozioni, sensazioni, fugaci istanti della nostra esistenza in cui abbiamo, anche solo per un istante, assaporato sprazzi di vera felicità. Manodopera racconta il mondo rievocato dalle dolci e nostalgiche parole di una nonna, restituendo la memoria di un’epoca passata, costituita tra sacrifici e spensieratezza, sofferenza e amore.

Il luogo, ricreato in stop motion, è un piccolo paesino di montagna situato ai piedi del Monviso che prende il nome di Borgata Ughettera e richiama le origini piemontesi del regista Alain Ughetto. Il film prende vita attraverso le parole di Cesira, sua nonna, che ripensa alla sua gioventù verso la fine del diciannovesimo secolo. Partendo da alcuni fondamentali avvenimenti, dà così origine a una realtà sospesa nel tempo che la fragile malleabilità della plastilina con la quale sono realizzati i personaggi enfatizza.

Tra case di cartone e bizzarri alberi di broccoli, gli oggetti utilizzati rappresentano in qualche modo un aspetto indispensabile per la storia; elementi tangibili, il cui scopo è quello di avvicinare la dolcezza di un ricordo alla purezza della natura. La semplicità del povero mondo contadino, l’incontro con il futuro marito Luigi, i difficili periodi di guerra e la necessità di emigrare in Francia per poter lavorare e sopravvivere: sono gli episodi che caratterizzano il passato di Cesira e che lei stessa descrive al nipote, in un surreale e poetico scambio tra l’universo animato e la presenza reale del regista sulla scena.

Ciò che Ughetto voleva raccontare non è soltanto la storia delle sue origini, ma anche quella di tutti gli immigrati, da qualsiasi parte del mondo essi provengano. Una storia fatta di fatica, di adattamento, di sguardi che lacerano l’anima e lasciano ferite insanabili. Per questo, alcuni stereotipi presenti nel film assumono un significato diverso, come se fossero le immagini percepite da chi si sente invaso e – non conoscendo le altre culture e non capendo le lingue parlate dai migranti – giudica inferiore chi viene da altri paesi. Come il titolo originale ben evidenzia: “vietato ai cani e agli italiani”, una situazione drammatica in cui in passato le nostre famiglie hanno dovuto convivere e che oggigiorno si ripropone nuovamente, rendendoci stavolta partecipi attraverso gli occhi di chi osserva.

Emidio Sciamanna

“VENUS” BY JAUME BALAGUERÓ

Article by: Emidio Sciamanna

Translated by: Noemi Zoppellaro

According to Mesopotamian mythology, the female demon Lamashtu was a devilish creature bringer of nightmares and diseases, who haunted unborn children by brutally ripping them out of their mother’s womb to feed on their blood. Venus, the latest feature by Jaume Balagueró, begins with a terrifying apocalyptic premonition: the reincarnation of the demonic figure is imminent and her coming will bring chaos and pain throughout the planet.

At the centre of the narrative is young Lucía, a dancer in an infamous nightclub run by a group of comically stereotyped criminals. One night, after stealing a big drug shipment from the gangsters, she miraculously manages to find shelter at her sister Rocío’s house, located in a building called Venus, in the decaying outskirts of Madrid. Venus – hence the title of the film – is a gloomy and mysterious place, home to dark presences that have been haunting the unfortunate residents for decades.

Loosely based on H. P. Lovecraft’s short story The Dreams in the Witch House, skilfully reworked by the Spanish director into a “horror story” with strong authorial connotations, Venus recalls in its structure the previous film, Muse, in which the paranormal subtly hovers against the background of an ordinary criminal investigation. Also in this case, the film crawls sinuously through the meanders of genre cinema, combining effectively sci-fi horror with gangster film, without ever becoming trivial or repetitive. Moreover, the caricatural element is intentionally emphasised, continuing the specific project on the grotesque that characterises the entire work of Balagueró.

This is definitely not the Spanish director’s masterpiece, however his ability to direct female figures is confirmed as excellent. In Venus, clearly inspired by Dario Argento’s characters, Lucía moves in a suffocating atmosphere, halfway between the nightmares caused by the demon and the oppressive reality of the daily life that the young woman must constantly face. For her, the building takes on a clear, although paradoxical, ambivalence: it is a prison that holds back her desire to dance, restricting her in a forced immobility caused by fear; but it is also a safe haven, a solid shelter to escape the demons that await her outside, the true nightmare of real life.

“VENUS” DI JAUME BALAGUERÓ

Secondo la mitologia mesopotamica, il demone femminile Lamashtu era una creatura diabolica portatrice di incubi e malattie, che prediligeva perseguitare i nascituri strappandoli con prepotenza dal ventre materno per nutrirsi del loro sangue. Venus, l’ultimo lungometraggio di Jaume Balagueró, inizia con un’agghiacciante premonizione apocalittica: la reincarnazione della figura demoniaca è ormai imminente e il suo avvento porterà caos e dolore in tutto il pianeta.

Al centro della narrazione troviamo la giovane Lucía, ballerina di un malfamato night club gestito da un gruppo di criminali comicamente stereotipati. Una notte, dopo aver rubato ai malavitosi un importante carico di droga, riesce miracolosamente a trovare riparo a casa della sorella Rocío, situata in un edificio denominato Venus nella decadente periferia di Madrid. Venus – da cui il titolo del film – è un luogo lugubre e misterioso, dimora di oscure presenze che da decenni affliggono i malcapitati inquilini del luogo.

Liberamente tratto dal racconto di H. P. Lovecraft, I sogni nella casa stregata, che il regista spagnolo rielabora abilmente in una “horror story” dai forti connotati autoriali, Venus ricorda per struttura il film precedente, La Settima Musa, in cui il paranormale aleggiava impercettibile sullo sfondo di una comune indagine investigativa. Anche in questo caso il film serpeggia sinuosamente tra i meandri del cinema di genere, amalgamando con efficacia l’horror fantascientifico e il gangster movie, senza mai risultare banale o ripetitivo. La componente caricaturale, inoltre, è consapevolmente enfatizzata continuando quel particolare lavoro sul grottesco che contraddistingue tutta l’opera di Balagueró.

Non si tratta certamente del lavoro migliore del regista spagnolo, eppure la sua capacità di dirigere le figure femminili si conferma eccellente. Caratterizzata da un’evidente ispirazione argentiana, la Lucía di Venus si muove in un’atmosfera soffocante, a metà tra gli incubi provocati dal demone e l’opprimente realtà della vita quotidiana che la giovane deve costantemente affrontare. Per lei l’edificio assume una chiara, seppur paradossale, ambivalenza: è una prigione, che limita la sua voglia di ballare imponendole una staticità obbligatoria attraverso la paura; ma è anche una zona sicura, un solido riparo per sfuggire ai demoni che l’attendono all’esterno, pronti a sfruttarla e gettarla via come spazzatura. Nonostante la presenza incombente di creature sovrannaturali e catastrofi cosmiche, per gli oppressi è dunque la società stessa a rappresentare la minaccia più terrificante, il vero incubo della vita reale.

Emidio Sciamanna

“LE LYCÉEN” DI CHRISTOPHE HONORÉ

“Niente potrà tornare / a quando il mare era calmo” recita Conchiglie, seconda canzone di Andrea Laszlo de Simone ad avere un ruolo centrale in un film di questo 40° Torino Film Festival, dopo Immensità ascoltata in Coma di Bertrand Bonello. E ad agitare le acque della vita del giovane liceale Lucas è l’improvvisa morte del padre (interpretato dallo stesso Honoré), che scatena un’onda d’urto capace di mettere a dura prova la tenuta della famiglia e far emergere zone d’ombra a lungo represse.

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“OCTOPUS” BY KARIM KASSEM

Article by: Francesco Dubini

Translated by: Giuliano Gisotti

On August 4, 2020, a massive explosion destroyed the port of Beirut, killing 220 people and injuring 7,000. The day just before that, director Karim Kassem had arrived in the city’s port area to shoot a film he will never make, Octopus. In its place is this Octopus: the title remains, but it is a completely different film. It is the symphonic lament of a city left voiceless.

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“PAMFIR” BY DMYTRO SUKHOLYTKYY-SOBCHUK

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Francesco Ghio

“So Abraham got up early in the morning, saddled his donkey, and took two of his young men with him and his son Isaac; and he split the wood for the burnt offering, and then he got up and went to the place of which God had told him.” Genesis 22:3

The biblical account shows that Abraham, moved by great faith, had no hesitation. Leonid, however, is a pagan, Leonid does not believe. And in order to offer the best future to his progeny, he is willing to transgress ethical norms and human laws, consequently going so far as to defy God.

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“THE FIRE WITHIN: REQUIEM FOR KATIA AND MAURICE KRAFFT” BY WERNER HERZOG

Article by Fabio Bertolotto

Translated by Maria Bellantoni

The Fire Within is a film that focuses less on Herzog’s interest in volcanoes – already demonstrated in La Soufrière (1977) and Into the Inferno (2016) – than on the work of Katia and Maurice Krafft. A requiem, as the subtitle suggests, that revolves around the death of the two famous volcanologists while they were closely studying those giants towards which they felt a real obsession.

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“HUESERA” BY MICHELLE GARZA CERVERA 

Article by: Marta Faggi

Translated by: Rachele Pollastrini

“Huesera”, in Spanish, refers to an expert in treatment of bones and joints diseases. The term, however, also designates The Woman of the Bones, a figure from Mexican mythology whose task is to gather the bones of the dead, symbol of the vital force that doesn’t wear out, and to pray until flesh returns to inhabit those remains, recreating life from disjointed parts. The bones of Valeria (Natalia Solián), in Huesera, constantly creaking, because getting her fingers and the joints of her back crinckled is the protagonist’s way of trying (and not always succeeding) to drain its discomfort out of the body, her frustrations, her ineptitudes. Tormenting Valeria is the awareness that she will soon be a mother: a motherhood apparently sought after, but intimately unwanted.

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“HUESERA” DI MICHELLE GARZA CERVERA

“Huesera”, in spagnolo, indica la persona esperta nel trattamento delle malattie delle ossa e delle articolazioni. Il termine, però, designa anche La Donna delle Ossa, figura della mitologia messicana il cui compito è di radunare le ossa dei defunti, simbolo della forza vitale che non si consuma, e di pregare finché la carne non torna ad abitare quei resti, ricreando la vita da parti disgiunte. Le ossa di Valeria (Natalia Solián), in Huesera, scricchiolano continuamente, perché farsi scrocchiare le dita delle mani e le giunture della schiena è il modo con cui la protagonista prova (e non sempre riesce) a drenare fuori dal corpo il suo malessere, le sue frustrazioni, le sue inettitudini. A tormentare Valeria è la consapevolezza che sarà presto madre: una maternità apparentemente ricercata, ma intimamente non voluta.

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“PLAN 75” BY CHIE HAYAKAWA

Article by: Marta Faggi

Translated by: Lia Colombo

Michi (Chieko Baishô) evokes memories of her past over the phone: she goes through her life with great melancholy, and she appears grateful to have someone to listen to her. Nothing but her own voice can be heard in her kitchen. On the end of the phone, we find Yoko (Yumi Kawai). She is much younger than her and she remains silent. Even though she would be interested in the old woman’s story, her head is elsewhere. A sudden alarm interrupts Michi’s flow of words: her time is up. Yoko is holding back tears. Eventually Yoko explains to her what will happen the next day and she keeps begging her not to do “it”. Michi hushes “Sayonara.”

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“THE FIRE WITHIN: REQUIEM FOR KATIA AND MAURICE KRAFFT” DI WERNER HERZOG

The Fire Within è un film che non si concentra tanto sull’interesse di Herzog per i vulcani – già dimostrato in La Soufrière (1977) e Into the Inferno (2016) – quanto sull’opera di Katia e Maurice Krafft. Un requiem, come suggerisce il sottotitolo, che ruota attorno alla morte dei due celebri vulcanologi, mentre studiavano da vicino quei giganti verso cui provavano una vera e propria ossessione.

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“PAMFIR” DI DMYTRO SUKHOLYTKYY-SOBCHUK

“Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato” Genesi 22:3

Il racconto biblico dimostra che Abramo, mosso da una grande fede, non ebbe esitazioni. Leonid però è pagano, Leonid non crede. E pur di offrire il futuro migliore alla propria progenie è disposto a trasgredire norme etiche e leggi umane, arrivando di conseguenza a sfidare Dio.

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“OCTOPUS” DI KARIM KASSEM

Il 4 agosto 2020 una tremenda esplosione distrugge il porto di Beirut causando 220 morti e 7000 feriti. Solo un giorno prima il regista Karim Kassem arrivava in città – proprio nella zona portuale – per girare un lungometraggio che non girerà mai, Octopus. Al suo posto questo Octopus: resta il titolo ma è un film completamente diverso. È il lamento sinfonico di una città rimasta senza voce.

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“FAIRYTALE” BY ALEKSANDR SOKUROV

Article by: Romeo Gjokaj

Translated by: Federica Boatto

The main difference between us and History is that History does not speak, but we force it to do so. What would happen, however, if it looked us in the face, took us by the hand and started making small talk, telling us about its regrets and pipe dreams? This is exactly what Aleksandr Sokurov’s “Fairytale” aims for: to make History speak spontaneously, quietly and with a hint of humour.

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Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini and Winston Churchill find themselves reunited in the afterlife, chatting as they wander through a dark, foggy forest, waiting for the gatekeeper to decide whether to let them into heaven. What about the content of these conversations? Despite their different languages, they mock each other while asserting their political and social ideals. Their speeches focus on their private dimension and therefore erase the aura given by their public function and by History itself. Words thus serve as a tool to reconcile the different points of view and as an attempt to overcome the past and the crystallised image we have of these historical figures. Built through archive footage and without the use of deep-fakes or other artificial intelligence tools, the film calls into question the relationship with reality, verisimilitude, memory and the demythologisation of these personalities. This is an objective that could not have been pursued by using actors to replace the faces, bodies and gestures that changed history. Moreover, the voices lent to the protagonists are perfectly given through an excellent lip-sync that breathes life into the faded images shrouded by the misty reminiscence of the past.

Sokurov seeks to make sense of the challenges that mankind is facing nowadays by taking a step back and lingering on the figures who most shaped the reality we know, namely the protagonists of World War II, the main event that eradicated positivist beliefs about human progress. Trying to empathise with figures such as Hitler and Stalin is the arduous task proposed to the viewer, who through this process realises that behind every historical event, even the most terrible and evil, there are men.

“WAR PONY” BY RILEY KEOUGH AND GINA GAMMELL

Written by: Fabio Bertolotto

Translated by: Rebecca Arturo

Presented and competing at the fortieth edition of Torino Film Festival, and already winner of the Camera d’Or at Cannes, competing in the Un Certain Regard section, War Pony marks the directing debut of actress Riley Keough and producer Gina Gammell, featuring an inspiring portrait of the Native American community, directly involved in the making of the film. 

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MALCOLM MCDOWELL AWARDED IN TURIN

Article by: Davide Troncossi

Translated by: Maria Bellantoni

Honoured by the 40th Turin Film Festival with a retrospective and awarded with the Stella della Mole prize, Malcolm McDowell has been one of the best-known British actors in the world for more than half a century. In particular, for his unforgettable performance as the sadistic and violent Alex De Large in Stanley Kubrick’s A Clockwork Orange (1971).

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It is difficult to talk about such a popular but atypical figure without repeating what has already been written about him over the decades. McDowell has never been a canonically understood star or even the darling of a specific season or cinematic current. Nevertheless, he has been able to traverse a variety of narratives in European and overseas contexts throughout his prolific career, often guided by great auteurs.

After gaining experience in the theatre, he made his debut in 1968, immediately starring in one of the last peaks of British Free Cinema and a Palme d’Or at Cannes, Lindsay Anderson’s If… (and with this director he would repropose the character of Mick Travis in a sort of truffautian cycle in the following O Lucky Man! in 1973, and Britannia Hospital in 1982). After the unjustly forgotten Figures in a Landscape (1970), an en plein air dystopian film directed by Joseph Losey, Kubrick had no hesitation in calling him out. The ineffable tenderly childlike gaze capable of transforming itself into a perverse grin with the mere hint of a smile was indeed truly unique and terrifying, and embodied the very essence of the very young criminal from the pen of Anthony Burgess.

Having attained his place in the pantheon of the seventh art (not without courageous sacrifices – just remember the serious corneal injuries suffered during the endless filming of the famous ‘Ludovico technique), McDowell’s image was marked for better or worse by those dazzling beginnings, failing to follow up on that first happy season. However, by stubbornly getting back into the game from the 1980s onwards, he was able to start a prolific second professional life, carving out a space in which to express his versatility, often in secondary roles, but always leaving a personal mark beyond the actual merits of the films.

We remember Cat People by Paul Schrader (1982), The Assassin of the Tsar by Karen Shakhnazarov (1991), Gangster No. 1 by Paul McGuigan (2000), Evilenko by David Grieco (2004), a couple of Altman and Mike Kaplan’s tasty one-man show Never Apologize (2007) to remember his friend/mentor Anderson in his own way. We tasted this ability as a performer also during the festival, in a masterclass full of anecdotes and brilliant jokes and, again, in the witty presentations of the films on offer, demonstrating a verve (79 years old and he looks great), the charisma and at the same time the affability of the star capable of involving even the youngest audiences.

The Turin prize helps fill the gap of the far too few awards given by the film world to McDowell (he was snubbed by the Oscars and the Baftas, he had a single Golden Globe nomination, a special European Film Awards, and a special Nastro d’Argento), but meeting him in person allowed us once and for all to dispel the evil aura that surrounds his cinematic double: Malcolm was never Alex.

MALCOLM MCDOWELL PREMIATO A TORINO

Omaggiato dal 40° Torino Film Festival con una retrospettiva e insignito ieri del premio Stella della Mole, Malcolm McDowell è da oltre mezzo secolo uno degli attori inglesi più noti al mondo, in particolare per l’indimenticabile interpretazione del sadico e violento Alex De Large in Arancia Meccanica di Stanley Kubrick (1971).

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Arduo parlare di una figura così popolare ma atipica senza ripetere quanto già scritto su di lui in questi decenni. McDowell non è mai stato una star canonicamente intesa e nemmeno il beniamino di una specifica stagione o corrente cinematografica, eppure ha saputo attraversare nell’arco della sua prolifica carriera svariate narrazioni in contesti europei e oltreoceano, guidato spesso da grandissimi autori.

Dopo essersi fatto le ossa a teatro, esordisce nel 1968, subito protagonista, in una delle ultime vette del Free Cinema britannico e Palma d’oro a Cannes, Se… di Lindsay Anderson (e con questo regista riproporrà il personaggio di Mick Travis in una sorta di ciclo truffautiano nei successivi O Lucky Man! del 1973, e Britannia Hospital del 1982). Dopo l’ingiustamente dimenticato Caccia sadica (1970) distopia en plein air diretta da Joseph Losey, Kubrick non ha alcuna esitazione nel chiamarlo: l’ineffabile sguardo teneramente infantile capace di trasformarsi con il solo accenno di un sorriso in un ghigno perverso era infatti davvero unico e terrorizzante, e incarnava l’essenza stessa del giovanissimo criminale uscito dalla penna di Anthony Burgess.

Raggiunto il suo posto nel pantheon della settima arte (non senza coraggiosi sacrifici – basti ricordare le serie lesioni corneali subite durante le infinite riprese della celeberrima “cura Ludovico”), l’immagine di McDowell è stata segnata nel bene e nel male da quei folgoranti inizi, non riuscendo a dar seguito a quella prima felice stagione. Rimettendosi però in gioco con caparbietà a partire dagli anni ’80 ha saputo avviare una prolifica seconda vita professionale ritagliandosi uno spazio in cui esprimere la propria versatilità, spesso in ruoli secondari, ma lasciando sempre un’impronta personale aldilà degli effettivi meriti dei film.

Ricordiamo Il bacio della pantera di Paul Schrader (1982), L’assassino dello Zar di Karen Shakhnazarov (1991), Gangster nº 1 di Paul McGuigan (2000), Evilenko di David Grieco (2004), un paio di Altman e il gustoso one man show di Mike Kaplan Never Apologies (2007) per ricordare alla sua maniera l’amico/mentore Anderson. E questa abilità di performer l’abbiamo gustata durante il festival, in una masterclass ricca di aneddoti e battute brillanti e, ancora, nelle argute presentazioni dei film proposti, dimostrando una verve (79 anni portati splendidamente), il carisma e al contempo l’affabilità del divo in grado di coinvolgere anche il pubblico dei più giovani.

Il premio torinese contribuisce a colmare la lacuna dei davvero troppo pochi riconoscimenti assegnati dal mondo del cinema a McDowell (snobbato da Oscar e Bafta, una sola nomination ai Golden Globe, un European Film Awards speciale, un Nastro d’Argento speciale), mentre l’incontrarlo dal vivo ci ha permesso una volta per tutte di scacciare l’aurea malvagia che circonda il suo doppio cinematografico: Malcolm non è mai stato Alex.

Davide Troncossi