Infiniti titoli di testa, accompagnati da immagini di macchine da corsa che, sgommando, compiono infiniti giri su sé stesse, aprono il primo lungometraggio di Philippe Grégoire, presentato in concorso al TFF39. Il film, non rinunciando a un pungente umorismo, racconta uno squarcio della vita di Alexander Mastrogiuseppe (Robert Naylor), cresciuto a Napierville, sperduto e dimenticato paesino canadese, che si allontana dal suo luogo natale per lavorare alla dogana tra U.S.A. e Canada. Grégorie racconta lo stesso percorso che ha vissuto lui passando dalla vita nel suo paesino natio al lavoro come doganiere per potersi pagare gli studi di cinema. La migrazione verso un mondo altro è solo uno dei punti di contatto tra la vita del regista e quella del protagonista. Grégorie si concentra infatti proprio su quell’humus culturale cui lui stesso è legato grazie alla pista per gare automobilistiche che i suoi nonni costruirono a Napierville.
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“BERGMAN ISLAND” DI MIA HANSEN-LØVE
La regista francese Mia Hansen-Løve, con Bergman Island, costruisce un film che, riprendendo i temi a lei cari e mettendo in discussione il suo stile di sceneggiatura, si trasforma in una profonda (auto)riflessione sul processo creativo dell’artista. Per far ciò, mette in scena un vero e proprio alter ego, che ha le fattezze di Chris Sanders (Vicky Krieps), regista e sceneggiatrice. Chris, in compagnia del marito Tony (Tim Roth), anch’egli cineasta, si stabilisce per un’estate a scrivere il suo prossimo film sull’isola svedese di Fårö, celebre residenza di Ingmar Bergman.
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In lignua ciadiana, la parola “Lingui” indica il precetto di convivenza armonica tra i membri di una comunità. Non è specificato da quanti membri tale comunità debba essere costituita, e l’armonia che regola la loro convivenza può essere spezzata da fattori di vario tipo. Nel caso di Amina (Achouackh Abakar), venditrice ambulante di cesti ricavati da reti metalliche, e di sua figlia Maria (Rihane Khalil Ario) si tratta della gravidanza indesiderata di quest’ultima, che potrebbe potenzialmente distruggere le loro esistenze. Da una parte il terrore di subire l’ostracismo della comunità islamica conservatrice di cui fanno parte, dall’altra la prospettiva ancora più spaventosa di far abortire la ragazza. Nonostante l’apparente impossibilità di portare a compimento una simile impresa, Maria è determinata a non tenere il bambino e Amina non potrà non starle accanto.
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Laura Samani parte da elementi bassi con cui si sporca le mani: l’acqua e il sangue, il latte e le lacrime. Ma soprattutto attinge dai riti e dalle credenze popolari di un villaggio di pescatori in Friuli, una zona lontana dall’avvento del “progresso” e della “modernità” (le lampadine sembrano uno scherzo) sospesa in un tempo quasi astorico, mitico e arcaico. La figlia di Agata, nata morta, non può ricevere battesimo e quindi è destinata a vagare in eterno nel limbo; salvo che la madre si metta in cammino per raggiungere una lontana e fredda val Dolais, dove si trova un santuario del respiro in cui il miracolo accade: il bambino nato morto viene riportato in vita per il tempo di un respiro così che possa essere battezzato e avere un nome.
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Il regista osserva l’appartamento vuoto in cui ha vissuto per venticique anni. E’ in vendita, è spoglio. I muri, nudi e lividi, evocano ricordi, suscitano sondaggi profondi nella memoria. Il film prende le mosse da una casa vuota che si riempie, nella penombra, del vissuto d’infanzia di chi l’ha abitata. Presentato in concorso Internazionale Doc al TFF39, il documentario di Marko Grba Singh raggiunge un grado d’intimità potente. Quasi un memoriale cinematografico, Rampart afferra e rielabora il passato percorrendo la storia personale del regista e, con essa, un estratto doloroso della storia del suo paese: la guerra che, come un temporale improvviso, colpì Belgrado il 24 marzo del 1999.
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Article by Alessandro Pomati
Translated by Francesca Schiavello and Benedetta Di Fiore
It was 2019 when the Italian audience got to know the world that the debuting director Phaim Buyan brought to the big screen in Bangla, his first work: a gentrified, suburban, Roman world (the events of the film took place in “Torpigna”, short for Tor Pignattara), perfect for the zoomers generation; an ironic world, sometimes even cynical when it comes to the condition of second generation immigrants and their difficult process of integration; a world and an atmosphere perfectly recognizable by those born in the second half of the nineties onwards.
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Article by Cristian Cerutti
Translated by Francesca Luna Lombardo
One eye turns to the camera. The camera enters to examine the optic nerve from which the connections to the brain branch off, while the cold, unaffected voice-over explains how it is responsible for reconstructing the data received. However, the reconstruction is never impartial. It’s always influenced by the cultural structures in which we are immersed. The opening sequence of All Light, Everywhere immediately reveals the intention behind the visual essay directed by Theo Anthony: to overturn the dialectic between observer and observed. At the same time it demonstrates how, historically, it has been concealed by observers to hide the connection between dialectics and the management of power.
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Per gli umani non c’è nessuna cosa reale se non è raccontata.
Alessandro Baricco
Attorno al fuoco, gli anziani del villaggio si riuniscono per raccontare antiche storie di paese che hanno influenzato la cultura popolare e che sono ormai avvolte dal manto della leggenda. Rievocano e donano linfa vitale a personaggi mitici, uomini che hanno sfidato principi e reami in nome della giustizia, della libertà e dell’amore, e che si sono distinti per le loro virtù o per aver commesso dei “fattacci”.
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Evanescente e al contempo materico, l’universo espressivo a cui l’animatrice Florence Miailhe dà forma con La traversée riesce a coniugare atmosfera fiabesca e crudo realismo, restituendo con estrema evidenza la forza di una storia universale, archetipica, quella di chi è costretto ad abbandonare la propria terra e, esule, si barcamena per arrivare altrove.
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L’incorruttibile agente Cheung Sung-bong (Donnie Yen) e il suo ex collega Yau Kong-ngo (Nicholas Tse) rappresentano due facce di una stessa medaglia: ritrovarsi l’uno contro l’altro è un po’ come guardare il proprio riflesso in un vetro opaco senza riconoscersi. I loro destini, indissolubilmente intrecciati, si sarebbero potuti capovolgere, se tanto tempo prima avessero compiuto scelte diverse. Ma ora che il passato ha bussato alla porta, è finalmente giunto il momento di pareggiare i conti.
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Bipolar inaugura la neonata sezione “Incubator” del Torino Film Festival, un nuovo spazio dedicato agli sguardi idiosincratici, all’in-incasellabile. Un febbricitante brusio creativo di cui il film di Queena Li trasmette alla perfezione l’energia.
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Il film di Mariangela Ciccarello, presentato nella sezione Italiana.doc, si presenta come un documentario che segue la quotidianità di due attrici, Angela e Paola, incentrata sulle loro prove teatrali di dialoghi che coinvolgono i personaggi mitici di Ulisse, Circe e Calipso. La dimensione della realtà, però, straborda continuamente e progressivamente all’interno di una dimensione onirica, che avvolge i corpi delle protagoniste, sfumandone i contorni, così come le loro parole, soprattutto durante i momenti di recitazione, nei quali l’italiano dei dialoghi si mescola con il dialetto napoletano delle loro riflessioni sui personaggi del mito.
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Il primo lungometraggio di Micaela Gonzalo arriva in Concorso al TFF39 affrontando il delicato percorso di maturazione e presa di coscienza di Jimena (Mora Arenillas), una giovane argentina. Il suo cammino è segnato dal dualismo: solitudine-compagnia, individuale-universale e famiglia-lavoro sono i nodi che la protagonista deve sciogliere per poter trovare il suo posto nel mondo.
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Extraneous Matter – Complete Edition si apre come un film intimista con un “modesto” (ma saldo) formato 4:3 in bianco e nero e l’immagine familiare di un bonsai, seguita dal primo piano di una ragazza addormentata che, una volta sveglia, si prepara un caffè. Più tardi il film, rivelata la natura episodica, allarga inaspettatamente il suo sguardo ed esce dalla dimensione domestica dell’abitazione della ragazza (che non è la protagonista), per rivolgersi ad altri personaggi e alla grande città. Estende così la sua riflessione a una dimensione universale profondamente legata ai demoni della contemporaneità.
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Era il 2019 quando il pubblico italiano faceva la conoscenza del mondo che l’esordiente regista Phaim Buyan portava sul grande schermo in Bangla, la sua opera prima: un mondo ad altezza di zoomer, gentrificato, periferico, romanesco (la cornice in cui si svolgevano le vicende del film era “Torpigna”, diminutivo di Tor Pignattara); un mondo ironico, talvolta anche cinico, nel parlare della condizione degli immigrati di seconda generazione e del loro difficile processo di integrazione; un mondo e un’atmosfera, infine, perfettamente riconoscibili dai nati della seconda metà degli anni Novanta in poi.
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Un occhio si rivolge alla camera. La camera entra per esaminare il nervo ottico da cui si dipartono i collegamenti verso il cervello mentre la fredda voce over spiega come esso sia responsabile della ricostruzione dei dati ricevuti. Una ricostruzione che però non è mai neutrale, ma sempre influenzata dalle strutture culturali in cui siamo immersi. La sequenza di apertura di All Light, Everywhere, espone da subito l’intento che sta alla base del saggio per immagini diretto da Theo Anthony: ribaltare la dialettica tra osservatore e osservato per dimostrare come storicamente sia stata celata dai portatori dello sguardo al fine di nascondere quanto a essa si leghi la gestione del potere.
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Ad aprire la trentanovesima edizione del Torino Film Festival è Sing 2 – Sempre più forte scritto e diretto da Garth Jennings, in anteprima internazionale. In questo nuovo capitolo Buster Moon e i suoi amici intraprendono un viaggio che dalla piccola realtà del Moon Theatre li porta nella sfavillante Redshore City in cerca di una nuova avventura, una nuova possibilità per provare al mondo il loro valore guadagnandosi uno spettacolo al Crystal Tower Theatre. Anche se in un primo momento ottengono ciò che desiderano grazie all’insperato favore del destino, presto vengono travolti dalle difficoltà che si nascondono dietro ogni angolo. A complicare il tutto poi, c’è la “piccola” bugia detta da Moon per apparire migliore agli occhi del magnate che deve produrre lo spettacolo e che lo porterà a rischiare ben più del raggiungimento dei suoi obiettivi confrontandosi con la realtà di un settore competitivo e, talvolta, crudele.
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L’irradiante spensieratezza della giovane età nella Francia degli anni ’40, flagellata dalle leggi antisemite. Une jeune fille qui va bien è il lungometraggio d’esordio di Sandrine Kiberlain, presentato a maggio durante La Semaine de la critique di Cannes e in concorso al TFF 39.
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Il ritorno in sala, la resistenza, il recupero della memoria
Annunciato la scorsa settimana durante la conferenza stampa al Cinema Massimo e in partenza il 26 novembre, il Torino Film Festival farà un grande ritorno in sala, dopo la scorsa edizione interamente online.
Con i suoi 181 titoli selezionati tra più di 4500 opere visionate, il Festival si propone non solo di continuare il proficuo dialogo con i suoi affezionati, sempre più esigenti e preparati, ponendo l’attenzione sul cinema di ricerca, la sperimentazione e la promozione di autori emergenti, ma anche di instaurare un rapporto con il grande pubblico.
“TITANE” DI JULIA DUCORNAU
Una bambina imita con la bocca il rumore del motore dell’auto su cui sta viaggiando con il proprio padre annoiato. La bambina all’improvviso si toglie la cintura e l’uomo perde il controllo del veicolo nel tentativo di riportarla all’ordine. In men che non si dica, la macchina è in panne al fianco del guardrail: il padre è quasi illeso, ma la bambina è gravemente ferita alla testa. In ospedale, le verrà applicata una placca di titanio sul lato destro della scatola cranica per riparare il danno; e la prima cosa che la bimba farà una volta uscita sarà andare ad abbracciare la macchina del padre, come se con questa “aggiunta” metallica lei e il veicolo fossero finalmente uguali: niente più imitazioni infantili.
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