Tutti gli articoli di Emidio Sciamanna

“KUBI” DI KITANO TAKESHI

Dal buio della sala, allo sguardo è concesso di contemplare le sponde di un piccolo fiume immerso nel verde, ma quello che sembra un limpido corso d’acqua è in realtà un ammasso di fanghiglia e cadaveri dilaniati, resti di una battaglia appena conclusa. Con Kubi, Kitano Takeshi torna alla regia con un dramma storico ambientato nel Giappone feudale, esattamente vent’anni dopo il grande successo di Zatōichi (2003), dedicato all’epopea del samurai cieco.

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“THE SIN” DI HAN DONG-SEOK

Celata nell’ombra del pessimismo sociale, la ricerca della razionalità, spesso incarnata dai valori umani della scienza e della giustizia, prende le forme spietate e drammatiche di un male superiore, un demone che si alimenta della discriminazione collettiva e dell’odio reciproco. È in questo modo che il secondo lungometraggio di Han Dong-seok, The Sin, presentato nella sezione Crazies del 41^ Torino Film Festival, propone una folle visione del peccato originale, in cui il sentimento di paura e l’ossessivo desiderio di vendetta si insinuano nella fisicità meccanica di molteplici corpi in movimento.

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“RICARDO ET LA PEINTURE” DI BARBET SCHROEDER

Abiti consumati, pennelli in mano, tavolozza e cavalletto sulle spalle: nel cuore della Bretagna, sullo sfondo di un suggestivo paesaggio costiero, un anziano pittore si inerpica faticosamente lungo la ripida parete rocciosa di un litorale, fino a raggiungere una piccola grotta nascosta, dove può dare libero sfogo alla sua fantasia. È l’inizio del nuovo documentario di Barbet Schroeder, Ricardo et la peinture, presentato Fuori Concorso alla 41^ edizione del Torino Film Festival.

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“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” DI ALAIN UGHETTO

I ricordi di un passato lontano che progressivamente svanisce nel tempo rimangono spesso legati a un mondo ideale rielaborato dalla nostra mente per preservare emozioni, sensazioni, fugaci istanti della nostra esistenza in cui abbiamo, anche solo per un istante, assaporato sprazzi di vera felicità. Manodopera racconta il mondo rievocato dalle dolci e nostalgiche parole di una nonna, restituendo la memoria di un’epoca passata, costituita tra sacrifici e spensieratezza, sofferenza e amore.

Il luogo, ricreato in stop motion, è un piccolo paesino di montagna situato ai piedi del Monviso che prende il nome di Borgata Ughettera e richiama le origini piemontesi del regista Alain Ughetto. Il film prende vita attraverso le parole di Cesira, sua nonna, che ripensa alla sua gioventù verso la fine del diciannovesimo secolo. Partendo da alcuni fondamentali avvenimenti, dà così origine a una realtà sospesa nel tempo che la fragile malleabilità della plastilina con la quale sono realizzati i personaggi enfatizza.

Tra case di cartone e bizzarri alberi di broccoli, gli oggetti utilizzati rappresentano in qualche modo un aspetto indispensabile per la storia; elementi tangibili, il cui scopo è quello di avvicinare la dolcezza di un ricordo alla purezza della natura. La semplicità del povero mondo contadino, l’incontro con il futuro marito Luigi, i difficili periodi di guerra e la necessità di emigrare in Francia per poter lavorare e sopravvivere: sono gli episodi che caratterizzano il passato di Cesira e che lei stessa descrive al nipote, in un surreale e poetico scambio tra l’universo animato e la presenza reale del regista sulla scena.

Ciò che Ughetto voleva raccontare non è soltanto la storia delle sue origini, ma anche quella di tutti gli immigrati, da qualsiasi parte del mondo essi provengano. Una storia fatta di fatica, di adattamento, di sguardi che lacerano l’anima e lasciano ferite insanabili. Per questo, alcuni stereotipi presenti nel film assumono un significato diverso, come se fossero le immagini percepite da chi si sente invaso e – non conoscendo le altre culture e non capendo le lingue parlate dai migranti – giudica inferiore chi viene da altri paesi. Come il titolo originale ben evidenzia: “vietato ai cani e agli italiani”, una situazione drammatica in cui in passato le nostre famiglie hanno dovuto convivere e che oggigiorno si ripropone nuovamente, rendendoci stavolta partecipi attraverso gli occhi di chi osserva.

Emidio Sciamanna

“VENUS” DI JAUME BALAGUERÓ

Secondo la mitologia mesopotamica, il demone femminile Lamashtu era una creatura diabolica portatrice di incubi e malattie, che prediligeva perseguitare i nascituri strappandoli con prepotenza dal ventre materno per nutrirsi del loro sangue. Venus, l’ultimo lungometraggio di Jaume Balagueró, inizia con un’agghiacciante premonizione apocalittica: la reincarnazione della figura demoniaca è ormai imminente e il suo avvento porterà caos e dolore in tutto il pianeta.

Al centro della narrazione troviamo la giovane Lucía, ballerina di un malfamato night club gestito da un gruppo di criminali comicamente stereotipati. Una notte, dopo aver rubato ai malavitosi un importante carico di droga, riesce miracolosamente a trovare riparo a casa della sorella Rocío, situata in un edificio denominato Venus nella decadente periferia di Madrid. Venus – da cui il titolo del film – è un luogo lugubre e misterioso, dimora di oscure presenze che da decenni affliggono i malcapitati inquilini del luogo.

Liberamente tratto dal racconto di H. P. Lovecraft, I sogni nella casa stregata, che il regista spagnolo rielabora abilmente in una “horror story” dai forti connotati autoriali, Venus ricorda per struttura il film precedente, La Settima Musa, in cui il paranormale aleggiava impercettibile sullo sfondo di una comune indagine investigativa. Anche in questo caso il film serpeggia sinuosamente tra i meandri del cinema di genere, amalgamando con efficacia l’horror fantascientifico e il gangster movie, senza mai risultare banale o ripetitivo. La componente caricaturale, inoltre, è consapevolmente enfatizzata continuando quel particolare lavoro sul grottesco che contraddistingue tutta l’opera di Balagueró.

Non si tratta certamente del lavoro migliore del regista spagnolo, eppure la sua capacità di dirigere le figure femminili si conferma eccellente. Caratterizzata da un’evidente ispirazione argentiana, la Lucía di Venus si muove in un’atmosfera soffocante, a metà tra gli incubi provocati dal demone e l’opprimente realtà della vita quotidiana che la giovane deve costantemente affrontare. Per lei l’edificio assume una chiara, seppur paradossale, ambivalenza: è una prigione, che limita la sua voglia di ballare imponendole una staticità obbligatoria attraverso la paura; ma è anche una zona sicura, un solido riparo per sfuggire ai demoni che l’attendono all’esterno, pronti a sfruttarla e gettarla via come spazzatura. Nonostante la presenza incombente di creature sovrannaturali e catastrofi cosmiche, per gli oppressi è dunque la società stessa a rappresentare la minaccia più terrificante, il vero incubo della vita reale.

Emidio Sciamanna

“NAGISA” DI KOGAHARA TAKESHI

Nagisa, lungometraggio d’esordio del regista giapponese Kogahara Takeshi, può essere interpretato come un complesso e stratificato tentativo di rielaborare un legame, di ridefinire quel sottile filamento che collega il corpo di chi sopravvive e il ricordo, sempre più evanescente, di chi non c’è più. Il mondo che viene rappresentato è dunque frutto di un’offuscata condizione mentale, un insieme di indistinte rievocazioni partorite dalla mente di un ragazzo distaccato dalla realtà.

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Il protagonista è Fuminao, un ragazzo di Tokyo tormentato dal senso di colpa per la morte della sorella minore Nagisa, deceduta tre anni prima in un incidente stradale mentre andava a trovare il fratello in autobus. Una notte il ragazzo accompagna l’amico Yuki a visitare un tunnel che, secondo alcune credenze popolari, pare essere infestato dai fantasmi. In questo misterioso e tetro luogo si troverà ad affrontare nuovamente il suo passato, le sue origini, fino a rivivere nella propria mente l’intenso rapporto con la sorella scomparsa. Il film è in fondo la riproposizione di un cortometraggio omonimo realizzato dallo stesso Kogahara nel 2017, in cui i due protagonisti, sempre Fuminao e Nagisa, sono però due giovani innamorati. Alla “love story” adolescenziale del primo si contrappone quindi, in questa seconda opera, il ricordo di un defunto e il richiamo al flebile sospiro della morte, in una folle danza che coinvolge Eros e Thanatos fino a renderli parte di uno stesso essere.

L’apatia del protagonista, così come l’alienazione che ne condiziona l’esistenza, nascono dal forte trauma scaturito dalla perdita di una persona amata. Per questo motivo la vita del giovane è costantemente scandita da movimenti meccanici e continui silenzi, raffigurati attraverso l’utilizzo di reiterate e interminabili inquadrature fisse. La storia è frammentata, per nulla lineare, come se ogni brandello di memoria riaffiorasse spontaneamente quando Fuminao assapora determinate sensazioni fisiche o emotive. Questo rende il film un vero e proprio labirinto senza vie d’uscita, un rompicapo in cui, talvolta, risulta difficile comprendere il senso di alcuni avvenimenti.

Al termine di questo enigmatico viaggio esistenziale sono molte le domande che sorgono, suscitando nella mente del protagonista più dubbi che risposte. «I fantasmi esistono davvero?» chiede esitante il ragazzo a un poliziotto incontrato casualmente fuori dal tunnel. La risposta dell’uomo arriverà solo dopo un lungo e ostentato silenzio: «Il fantasma sei tu». Sono coloro che sono rimasti ancorati al passato, incapaci di proseguire una vita normale, come una donna che vaga per strada alla ricerca del figlio scomparso, a rappresentare i veri spettri della società.

Emidio Sciamanna