Tracciare i confini di una mappa significa indagare il mondo conosciuto e, soprattutto, rivolgere il nostro sguardo verso l’ignoto. Ruotano intorno a questo le domande che Andrea Gatopoulos lascia che l’intelligenza artificiale ponga a David Rumsey, uno dei più grandi collezionisti di mappe del mondo. Il primo lungometraggio del regista abruzzese conclude una trilogia dedicata al rapporto tra uomo e macchina costituita dai due cortometraggi Happy New Year, Jim (2022) ed Eschaton Ad (2023).
Continua la lettura di “A STRANGER QUEST” DI ANDREA GATOPOULOSTutti gli articoli di Enrico Nicolosi
“INSIDE THE YELLOW COCOON SHELL” DI THIEN AN PHAM
A Saigon, in un bar affollato per i mondiali di calcio di Russia 2018, tre ragazzi discutono sull’esistenza di Dio. Uno è ateo, un altro è convinto di poter trovare una sua testimonianza avvicinandosi alla natura e il terzo, Thien (Le Phong Vu), non riesce a trovare la fede nonostante lo desideri. Questa e tantissime altre “invocazioni” stabiliscono il vero obiettivo del viaggio che inizierà di lì a poco: il tentativo di trovare anche una piccolissima traccia immanente della grandezza del divino. Ciò che stupisce – ed è bene dirlo subito – è l’intuizione di Thien An Pham, qui al suo esordio, di non limitarsi ad assecondare l’indagine del suo protagonista ma di arricchire questo dialogo teologico con la sua personale osservazione effettuata tramite il mezzo cinematografico.
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Dopo più di trent’anni di carriera, per il suo ottavo lungometraggio La practica, Martín Rejtman abbandona la sua adorata Argentina per il vicino Cile. Non una rivoluzione, ma una sorta di ritiro spirituale, esattamente come quelli provati dal protagonista Gustavo (Esteban Bigliardi) per ritornare in connessione con la pratica meditativa dello yoga. Sia il regista che il suo personaggio – come non mai alter ego del suo creatore – vedranno i loro sogni di innovazione scontrarsi con la realtà. Infatti, come da prassi nel cinema del maestro argentino, il vortice di vicende che coinvolge gli inermi soggetti non produce alcun effetto sostanziale nelle loro vite, risolvendosi in un grandissimo nulla di fatto.
Continua la lettura di “LA PRÁCTICA” DI MARTÍN REJTMANTORINO FILM FESTIVAL. LA 41MA EDIZIONE
Il “minestrone” che Steve Della Casa – all’ultimo anno di mandato prima di lasciare la direzione a Giulio Base – ha più volte citato non si riferisce a uno dei titoli che compongono la retrospettiva dedicata a Sergio Citti, bensì al risultato della selezione attuata dal direttore insieme ai suoi collaboratori. Non una miscellanea che rischierebbe di scontentare chiunque, ma un organismo compatto e omogeneo, composto da film e diverse attività – masterclass, eventi fuori programma, talk e convegni – che risuonano l’un l’altro sia per affinità che per opposizione, avendo sempre come unico indispensabile referente il cinema.
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Dopo aver conquistato una piccola ma salda platea grazie alla sua folgorante opera prima Les Garçons sauvages – presentata alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia nel 2017 –, Bertrand Mandico si trova nella scomoda posizione di dover andare alla ricerca di nuovi adepti, cercando però di non trascurare il séguito già acquisito. Accade così che il suo terzo film, esattamente come After Blue (Paradis sale, 2021), riesca a divertire gli ormai affezionati spettatori torinesi del ToHorror Fantastic Film Fest senza però raggiungere le vette toccate dal suo esordio e da alcuni suoi cortometraggi – tra tutti Boro in the Box (2011) –, e senza coinvolgere i neofiti del suo cinema. Nonostante alcune, sempre più consapevoli, intuizioni e la solita abbacinante messa in scena, She’s Conann non riesce infatti a schiodarsi dallo status di divertissement fugace e passeggero. Definizione che rischia, a meno di un cambio di rotta, di estendersi ingiustamente a macchia d’olio sulla totalità dell’opera del regista transalpino.
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A Parigi, nel mezzo della Senna, l’Adamant, un singolare centro psichiatrico diurno costruito su una struttura galleggiante diventa teatro delle attività di arteterapia più disparate, animate da operatori sanitari aperti al dialogo e da pazienti consapevoli sia dei loro disturbi sia degli effetti benefici di questa esperienza. Sur l’Adamant di Nicholas Philibert, Orso d’oro della 73esima Berlinale, è il tentativo di mostrare una via che si oppone al deterioramento e alla disumanizzazione della psichiatria, emblematici di un mondo che pensa solo all’efficienza economica anche nel settore sanitario.
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Che la Corea del Sud abbia un crescente problema con il lavoro è risaputo – lo testimonia il recente tentativo da parte del governo di aumentare le ore settimanali di lavoro da 52 a 69. Eppure la ‘palma’ della nazione più workaholic, almeno agli occhi del mondo occidentale, spetta ormai da decenni ai giapponesi. È proprio questo vuoto rappresentativo – in minima parte affrontato dai k-dramas esportati in tutto il mondo – che July Jung cerca di colmare con il suo secondo lungometraggio Next Sohee, presentato durante la Semaine de la critique del 75esimo Festival di Cannes, e ora film d’apertura della quarta edizione dei Job Film Days. Un film che ne contiene due, i quali non si oppongono l’uno all’altro ma cooperano per raggiungere la radice del problema, evitando di fermarsi sbrigativamente al primo e più superficiale colpevole.
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“Il Cristo in gola”, ultimo film di Antonio Rezza, completato diciott’anni dopo l’inizio della lavorazione, occasionalmente senza l’ausilio della sua storica partner teatrale Flavia Mastrella, è l’ennesima conferma della sua incredibile capacità di modellare il cinema alle sue esigenze performative, e mai viceversa. La scelta di utilizzare il linguaggio delle immagini per mettere in scena la sua particolarissima versione di Cristo, risulta evidente sin dall’inizio: la precisione, quasi filologica, con il quale l’attore originario di Novara traspone “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini viene squarciata dall’arrivo in scena dello stesso Rezza, creando una spaccatura insanabile tra questa e le precedenti rappresentazioni del figlio di Dio.
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Finalmente Carlos Vermut è arrivato in Italia. A porre fine alla colpevole miopia nei confronti del suo cinema, riservatagli dalla distribuzione e dai festival italiani, ci ha pensato il Torino Film Festival. Fiore all’occhiello di questa quarantesima edizione, la personale dedicatagli conferma la grande capacità del festival torinese di far scoprire al pubblico italiano cineasti pressoché sconosciuti ma sicuramente meritevoli di mostrare il proprio lavoro a una platea più ampia possibile. Nel caso del cinema del giovane regista spagnolo vale anche l’opposto: non solo egli è sicuramente degno di essere scoperto, ma il pubblico stesso merita di assaporare le sue opere, in quanto rari esempi, nel panorama odierno, di film capaci di coinvolgere gli spettatori, senza però trascurare uno studio attento e approfondito della società odierna.
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The Plains, primo lungometraggio di David Easteal, è lo sperimentale tentativo di ricostruire, tramite un vero e proprio reenactment, il tempo trascorso dal regista australiano nella macchina di Andrew Rakowski, avvocato sulla cinquantina che torna a casa alla fine della giornata lavorativa nella periferia esterna di Melbourne. Un’opera che sfugge alle definizioni, un cinema del reale radicale, eppure malleabile.
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Dopo una lunga carriera da produttore (Jodorowsky’s Dune, A Horrible Way To Die e tanti altri), con A Wounded Fawn, presentato nella sezione competitiva della ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, Travis Stevens firma la sua terza regia. L’arduo tentativo di amalgamare suggestioni disparate, se non addirittura contraddittorie, si concretizza in un’opera prodigiosamente equilibrata e omogenea, già vista, eppure originale. Un esemplare film di genere.
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Nella seconda giornata della ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, la sezione Freakshow, dedicata ad opere ad alto gradiente di eccentricità e splatter, viene inaugurata da Tiny Cinema.
Il lungometraggio a episodi di Tyler Cornack non risponde alle aspettative di un pubblico alla spasmodica ricerca di sorprese e stranezze di ogni tipo a causa di una consistenza narrativa traballante.
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Un anno dopo aver vinto il Premio speciale della giuria nella sezione Orizzonti della 78esima Mostra del Cinema di Venezia, El Gran Movimiento (2021) torna in Italia in occasione della terza edizione dei JOB FILM DAYS. A partire da un prologo (alla quale corrisponde un epilogo) debitore delle sinfonie urbane di matrice russo-tedesca, Kiro Russo intesse un racconto eccentrico e multiforme, in grado di guidare lo spettatore sia attraverso il caos della metropoli sia nei meandri della mente di Elder (Julio Cezar Ticona), il nostro pseudo-protagonista.
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La recente ristampa di Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud del poeta-operaio Tommaso Di Ciaula, è l’occasione perfetta per godersi Tommaso Blu (1987) di Florian Furtwängler, pellicola tratta dal suddetto libro che, nonostante fosse stata girata in Italia e pensata per il pubblico italiano, rimase inedita nel nostro paese. Il proficuo incontro tra lo scrittore pugliese, il sociologo Peter Kammerer e il regista nipote del famoso compositore Wilhelm Furtwängler, portò alla creazione di un film profetico, capace di assorbire le idee anticapitaliste e rivoluzionarie dell’opera originale per tramutarle in un racconto lineare, ma non per questo meno sconvolgente.
Continua la lettura di “TOMMASO BLU” DI FLORIAN FURTWÄNGLER“WORKING CLASS HEROES” DI MILOŠ PUŠIĆ
In occasione del suo terzo lungometraggio, scelto come film d’apertura della terza edizione dei JOB FILM DAYS, Miloš Pušić narra, tra il serio e il faceto, una storia che si nutre di una messa scena cangiante e imprevedibile per mostrare la mancanza di tutele e diritti dei lavoratori in Serbia. Working Class Heroes racconta di un gruppo di operai edili alle prese con il completamento di un edificio in un clima di illegalità e corruzione. La società di costruzioni però li ha ingaggiati principalmente per far finta di lavorare, per convincere gli investitori, attraverso l’immagine distorta della televisione, della bontà del progetto. Il cantiere diventa quindi un set che alimenta il sogno, ormai marcio fino al midollo, della possibilità di convivere con queste condizioni.
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“Beh, sai come funziona la memoria. Anche se dormiva, un giorno crederà di avere visto tutto.”
Per raccontare la sua infanzia, come quella di tutti gli altri ragazzi nati a Houston e dintorni negli anni ‘60, Richard Linklater torna ad avvalersi dell’animazione in rotoscopio ben sedici anni dopo A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly, 2006). Se in quell’occasione la tecnica gli forniva la possibilità di avvicinarsi allo sfumato universo dickiano, fatto di fantasia e immaginazione ma anche, più pragmaticamente, di paranoia e droga, in Apollo 10 e mezzo (Apollo 10 1/2: A Space Age Adventure, 2022) si tratta invece di una scelta che si rivela la maniera più immediata per far coesistere le due anime del film: da una parte la ricostruzione puntuale ed esaustiva della vita americana alla fine degli anni ’60, dall’altra la fantascientifica avventura del piccolo Stan.
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Dopo esser stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e in vari festival internazionali nel corso del 2021, Întregalde di Radu Muntean inaugura il nuovo anno vincendo la 33esima edizione del Trieste Film Festival. Nonostante si muova su territori già battuti, in particolare dai suoi colleghi della “nuova onda rumena”, il film persuade lo spettatore a intraprendere un viaggio intorno al confine sottile che separa empatia e narcisismo, altruismo e ipocrisia.
Continua la lettura di “ÎNTREGALDE” DI RADU MUNTEANCOMING HOME IN THE DARK DI JAMES ASHCROFT
“Le stanze di Rol”, sezione parallela del TFF39 dedicata al cinema di genere, si apre con Coming home in the dark che fin dall’inizio mette in guardia lo spettatore. La famiglia Hoaganraad, in gita in un isolato tratto di costa neozelandese, si imbatte in due misteriosi vagabondi, e il dubbio è subito posto: questo incontro è stato minuziosamente pianificato o non è altro che un crudele scherzo del destino?
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Grazie al perfetto restauro del Centro Sperimentale di Cinematografia, particolarmente attento a curare le tracce sonore (fondamentali per il senso del film), e alla presentazione nella sezione “Back to Life” del TFF39, il pubblico torinese ha potuto vedere, molto probabilmente per la prima volta, Number One di Gianni Buffardi (1973). L’opera, nonostante faccia della confusione il suo marchio distintivo e la sua ragion d’essere, è pervasa da una lucida follia e da una chiarezza d’intenti spesso sconosciuta ai “poliziotteschi” che in quel periodo inondavano i cinema italiani.
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La regista francese Mia Hansen-Løve, con Bergman Island, costruisce un film che, riprendendo i temi a lei cari e mettendo in discussione il suo stile di sceneggiatura, si trasforma in una profonda (auto)riflessione sul processo creativo dell’artista. Per far ciò, mette in scena un vero e proprio alter ego, che ha le fattezze di Chris Sanders (Vicky Krieps), regista e sceneggiatrice. Chris, in compagnia del marito Tony (Tim Roth), anch’egli cineasta, si stabilisce per un’estate a scrivere il suo prossimo film sull’isola svedese di Fårö, celebre residenza di Ingmar Bergman.
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