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“A RIFLE AND A BAG” DI CRISTINA HANES, ISABELLA RINALDI, ARYA ROTHE

Nella jungla indiana, a partire dagli anni Sessanta, opera il gruppo maoista militante dei naxaliti, preposto alla tutela (anche violenta) delle minoranze tribali del sub-continente. Dalla loro fondazione, questi gruppi armati hanno rivestito il ruolo di “nemico pubblico n.1” per la sicurezza interna del Paese.

Per i ribelli che si fossero arresi sono però sempre state garantite la totale amnistia e la protezione dalle ritorsioni dagli ex compagni di militanza, all’interno di comunità ben salvaguardate. Ed è su una di queste realtà di “rifugiati” che si concentra A Rifle and a Bag, opera prima del collettivo “NoCut Film”, formato da Cristina Haneş, Isabella Rinaldi e Arya Rothe.

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“FRIED BARRY” DI RYAN KRUGER

Se la critica cinematografica specializzata si è trovata a tratti spiazzata per il cambiamento nelle forme e nelle modalità di fruizione del cinema, al contempo si sono delineate nuove prospettive di collocazione rispetto alla sfera discorsiva del film e degli strumenti per approcciarla. Soprattutto se nel film in questione, come in questo caso, campeggia la voglia di mandare a quel paese un certo tipo di pubblico. Premessa fatta, è complesso cercare di approfondire Fried Barry senza snaturarlo, come non è indispensabile setacciarlo per estrapolare quella riflessione critica in più che “stroppierebbe il troppo”. 

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“EYIMOFE” DI ARIE E CHUKO ESIRI

Eyimofe (This is my desire), primo lungometraggio dei fratelli Arie e Chuko Esiri è, come si può facilmente indovinare dal titolo, un film sul desiderio. I due protagonisti del film, Mofe e Rosa, sognano di lasciare la Nigeria ed emigrare all’estero: nessuno dei due vi riuscirà ed entrambi impareranno a caro prezzo a non confondere il proprio desiderio con la sua soddisfazione. Continua la lettura di “EYIMOFE” DI ARIE E CHUKO ESIRI

“BOTOX ” DI KAVEH MAZAHERI

“Era una notte buia e tempestosa”, avrebbe scritto Snoopy. Inizia proprio così Botox, in una notte buia e tempestosa, mentre su uno schermo televisivo un altro veterano del disegno animato, Willy il Coyote, si esibisce in uno dei suoi soliti capitomboli, dal quale esce comicamente deformato ma sostanzialmente incolume. Akram (Susan Parvar) guarda rapita la scena. È affetta da autismo, bloccata in un mondo di gesti rituali e di atteggiamenti vagamente infantili, e forse crede che le medesime leggi fisiche che regolano il mondo dei cartoon valgano anche nella realtà. Sta di fatto che non ci pensa due volte a spingere giù dal tetto suo fratello Emad (Soroush Saeidi, anche produttore del film), colpevole un giorno di averla derisa una volta di troppo.

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“IL BUCO IN TESTA” DI ANTONIO CAPUANO

Nata e cresciuta nella periferia di Napoli, Maria (Teresa Saponangelo) è orfana di padre ancor prima di venire al mondo. A portarglielo via un colpo di pistola esploso dal brigatista Guido Mandelli (Tommaso Ragno) che, una volta scontata la pena in carcere, vedrà bussare alla sua porta la giovane donna in cerca di risposte. Con Il buco in testa, presentato fuori concorso al Torino Film Festival, Antonio Capuano dedica un nuovo capitolo alla sua Napoli, teatro inconsapevole di vite alla deriva.

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MASTERCLASS WOMEN IN CINEMA: LE VOCI IN EVOLUZIONE DELLE DONNE NEL CINEMA

Si è svolta sabato 21 novembre la prima Masterclass del 38º Torino Film Festival. L’evento, mediato da Fedra Fateh, vicedirettrice del Festival, ha visto come protagoniste Waad Al-Kateab, giornalista e filmmaker, e Homayra Sellier, fondatrice dell’ONG Innocence in Danger. Le due ospiti, che sono anche parte della giuria del festival (quest’anno tutta al femminile), hanno raccontato come le loro vite si siano intrecciate al mondo cinematografico; in quanto donne, l’incontro con il cinema è risultato fondamentale per dare voce alle loro cause. Waad Al-Kateab ha realizzato il documentario For Sama (co-diretto con Edward Watts), ovvero un’emozionante lettera d’amore rivolta alla figlia per spiegarle la guerra in Siria e le ragioni che l’hanno spinta a restare ad Aleppo fino all’ultimo. Homayra Sellier, invece, ha fondato la sua organizzazione per fornire assistenza di ogni genere alle vittime di abusi sessuali. In entrambi i casi la narrazione cinematografica è stata l’occasione fondamentale per mettere in luce argomenti spesso evitati o posti in secondo piano. 

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“MY AMERICA” BY BARBARA CUPISTI

Article by Roberto Guida

Translated by Nadia Tordera

“We, the people of the United States, in order to form a more perfect union, establish justice, ensure domestic tranquility, provide for the common defense, promote the general welfare, and secure the blessings of liberty to ourselves and our posterity, do ordain and establish this Constitution for the United States of America.” A famous preamble, thought to be immortal even if we are immediately warned that in reality, in 2020, many still try to understand it.

However there is a light in Barbara Cupisti’s documentary work My America, feeble but alive.

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“MY AMERICA” DI BARBARA CUPISTI

“Noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di perfezionare ulteriormente la nostra unione, di garantire la giustizia, di assicurare la tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il benessere generale ed assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi ed alla nostra posterità, ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America.” Un preambolo celebre, pensato per essere immortale anche se siamo subito avvertiti che in realtà, nel 2020, ancora molti cercano di comprenderlo.

C’è tuttavia una luce nel lavoro documentario My America di Barbara Cupisti, flebile ma viva.

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“CALIBRO 9” DI TONI D’ANGELO

Milano, Francoforte, Mosca, Anversa, una città calabrese. Luoghi del film scanditi da scritte rosse, caselle sulla scacchiera di una partita senza esclusione di colpi. A giocare per la vita è Fernando Piazza (Marco Bocci), che la madre non ha saputo allontanare dal mondo della malavita del padre; dall’altro lato del tavolo, la ‘ndrangheta. Ad aiutarlo, in una partita più difficile di quanto potesse immaginare, c’è solo Maia (Ksenia Rappoport), la ragazza che un tempo ha amato, ora donna del clan dei Corapi.

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“MÃES DO DERICK” (MOTHERS OF DERICK) DI DÊ KELM

Presentato nella sezione Internazionale.doc, il film mostra la vita di una famiglia non monogama e anticonvenzionale composta da un bambino di nove anni, Derick, figlio biologico di Tammy, e dalle altre tre madri che lo crescono: Bruna, Shiva e Ana.

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“CASA DE ANTIGUIDADES” DI JOÃO PAULO MIRANDA MARIA

Ancora prima delle immagini, è una luce bianca a suggerire le coordinate per la visione del film. Una luce che invade lo schermo e appare come un eccentrico sostituto del nero, su cui i titoli di testa scorrono al contrario, dall’alto verso il basso, suggerendo un percorso a ritroso. È proprio questo moto inverso lo spirito che muove Casa de antiguidades, del registra brasiliano João Paulo Miranda Maria, un’opera prima che guarda al passato per parlare del presente.

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“LUCKY” DI NATASHA KERMANI – “REGRET” DI SANTIAGO MENGHINI

“Go it alone” (“cavarsela da soli”): questo è il titolo che la giovane scrittrice May Ryer (Bea Grant) sceglie per il suo più recente manuale d’auto-aiuto. I suoi libri non hanno un grande riscontro e gli affari vanno a rilento, ma questo risulta essere l’ultimo dei problemi per May. Un inquietante uomo mascherato irrompe ogni notte nella casa in cui la scrittrice vive con il marito, tormentando la donna fino allo stremo delle forze. Nessuno, però, sembra dare rilevanza a questi avvenimenti, né il marito – accondiscendente e insensibile – né la polizia, abbandonando May al suo destino.

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“A MACHINE TO LIVE IN” DI YONI GOLDSTEIN E MEREDITH ZIELKE

«Per un momento, immaginiamo insieme un sogno», ci viene detto all’inizio di A Machine To Live In, opera prima diretta da Yoni Goldstein e Meredith Zielke e presentata al Torino Film Festival nella sezione TFFDOC/Paesaggio. Il sogno di cui il film vuole farci partecipi è quello di Brasilia, capitale del Brasile costruita in mille giorni dove prima c’era solo una nuda pianura: voluta dal presidente Kubitschek, pianificata e progettata dagli architetti Lúcio Costa e Oscar Niemeyer, fu presentata alla sua inaugurazione nel 1960 come un’utopia divenuta realtà. Scintillante esempio di architettura modernista, Brasilia è una città con molte curve, molti triangoli, molto bianco, molti specchi e «completamente senza ombre». Per questo sembra che la sua configurazione aumenti l’incidenza dei raggi ultravioletti causando molti casi di disabilità visive. Bisogna accettare di vedere meno se si vuole vivere in un sogno. Continua la lettura di “A MACHINE TO LIVE IN” DI YONI GOLDSTEIN E MEREDITH ZIELKE

“MOVING ON” DI YOON DAN-BI

“Bramo quel luogo lontano, dove vivono i miei cari”: su questi versi di una canzone si apre “Moving On”, opera prima di Yoon Dan-bi, premiata con ben 4 premi all’ultima edizione del festival di Busan. Versi che sembrano indicare un ritorno, per chi li ha scritti, alle proprie origini, al proprio nucleo di partenza.

Ed è proprio questo che accade ai due protagonisti, fratello e sorella, del film di Yoon quando, abbandonata la casa del padre divorziato, un modesto venditore ambulante di imitazioni di scarpe di marca, si trasferiscono nella casa del nonno paterno, un anziano sofferente e spesso costretto al ricovero in ospedale.

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“WILDFIRE” DI CATHY BRADY

Intimista e al contempo politico, l’esordio al lungometraggio della regista Brady mostra l’impatto psicologico transgenerazionale del conflitto nordirlandese attraverso la storia di due sorelle.

Girato al confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, il film prende avvio quando Kelly (Nika McGuigan), scomparsa in seguito alla morte della madre, ritorna all’improvviso nella piccola cittadina da cui era scappata, irrompendo nella vita di sua sorella Lauren (Nora-Jane Noone).

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“MICKEY ON THE ROAD” DI MIAN MIAN LU

Rinegoziare le norme di genere costa un viaggio oltremare, quello della Mickey del titolo, in una parabola coming of age post-adolescenziale che sancisce, una volta per tutte, il passaggio all’età adulta. On the road è anche il percorso festivaliero del lungometraggio di debutto di Mian Mian Lu: da Taipei, a Vancouver e infine in concorso per la 38esima edizione del Torino Film Festival.

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“GUNDA” DI VICTOR KOSSAKOVSKY

Dopo Aquarela – il film monito sulla forza e la bellezza dell’acqua presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2018 e selezionato per l’Oscar come Migliore Documentario l’anno successivo –, il regista russo Victor Kossakovsky con Gunda ci mette di fronte a un altro semplice, per quanto non scontato, spunto di riflessione. Ambientato in una fattoria (della quale ben poco si vede se non una casetta di legno e tanta vegetazione), il film ha come protagonisti un gruppo di animali e racconta la loro vita quotidiana.

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“THE DARK AND THE WICKED” DI BRYAN BERTINO

A quattro anni di distanza da The Monster, Bertino scrive e dirige una ghost story intrecciata con il dramma famigliare, personalizzandola con il suo consueto stile asciutto ed esplicito. Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival 2020 ed è fuori concorso nella sezione Le stanze di Rol del 38° Torino Film Festival.

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“PINO” DI WALTER FASANO

“Pino” è il titolo del documentario realizzato da Walter Fasano per la storica acquisizione di una delle più significative opere di Pino Pascali da parte del Museo di arte contemporanea a lui dedicato a Polignano a Mare, paese natio dell’artista. Un titolo che in quattro lettere evoca l’anima viva e prorompente di un artista che ha profondamente segnato l’arte del dopoguerra italiano. L’opera in questione, “Cinque bachi da setola e un bozzolo” (1968), da Roma torna finalmente “a casa” nel 2018 in un racconto per immagini fotografiche che si ispira a “La Jetée” di Chris Marker.

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U SLAVU LJUBAVI (IN PRAISE OF LOVE), DI TAMARA DRAKULIĆ

Schermo nero, vento. Poi, un vociare umano, commisto a nitriti. In un polveroso e spartano ippodromo, una corsa di cavalli viene interrotta al suo acme, con un ricorso ad un freeze-frame. A chi spetti la vittoria, non è dato saperlo.

Ecco che U slavu ljubavi (In Praise of Love) ri-comincia per la prima volta. Di nuovo nero, di nuovo rumori ambientali: a sovrastare ogni cosa sono cinguettii e muggiti. La presenza umana, stavolta, non è contemplata nemmeno sul piano sonoro. Dalla natura, incontaminata, si passa ai corpi animali. Lunghe inquadrature statiche, ipnotizzate da deretani equini. Lo sguardo di Drakulić non sembra porsi come un punto di stazione privilegiato rispetto ad altri, ma come uno dei tanti possibili. Il mondo viene lasciato fluire nella sua spontaneità, in ogni suo respiro. Non importa se i soggetti antropomorfici abbandonano il campo. Non è questione di décadrages, o di sovvertire una qualche regola grammaticale. Si tratta piuttosto di non riconoscersi in un’organizzazione gerarchica del materiale audiovisivo. Tutto è ugualmente meritevole di attenzione, e Drakulić è capace di restituirci l’indecidibilità di un punto di vista.

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