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“o beijo no asfalto” di murilo benicio

Un uomo sta morendo a San Paolo. È stato investito da un autobus e visione della gente accorsa è molto intensa. Un bacio sull’asfalto. Delicato, innocente, definitivo.

Ad esaudire quest’ultimo desiderio è Arandir, impiegato di banca e fedele marito. Sulla scena ci sono un giornalista scandalistico che intrattiene frequentazioni con la polizia e il suocero di Arandir.

La macchina del fango può partire.

Alla sua seconda esperienza da regista, Murilo Benìcio, noto in Brasile per alcuni ruoli in importanti telenovelas, dirige un’opera seconda di convincente e quasi inaspettata maturità, tratta dall’omonimo dramma di Nelson Rodrigues. Si tratta della terza trasposizione cinematografica del lavoro del drammaturgo pernambucano, che questa volta diventa una meta-narrazione che interseca teatro e cinema. Lunghe sequenze del cast che lavorano alla lettura del testo si alternano alle scene dell’universo diegetico, poi ancora macchina e operatori in campo e di nuovo quadri della totalità degli interpreti che provano lo spettacolo tra errori e risate. I limiti delle scene, come quelli dell’emotività dei protagonisti sono aleatori ed inconsistenti.

E Benìcio indaga il tutto con fare da reporter, con un bianco e nero giornalistico tra le vite dei suoi attori e le tragiche vicende dei “suoi” protagonisti.

L’opera è profondamente moderna e con forti assonanze con i drammi di Tennessee Williams: passioni intense e convulse guidano protagonisti insicuri e deboli che confezionano una colpa per giustificare le loro mancanze, mistificare la realtà e avvelenarla.

Così, anche un gesto leggero come quello di Arandir si trasforma in un becero scandalo del quale si nutrono le due figure tematiche fondamentali della condizione umana. Quella esterna, dell’istituzione, della polizia che è violenta, quasi malvagia, autoritaria nel controllo dell’opinione pubblica; e quella intima della famiglia che perde il suo statuto di focolare sicuro per diventare un luogo spaventoso dal quale fuggire.

Arandir è l’uomo moderno che rimane solo, abbandonato da chi dovrebbe aver cura di lui, per via di pregiudizi, in particolare quelli della società brasiliana che Benìcio racconta nella sua complessità e grande contraddittorietà.

“LA MAFIA NON E’ PIU’ QUELLA DI UNA VOLTA” DI FRANCO MARESCO

A Venezia ha vinto il Premio speciale della giuria, ma Maresco a ritirare il premio non c’era. Se ne stava a casa, depresso e sfiduciato, a sfogliare i messaggi di congratulazioni che gli arrivavano sul cellulare. Tra i messaggi, come ha raccontato lui stesso a Emiliano Morreale in un’intervista pubblicata su La Repubblica, ce n’era uno del suo vecchio compagno di giochi Daniele Ciprì – mittente inizialmente non riconosciuto perché, sfiduciato e depresso, Maresco sul cellulare i numeri non li salva.

L’aneddoto, per quanto strano possa sembrare, ci aiuta a capire il film premiato a Venezia e ora visionabile nelle poche sale italiane che, incomprensibilmente, all’arte complessa ancora credono. Ci aiuta perché la vicenda, fosse anche poco sincera, permette di dare spessore emotivo a un film che a primo impatto non racconta altro che il disincanto del suo regista. L’aneddoto non solo, insomma, ci conferma l’idea di un regista nichilista e disperato – e d’altronde chi lo conosce, questo già lo sa -, ma scopre le ragioni profonde di un film la cui produzione, altrimenti, non sarebbe punto giustificata.

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“C’ERA UNA VOLTA… A HOLLYWOOD” DI QUENTIN TARANTINO

C’era una volta… a Hollywood, la nona e, si vocifera, penultima pellicola di Quentin Tarantino, girata in 35mm, racconta le vicende di un attore western, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) il quale, sempre affiancato dal suo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt), tenta di affrancarsi dalla carriera televisiva e diventare una star del cinema.

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“MARTIN EDEN”, DI PIETRO MARCELLO

“Lo spirito del tempo”, verrebbe da pensare guardando l’ultimo lavoro di Pietro Marcello che, attraverso la parabola di Martin Eden – tratta dall’omonimo romanzo di Jack London – restituisce un affresco del Novecento quasi sospeso nel tempo e nello spazio. Ormai l’autore ci ha abituati al suo stile: uno stile assolutamente personale, veicolo di un’idea di cinema anticonvenziale e irriducibile a categorie consuete.

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“IT – CAPITOLO DUE” DI ANDRÉS MUSCHIETTI

Il secondo e ultimo capitolo di It, firmato dall’argentino Andrés Muschietti, è uscito nelle sale di tutto il mondo giovedì cinque settembre. Il plot è semplice: a ventisette anni dalla vittoria del club dei perdenti, quest’ultimi, adulti, devono ritornare nella loro odiata cittadina di Derry, su richiesta di Mike Henlon (Isaiah Mustafa), dopo aver scoperto che It si è risvegliato.

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CONCORTO FILM FESTIVAL 2019

Alternativa di pregio per contrastare la nostalgia di fine vacanze, Concorto Film Festival macina edizioni – dal 17 al 24 agosto si è svolta la diciottesima – e riscuote consenso di pubblico e critica con il suo programma interamente dedicato a valorizzare la forma cinematografica del cortometraggio. I dati confermano la bontà di questa operazione: 49 film in concorso, tra cui ben 13 prime italiane, provenienti da 30 paesi diversi, per un Festival votato all’internazionalità, la stessa piacevolmente avvertita durante le giornate. Le opere sono proiettate en plein air nella suggestiva cornice di Parco Raggio a Pontenure – una manciata di chilometri da Piacenza- che, con un arredamento misurato e ospitale, si colora di sfumature uniche.

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“MIDSOMMAR – IL VILLAGGIO DEI DANNATI” DI ARI ASTER

La protagonista di Midsommar – Il villaggio dei Dannati di Ari Aster è Dani (Florence Pugh), dottoranda di psicologia che dopo aver perso i suoi genitori e la sorella cerca rifugio nel suo ragazzo Christian (Jack Reynor). Lui è un aitante quanto accondiscendente e allo stesso tempo insicuro, se non inetto, studente americano di antropologia che, fin dall’inizio, mostra segni di insofferenza nei confronti della giovane, confondendo la sua malattia mentale con una ‘ricerca di attenzioni’. Un viaggio in Svezia organizzato da Pelle (Vilhelm Blomgren), amico di Christian, serve da palliativo al dolore della giovane che però viene invitata con ritrosia.

I protagonisti di “Midsommar” in un frame del film. Da sx a dx: Christian (Jack Reynor), Dani (Florence Pugh), Josh (William Jackson Harper), Pelle (Vilhelm Blomgren).

La forza di Midsommar è di riuscire a raccontare una storia dell’orrore senza dover ricorrere al buio, alle ombre, a ciò che non si vede: l’Hälsingland svedese, con le sue lunghissime giornate d’estate in cui la luce scompare solo per un paio d’ore, diventa un perverso panorama da cartolina in cui avvengono rituali d’iniziazione sanguinolenti, animaleschi, violenti in un culto di uomini e di donne, spesso costrette all’endogamia, sotto un’aura di apparente e candida tranquillità. Ari Aster compie un vero e proprio studio antropologico di questa comunità altera e ambigua: è capace di raccontare un universo in cui le norme sociali e religiose sono decise con una precisione chirurgica in cui, ad esempio, gli anziani si suicidano gettandosi da una rupe anziché sacrificare il loro corpo al passare del tempo, e le donne si intrattengono in una danza lunghissima, simile a un sabba stregonesco, che serve a decidere la “regina di Maggio”.

La scrittura e la direzione, che portano entrambe la firma di Aster, richiamano quel mondo opaco, buio e triste di Hereditary, suo primo film, e ne riprendono alcuni temi: il disagio mentale, la deformazione fisica, il rituale magico ma anche le modalità del racconto che inseriscono entrambi i film nella forma di slowburn horror movie, che muovono da ritmi molto dilatati per terminare con una violenta escalation di azioni orrorifiche e gore. Acclamato dalla critica, Midsommar utilizza mezzi ipnotici (chiarezza d’immagine, distorsioni ottiche, immagini capovolte, note e suoni di archi, flauti e fisarmoniche ripetuti) per attirare lo sguardo dello spettatore e coinvolgerlo nella sua storia di due ore e mezza: alla dissolvenza finale, quando il rituale tra film e spettatore si spezza, ci si domanda però se ciò a cui si è assistito sia stato realmente ‘originale’ o ‘mai visto’, soprattutto per la scelta di girare un horror alla luce del sole che in realtà è, forse, e soprattutto, una storia d’amore che finisce.

Foto promozionale del film “Midsommar”.

Infatti, non solo una storia simile è stata già raccontata con The Wicker Man da Anthony Shaffer e Robin Hardy nel 1973, ma alcune inquadrature e scelte di montaggio ricordano tanto Shining di Stanley Kubrick (il montaggio alternato tra le immagini dei genitori e quelle degli anziani sulla rupe ricorda quello delle gemelline vestite di azzurro), quanto il più recente Suspiria di Luca Guadagnino (la scena del sabba che richiama quella dell’analogo rito in onore di Mater Suspiriorum). Nonostante il gioco di citazioni e richiami, possiamo dire che il racconto di Midsommar si risolva, in fin dei conti, in una perversa vendetta nei confronti di un uomo che non sa amare e di una donna che ha perso la stabilità familiare e relazionale all’interno di una cultura straniera precisamente disegnata, spingendoci così a ragionare sulla questione delle tradizioni e degli stereotipi sulla diversità.

“QUEL GIORNO D’ESTATE” di MIKHAEL HERS

Il termometro per valutare la riuscita di un film che si prefigge di trattare la sfera emotiva dell’uomo, non può prescindere dal considerare il grado di coinvolgimento degli spettatori. Spesso l’esigenza della narrazione mina l’esito di tale intento, mettendo in scena personaggi appiattiti nel veicolare determinati significati. Invece, Mikhael Hers e i suoi ottimi interpreti, con discreta continuità, riescono a suscitare nel pubblico una genuina compassione, intesa nel significato etimologico di “soffrire insieme”.

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“LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN” DI XAVIER DOLAN

A volte capita, da piccoli, di essere attratti da un amichetto che gonfia la Big babol davanti ai nostri occhi: la bolla diventa sempre più grande e si resta ammaliati, fino a che non esplode lasciando i resti di chewing gum masticata sul suo volto, trasformando un momento spettacolare in un momento imbarazzante, che mette a disagio sia te sia il tuo amichetto. Ecco, questa è la sensazione che, purtroppo, La mia vita con John F. Donovan, ultimo film di Xavier Dolan, lascia non alla fine del film, ma subito dopo i titoli di testa, visto che è qui che la trama si esaurisce.

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“CLIMAX” DI GASPAR NOE’

Ogni discorso su Noé si nutre dei pareri contrastanti che lo animano: c’è chi lo odia e chi lo ama. Tant’è che Climax, uscito l’anno scorso a Cannes – alla Quinzaine, non al Palais – prima di arrivare da noi ha già avuto il tempo di tracciare il solco tra i denigratori e i sostenitori. E così, da un lato, stando alla doxa luciferina, si fa una gran fatica a capire i meriti di questa sua quinta fatica cinematografica; e dall’altro, volendo invece dar retta ai suoi adoranti seguaci, il film è il vertice della sua filmografia, l’esempio lampante di un genio cinico ed estatico.

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“American animals” di Bart Layton

Spencer Reinhard (Barry Keoghan) è uno studente di arte figlio di una famiglia borghese, ha talento ma la vita che si prospetta davanti a lui gli appare mediocre ed ordinaria; è alla ricerca di un’esperienza trascendentale che caratterizza i percorsi di molti artisti ed è disposto ad accoglierla anche se si trattasse di una tragedia. Anche Warren Lipka (Evan Peters) è uno studente benestante e annoiato che vuole emanciparsi da una vita di monotonia e mediocrità. La svolta nella loro vita arriverà con la scoperta che nell’università di Spencer sono conservati alcuni dei libri più pregiati d’America, volumi che valgono milioni di dollari, custoditi da un’anziana segretaria. Coinvolgono gli amici Chas ed Erik e organizzano il furto di queste opere preziose.

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“SELFIE” DI AGOSTINO FERRENTE

Napoli è ormai città cinematograficamente mitologica. La genesi del mito la si deve, è chiaro, a Gomorra. Pietra miliare della metamorfosi napoletana, della sua trasformazione da città mediterranea, farsesca e fiera, a metropoli in mano alla camorra e al degrado, Gomorra sembra aver ridisegnato connotati e simbologia del capoluogo campano: e là dove c’eran Totò e Peppino a far ridere sotto al sole, oggi ci sono ragazzini con la pistola tra le mani. Così, dopo qualche anno in sordina, forse passato a riflettere sugli effetti nocivi di questa trasfigurazione immaginifica (si pensi all’apologia del sindaco De Magistris: “Napoli non è Gomorra. È la città della cultura”), nell’ultimo lustro diversi registi si son fatti coraggio e hanno ripreso il discorso iniziato da Garrone (via Roberto Saviano) e proseguito sulle cronache: per ultimi, oltre all’omonima trasposizione televisiva del capolavoro garroniano, La paranza dei bambini di Giovannesi e questo Selfie firmato Agostino Ferrente.

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UBIQUiTY di Bregtje van der Haak

Tutti parlano dei benefici che le innovazioni tecnologiche portano alla società, molti ne discutono gli effetti alienanti, pochi si soffermano sui danni che provocano alla salute dell’uomo. È proprio quest’ultimo punto che si concentra Ubiquity, documentario che la regista olandese Bregtje van der Haak ha presentato alla ventiduesima edizione di Cinemambiente, pregando gli spettatori in sala di spegnere i telefoni cellulari prima dell’inizio della proiezione.

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“The truth about killer robots” di di Maxim Pozdorovkin

Non bisogna farsi trarre in inganno dal titolo del documentario di Maxim Pozdorovkin The Truth About Killer Robots: non ci troviamo davanti a un lavoro di science fiction in cui le macchine si ribellano e uccidono gli umani, e quella a cui assistiamo è un’invasione graduale e più subdola. Il regista utilizza il pretesto dell’indagine sulla morte delle prime vittime di intelligenze artificiali per mostrarci come la tecnologia stia evolvendo, trasformando totalmente il nostro modo di fruire di determinati beni e servizi.

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“Take Light” di Shasha Nakahai

Tra i grandi paradossi che segnano il continente africano vi è quello dell’inaccessibilità ai servizi basilari nonostante la grande disponibilità di risorse prime. È questo il caso della Nigeria che, nonostante possieda la più grande riserva di gas naturale in Africa e sia il maggior produttore di energia elettrica, può garantire accesso alla linea elettrica a meno del 50% della sua popolazione, e anche questo 50% ne può disporre per limitate fasce orarie, spesso interrotte da improvvisi blackout e malfunzionamenti.

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“L’angelo del crimine” di luis ortega

L’attività criminale di Carlos Eduardo Robledo Punch inizia in una tranquilla giornata di marzo del 1971, a soli 19 anni. Carlitos – un viso angelico incorniciato da spumosi riccioli biondi – ha gli occhi curiosi di bambino e un grilletto sorprendentemente facile.

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“CHE FARE QUANDO IL MONDO E’ IN FIAMME?” di ROBERTO MINERVINI

Una madre raccomanda ai suoi due figli di rientrare a casa quando si accendono i lampioni. Cosa succede dopo il tramonto? Non una mera premura materna ma piuttosto un sentimento di paura, e la percezione di una minaccia palpabile per una comunità, quella afroamericana di New Orleans, scossa dall’uccisione di Alton Sterling per mano della polizia e da altri episodi di violenza. Dopo Louisiana (The Other Side), Roberto Minervini prosegue la sua attenta indagine sociale con il documentario What You Gonna Do When the World’s on Fire? presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2018 e nei cinema dal 9 maggio. Il regista, trapiantato negli States, prosegue l’incursione in Louisiana spostando il suo sguardo più a sud, dove la tensione è alle stelle in seguito alla bollente estate 2017.

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“IL TRADITORE” di Marco Bellocchio

“Io non sono un pentito, non sono un infame. Cosa nostra non esiste più”. Sono parole che Tommaso Buscetta rivolge a Giovanni Falcone, difendendosi dalle accuse che gli sono rivolte dai suoi (ex) affiliati e che campeggiano a caratteri cubitali sui muri delle strade di Palermo, all’inizio di una collaborazione che avrebbe portato a 366 arresti.

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“THE CONNECTION” DI SHIRLEY CLARKE

Nel 1959 il Living Theatre metteva in scena la pièce di Jack Gelber The Connection; due anni dopo la versione cinematografica arrivava a Cannes. Il Torino Fringe Festival ha proposto al pubblico torinese la versione restaurata del primo lungometraggio di Shirley Clarke, in una proiezione presso i suggestivi spazi dell’Unione Culturale Franco Antonicelli, che già aveva ospitato le opere della regista statunitense durante la seconda rassegna del The New American Cinema Group curata da Edoardo Fadini nel 1968.

Facile comprendere perché al momento della sua uscita il film abbia avuto vita difficile, subendo persino la censura per via del linguaggio troppo disinvolto nel trattare un tema già di per sé scottante come la tossicodipendenza. Una macchina da presa irrequieta, guidata da un cameraman e da una regista altrettanto irrequieti, ci permette infatti di vedere cosa avviene in un appartamento del Greenwich Village, mentre un gruppo di musicisti jazz eroinomani aspetta che arrivi il contatto che porterà loro la prossima dose. Il film, nel suo essere uno spassoso esempio di metacinema, è incredibilmente abile nel portare avanti una riflessione non tanto sulla droga quanto sulla dipendenza e sulla condizione umana, con diversi tocchi di ironia che gli permettono di dipanarsi e sciogliersi con fluidità.

L’opera, restaurata da Ross Lippman e distribuita da Reading Bloom, è inserita all’interno della nuova sezione Cinema del Torino Fringe Festival, che ha dedicato a Clarke la mostra Portrait of Shirley: un’inedita collezione di fotografie e video allestiti nella sala “Living” dell’Unione Culturale. Accanto alla mostra, durante la durata del festival, le performance di alcuni artisti e cineasti francesi e italiani protagonisti della rassegna “Pellicola in scena”, curata da Clizia Centorrino.

Tantissime occasioni da non perdere quindi in questo maggio torinese in pieno mood FRIdom!

“TUTTI PAZZI A TEL AVIV” DI SAMEH ZOABI

È uscito in sala questa settimana l’ultimo film di Sameh Zoabi, Tutti pazzi a Tel Aviv (Tel Aviv on Fire), acclamato dalla stampa e lungamente applaudito alla 75 Mostra del Cinema di Venezia e il cui protagonista, Kais Nashif (Salam), è anche stato premiato come miglior attore nella sezione “Orizzonti”.

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