Tutti gli articoli di Alessandro Pomati

LA CONFERENZA STAMPA DEL 42° TORINO FILM FESTIVAL (22-30 NOVEMBRE 2024)

Nella cornice di Villa Miani, a Roma, si è svolta la conferenza stampa di presentazione della 42sima edizione del Torino Film Festival. Alla presenza del presidente del Museo Nazionale del Cinema, Enzo Ghigo, e del suo direttore Carlo Chatrian, il neoinsediato direttore artistico Giulio Base ha annunciato il programma del festival sotto lo sguardo intenso e magnetico (ancorché stampato su un cartellone posto alle sue spalle) del Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi, scelto come manifesto della nuova edizione. E forse non è un caso che proprio un’interpretazione del divo ribelle di Hollywood diretta da un maestro del cinema italiano sia stata scelta come immagine guida della kermesse, vista l’attenzione riservata dalla nuova direzione proprio all’America e all’Italia, come confermerebbe il grande numero di ospiti e titoli (sia opere prime e seconde, da sempre oggetto privilegiato della manifestazione torinese, sia restauri) provenienti dai due Paesi.

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Senza ovviamente perdere di vista una vocazione cosmopolita e uscendo dai confini canonici del cinema europeo e anglosassone, è stata una, e una sola, l’idea a guidare l’operato di Base e del suo team di selezionatori e selezionatrici: quella di “memorabilità” dei film presentati, accompagnata a un loro generale sfoltimento (120 titoli contro i 200 della scorsa edizione, inseriti in sei sezioni). Cercando di far dialogare il passato glorioso del cinema con il suo presente e il prodotto di massa con quello di nicchia, Base inaugura la sua prima edizione da direttore (che vede per la prima volta più registe che registi nelle sezioni competitive) nel segno dell’accessibilità, cercando di attirare una platea di potenziali spettatori tra le più ampie possibili – e le star e i red carpet, in questo senso, sono indubbiamente alleati preziosi.

Alla luce di ciò, forse non è stato casuale anche un aggettivo utilizzato dal presidente Ghigo in riferimento alla natura di questa edizione ormai in procinto di iniziare: “scoppiettante”. Non resta allora che mettersi comodi, aspettare che si spengano le luci in sala e si accenda il proiettore: lo spettacolo del festival sta per cominciare.

Alessandro Pomati

“IO CAPITANO” DI MATTEO GARRONE

Un planisfero con un enorme spazio bianco al suo interno: è questa la superficie su cui scorre il titolo dell’ultimo film di Matteo Garrone, Io capitano, vincitore del Leone d’argento per la regia all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un’immagine eloquente, che incarna l’idea di un’assenza di confini, di limiti. Eppure un limite i due protagonisti della storia, i cugini sedicenni Seydou (Seydou Sarr, insignito del premio Mastroianni come attore emergente) e Moussa (Moustapha Fall) ce l’hanno davanti ogni giorno: quello rappresentato dalla loro città natale, Dakar. I due sognano di lasciarla e di partire per fare fortuna in Europa. Senza dire niente alle proprie famiglie e dopo aver raccolto i soldi necessari, intraprendono una traversata che dal Senegal li porterà alle coste dell’Italia; ma non sarà un viaggio privo di difficoltà.

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“ANIMALI SELVATICI” DI CRISTIAN MUNGIU

Animali Selvatici – l’ultimo lungometraggio del cineasta romeno Cristian Mungiu, presentato in concorso al Festival di Cannes del 2022 – si apre con un’apparente e spiazzante contraddizione: nessun titolo di testa, nessun preambolo; solo una delle inquadrature a macchina fissa a cui ci ha tanto abituati nelle sue pellicole precedenti, che si focalizza su un bambino che esce di casa per andare a scuola. Dopo uno stacco di montaggio, la macchina da presa segue di spalle il bambino mentre attraversa il bosco dietro casa: lo sorpassa e si immobilizza nel momento in cui si ferma anche il bambino, il cui sguardo si è posato su qualcosa fuoricampo tra i rami alti degli alberi. Stacco al nero, cominciano a scorrere i titoli di testa. Più che in medias res, si dovrebbe parlare in questo caso di un incipit in medium nullum.

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“RAPITO” DI MARCO BELLOCCHIO

Alla fine è tutto nello sguardo, sembra volerci dire Marco Bellocchio già nei poster e nelle locandine promozionali del suo ultimo film, Rapito, presentato in concorso alla 76sima edizione del Festival di Cannes. Lo sguardo del piccolo Edgardo Mortara (Enea Sala) – sestogenito di una famiglia bolognese ebrea prelevato nel 1858 dall’autorità pontificia perché segretamente battezzato e tradotto a Roma – rivolto verso noi spettatori mentre viene tenuto in braccio da papa Pio IX. Ed è proprio il suo sguardo il cuore del racconto: lo sguardo di un bambino che viene strappato a sei anni dalla sua casa, che del mondo non sa nulla. Specialmente del mondo cristiano. I suoi occhi si soffermano sulle immagini di Cristo, sulle icone che gli vengono continuamente messe sotto agli occhi per trasmettergli più efficacemente la “vera” fede. E l’operazione di conversione infine riesce, tant’è che Mortara avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni da missionario.

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“UN BEL MATTINO” DI MIA HANSEN-LØVE   

Parigi, oggi. Sandra (Léa Seydoux) è una traduttrice e interprete vedova da cinque anni con una figlia piccola a carico, che si ritrova a fare i conti con la malattia degenerativa del padre (Pascal Greggory), ex professore universitario di filosofia, una situazione familiare turbolenta e una relazione extraconiugale con un amico di vecchia data, Clément (Melvil Poupaud). Il tutto avrà un forte impatto su di lei e sul suo modo di vivere e la spingerà a osservare il mondo da un’altra prospettiva.

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“PARLATE A BASSA VOCE” DI ESMERALDA CALABRIA

Albania, 1985. Dopo 40 anni di esercizio indiscriminato del potere, il dittatore Enver Hoxa muore, creando un vuoto tutt’ora incolmabile nella politica albanese. Sotto la sua guida, il Paese ha conosciuto alcune delle pagine più cupe della sua storia, e alla repressione ha fatto seguito una diaspora di dimensioni tutt’altro che modeste, che ha visto in molti casi come uno dei suoi punti di riferimento l’Italia. Redi Hasa, violoncellista professionista attivo da molti anni in Italia, è stato uno dei protagonisti di quella diaspora e, attraverso i suoi interventi, vengono analizzate le conseguenze di quei quarant’anni sul singolo individuo e sulla comunità.

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Ed è proprio lui che Esmeralda Calabria – montatrice, tra gli altri, di Nanni Moretti e Giuseppe Piccioni –, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, utilizza come “cicerone” per il suo racconto, rifiutando la convenzione di tanto cinema del reale di avere un solo narratore e scegliendo invece di farlo conversare, davanti alla macchina da presa, con amici e parenti che hanno vissuto quello che lui ha vissuto.  Davanti all’obiettivo si procede dunque per aneddoti e considerazioni tra i convenuti, rendendo in questo modo la narrazione scorrevole e colloquiale, ed evitando qualsiasi didatticismo; si discorre di arte, di politica, di ideali e di identità rispetto a ciò che si è e ciò che si vuole diventare.

Ma prima di guardare avanti, sembra voler dire Calabria, bisogna necessariamente guardarsi indietro, e dunque tornare sul “luogo del delitto”, l’Albania, dove tra le vestigia ancora in piedi di quell’infame passato, le ferite sono ancora aperte, e ci si continua a domandare, anche quando non si è fatto nulla di male, se non si sarebbe potuto fare di più; il tutto mentre, come ricordano alcuni degli intervistati, nessuno dei veri responsabili si è mai scusato delle atrocità perpetrate. “Quello non era comunismo”, afferma una ex attrice teatrale intervistata, “era dittatura pura e semplice”. E proprio i filmati che vedono protagonisti i capi di quella dittatura diventano il materiale privilegiato per Calabria che, forte di una carriera trentennale nella post-produzione, riesce a farne un uso inedito, quasi espressionista: proiettandoli ora sulla parete di una caverna, ora su un muro di mattoni, la regista rievoca con efficacia quel clima di chiusura e terrore da cui Hasa (che, nato nel 1977, ha conosciuto meglio il periodo di instabilità successivo alla caduta del regime che non il regime stesso) si è divincolato, e come lui migliaia di altri.

Eppure, anche dopo essere approdato e aver fatto carriera in Italia, il senso di colpa rimane: colpa per essere scappato, colpa per non aver fatto abbastanza per il suo Paese in perenne crisi politica, colpa per aver lasciato i genitori; e persiste un sentimento di perenne apolidia. Solo il confronto diretto con la terra natìa forte di ciò che ha imparato al di là di quel muro, come avviene nel potente finale, potrà rimettere le cose in equilibrio.

Alessandro Pomati

“MAN AND DOG” DI STEFAN COSTANTINESCU

Due persone che vagano nel folto di un bosco, un pullman che entra in un tunnel di cui non si riesce a vedere l’uscita, una fitta coltre di fumo: sono soltanto alcune delle immagini che Stefan Costantinescu, al suo primo lungometraggio, utilizza per descrivere la sensazione di spaesamento che Doru (Bogdan Dumitrache), operaio emigrato in Svezia dalla Romania, prova al momento del suo ritorno. Il suo arrivo suscita sorpresa, ma anche una certa freddezza nella moglie Nicoleta (Ofelia Popii), nella figlia adolescente e nella madre arteriosclerotica; l’unico a provare un minimo di genuina commozione sembra essere il suo fedele cane Amza. Dietro l’inatteso ritorno di Doru c’è in realtà di più della semplice ragione lavorativa che egli continua a propinare a chiunque glielo chieda: mentre si trovava in Svezia, infatti, Doru ha ricevuto dei messaggi anonimi che lo informavano della presunta infedeltà coniugale di sua moglie. Lo scopo del suo ritorno in Romania è appurarne la veridicità.

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Come molti suoi connazionali (Cristian Mungiu, Cristi Puiu), Costantinescu dà prova di riuscire a creare atmosfere glaciali e sospese, dove le tensioni serpeggiano senza scoppiare se non al limite estremo. Questo giustifica la fotografia dai toni freddi e asettici, le riprese realizzate per lo più in interni con lo scopo di “imprigionare” i protagonisti e, in questi interni, i piani-sequenza volti a non perdere neanche una parola di quello che essi si dicono. Il rischio di epigonismo viene evitato nel momento in cui anche la macchina da presa, al pari di Doru, si libera dalla staticità e comincia a pedinare i personaggi in scene di altissima suspense, in perfetto stile hitchcockiano. A emergere da questo “pedinamento” è l’immagine di un Paese in cui la cultura patriarcale la fa ancora da padrone, dove alla donna non è concesso di prendere neanche un caffè senza l’approvazione del marito, mentre a quest’ultimo le scappatelle e le sregolatezze sono tutt’altro che proibite.

Dumitrache, attraverso uno stile recitativo spesso in sottrazione, è straordinariamente efficace nel catturare la dimensione grottesca del maschio in crisi, riuscendo spesso a suscitare il riso nello spettatore – pur nel contesto di violenza domestica in cui il film si ambienta. D’altro canto, la sua partner, Popii, brilla in un’interpretazione di glaciale ironia. Ma ogni traccia di umorismo, voluto o involontario, sparisce nel potente finale, che sembra suggerire (schivando il proiettile della consolazione) che persino in una società così fredda, violenta, distante (con o senza COVID-19 a tenerci separati), meschina, con l’ossessione di vivere in “stile IKEA”, si può trovare qualcosa a cui aggrapparsi. È una fatica, ma si può fare; anche se si è un po’ uomini, e un po’ bestie.

Alessandro Pomati

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

Isole Filippine, 1973. I Monzon, una delle dinastie industriali più in vista del Paese, si trova di fronte a un passaggio drammatico: l’anziano patriarca, Servando Monzon III, è in punto di morte a causa di un tumore al pancreas, e il suo erede, il nipote Servando VI, ha il compito di guidare le piantagioni di zucchero di famiglia durante il sanguinoso periodo di repressione vissuto dal Paese sotto la dittatura di Fernando Marcos. Il destino della famiglia finirà con l’incrociarsi con quello di un giovane pluriomicida condannato a morte.

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L’intento di Lav Diaz appare chiaro fin dai titoli di testa: realizzare, come lui stesso sottolinea, un “romanzo-film” a partire dall’omonima opera letteraria della saga familiare firmata dall’autore filippino Ricardo Lee. E. Il film, (presentato fuori concorso alla 79sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia) riprende infatti tutti gli elementi letterari: la stirpe di alto rango al centro del racconto, lo sfondo storico più o meno influente sulle scelte dei protagonisti, l’amore contrastato tra esponenti di classi diverse, i segreti di famiglia che verranno svelati con il procedere della narrazione. Ma Diaz li elabora attraverso lo stile che lo ha reso riconoscibile agli occhi della cinefilia mondiale: fotografia in bianco e nero, inquadrature fisse, tempi dilatati.

Eppure, per buona parte, a farla da padrone è la storia, piuttosto che il modo in cui viene raccontata; una storia di “violenza filippina”, appunto, che si concentra sulle sanguinose vicende di cui si è resa protagonista la famiglia Monzon nel corso dei secoli e che non sembrano trovare un epilogo. In tutto questo, la regia di Diaz, per quanto perfettamente riconoscibile, si configura quasi come invisibile mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, della linearità della narrazione, dei toni melodrammatici delle vicende incarnate dai personaggi, della densità degli avvenimenti.

In alcuni momenti (in verità “pochi” se rapportati alle sette ore di durata), emerge tuttavia la personalità del metteur en scène e il suo respiro: i suoi silenzi, i suoi momenti contemplativi intimi e notturni, poetici, ariosi e quasi estranei alla narrazione; e, soprattutto, l’attenzione per la Storia del suo Paese, la vera protagonista. Attraverso quelle che a prima vista sembrerebbero sviste della post-produzione, come improvvisi abbassamenti e innalzamenti dell’audio, fuori sincrono, fruscii di microfoni sui vestiti, Diaz dà corpo alle crepe della Storia e lascia che si insinuino in mezzo alle immagini rigorose. E sono proprio questi suoni “stonati” a far sentire nel film l’eco della vita vera degli uomini e delle donne che hanno ispirato il racconto.

Alessandro Pomati

“IL SIGNORE DELLE FORMICHE” DI GIANNI AMELIO

1968. In un’aula di tribunale di Roma viene celebrato il processo a carico dell’intellettuale e drammaturgo piacentino Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), accusato di aver “plagiato” (cioè circuito a scopi sessuali) due ragazzi. La sentenza lo dichiarerà colpevole, condannandolo a nove anni di reclusione.

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“ESTERNO NOTTE” DI MARCO BELLOCCHIO

I fatti sono noti: la mattina del 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, dopo aver eliminato a colpi di mitra i 5 agenti della scorta che lo stavano accompagnando a Montecitorio per l’insediamento del quarto governo Andreotti, il primo nella storia repubblicana a cui il Partito Comunista avrebbe dato il proprio appoggio esterno. Da qui inizia un periodo di prigionia di quasi due mesi che si concluderà con il suo assassinio.

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“C’MON C’MON” DI MIKE MILLS

America, oggi. Johnny (Joaquin Phoenix), affermato giornalista radiofonico, sta realizzando una serie di interviste a bambini e adolescenti sulla loro visione del futuro della Terra nell’inoltrato XXI secolo. Mentre si trova a Detroit, riceve una telefonata dalla sorella Vivian (Gaby Hoffman), che lo prega di recarsi da lei e dal suo figlioletto Jesse (Woody Norman) a Los Angeles a causa dell’improvvisa partenza del marito di lei, affetto da una grave forma di bipolarismo. Giunto sul posto, Johnny viene chiamato a occuparsi del bambino mentre lei parte per andare a occuparsi del marito a Oakland; ma anche le necessità lavorative vogliono la loro parte, e così Johnny decide di portare il nipote con sé “a spasso” per l’America per concludere il ciclo di interviste. Il viaggio avrà importanti ripercussioni su entrambi.

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“LEONORA ADDIO” DI PAOLO TAVIANI

1946. All’indomani della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, una nicchia del cimitero del Verano a Roma viene aperta per estrarvi un’urna funeraria. Le ceneri in essa contenute sono del drammaturgo e romanziere Luigi Pirandello, che da dieci anni attendono di essere spostate nell’agrigentino, luogo di nascita dello scrittore. A un modesto impiegato comunale (Fabrizio Ferracane) viene affidato l’ingrato compito di affrontare il viaggio da Roma alla Sicilia per dar loro finalmente degna sepoltura.

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“WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY?” DI ALEXANDRE KOBERIDZE

A Kutaisi, seconda città della Georgia, si consuma un orribile maleficio: Lisa (Oliko Barbakadze), giovane farmacista, e Giorgi (Giorgi Ambroladze), calciatore semi-professionista, si incontrano casualmente in una calda giornata d’estate. Subito tra i due scatta la “scintilla” e si dànno appuntamento per rincontrarsi in un bar il giorno successivo. Ma, durante la notte, l’aspetto fisico di entrambi cambia completamente, e i due si ritrovano a vagare per la città in cerca l’uno dell’altra. Servirà un incantesimo altrettanto potente per spezzare il maleficio che ha colpito i due innamorati.

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“ANOTHER BRICK ON THE WALL” DI ZHANG NAN

Nel 1977 in Cina, pochi mesi dopo la caduta di Mao Tse-tung e il successivo riassemblamento del Partito Comunista Cinese, una valle poco distante dalla città-prefettura di Tangshan, nella provincia dello Hebei, viene sommersa per creare una diga artificiale che possa rifornire d’acqua la vicina grande città. Sott’acqua, però, non finiscono solo le case e i negozi sgomberati, ma anche un intero tratto della Grande Muraglia, il monumento che più di ogni altro, forse, caratterizza la Cina agli occhi del mondo. Quarant’anni dopo la costruzione della diga, alcuni abitanti locali, constatando la miseria delle condizioni di una porzione della Muraglia sulle alture circostanti, decidono di mettere su un’operazione di restauro atta a donare nuovo lustro al millenario monumento.

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“LINGUI” DI MAHAMAT-SALEH HAROUN

In lignua ciadiana, la parola “Lingui” indica il precetto di convivenza armonica tra i membri di una comunità. Non è specificato da quanti membri tale comunità debba essere costituita, e l’armonia che regola la loro convivenza può essere spezzata da fattori di vario tipo. Nel caso di Amina (Achouackh Abakar), venditrice ambulante di cesti ricavati da reti metalliche, e di sua figlia Maria (Rihane Khalil Ario) si tratta della gravidanza indesiderata di quest’ultima, che potrebbe potenzialmente distruggere le loro esistenze. Da una parte il terrore di subire l’ostracismo della comunità islamica conservatrice di cui fanno parte, dall’altra la prospettiva ancora più spaventosa di far abortire la ragazza. Nonostante l’apparente impossibilità di portare a compimento una simile impresa, Maria è determinata a non tenere il bambino e Amina non potrà non starle accanto.

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“BANGLA- LA SERIE” DI PHAIM BUYAN E EMANUELE SCARINGI

Era il 2019 quando il pubblico italiano faceva la conoscenza del mondo che l’esordiente regista Phaim Buyan portava sul grande schermo in Bangla, la sua opera prima: un mondo ad altezza di zoomer, gentrificato, periferico, romanesco (la cornice in cui si svolgevano le vicende del film era “Torpigna”, diminutivo di Tor Pignattara); un mondo ironico, talvolta anche cinico, nel parlare della condizione degli immigrati di seconda generazione e del loro difficile processo di integrazione; un mondo e un’atmosfera, infine, perfettamente riconoscibili dai nati della seconda metà degli anni Novanta in poi.

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“TITANE” DI JULIA DUCORNAU

Una bambina imita con la bocca il rumore del motore dell’auto su cui sta viaggiando con il proprio padre annoiato. La bambina all’improvviso si toglie la cintura e l’uomo perde il controllo del veicolo nel tentativo di riportarla all’ordine. In men che non si dica, la macchina è in panne al fianco del guardrail: il padre è quasi illeso, ma la bambina è gravemente ferita alla testa. In ospedale, le verrà applicata una placca di titanio sul lato destro della scatola cranica per riparare il danno; e la prima cosa che la bimba farà una volta uscita sarà andare ad abbracciare la macchina del padre, come se con questa “aggiunta” metallica lei e il veicolo fossero finalmente uguali: niente più imitazioni infantili.

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“THE CARD COUNTER” DI PAUL SCHRADER

Una figura si aggira per i casinò d’America: una figura spesso vestita di nero o di grigio, un autentico pugno in un occhio se messa a contatto con le luci sgargianti delle slot machines; una figura dallo sguardo tagliente, profondo e impenetrabile; una figura che, soprattutto, vince sempre al tavolo del Black Jack, non somme grosse, ma comunque discrete; un uomo (Oscar Isaac) che si fa chiamare William Tell, un nome troppo “grosso” rispetto al suo modo di fare geometrico e schivo. E che tuttavia ha attirato degli sguardi su di lui: quello di una “agente” di giocatori d’azzardo (Tiffany Haddish), che lo vorrebbe nella sua scuderia; e quello di un ragazzo, Cirk (Tye Sheridan), che vorrebbe assoldarlo per una missione che affonda le mani proprio nel suo passato, un passato che William farebbe di tutto pur di sotterrare.

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“QUI RIDO IO” DI MARIO MARTONE

Nel 1904, Gabriele D’Annunzio mette in scena La figlia di Iorio. C’è grande attesa e sui giornali non si parla d’altro. Eppure, a una delle rappresentazioni svoltesi a Roma, c’è uno spettatore che, nel clima di grande tensione nella sala, riesce a stento a trattenere le risate. Questo individuo non si trova nelle file della platea, ma in alto, nei palchi, tra le autorità: il suo nome è Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), il “re” della commedia napoletana di quegli anni, che in quel momento sta portando a Roma il suo Miseria e nobiltà. Ma l’idea di realizzare un parodia della tragedia di D’Annunzio diventa per lui irresistibile. Il “re” chiede così udienza al “vate”, che gli dà il suo benestare per realizzare l’opera, che si intitolerà Il figlio di Iorio. Tuttavia, le cose non vanno come previsto e Scarpetta, privo di un qualsiasi documento che attesti l’approvazione di D’Annunzio, si ritroverà sotto processo per plagio.

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“MONDOCANE” DI ALESSANDRO CELLI

All’ombra dell’acciaieria di Taranto, in un futuro non meglio precisato, avvolta in una nube gialla abbacinante è sorta una piccola megalopoli, una favela. A nessuno che non sia autorizzato è permesso entrarci, ma i suoi abitanti, radunatisi in veri e propri clan, sono soliti compiere delle sortite all’esterno con intenti non particolarmente leciti, e si spartiscono il territorio al di qua del muro che separa la favela dal resto del mondo . Ma non tutti riescono a integrarsi nei clan di questa colonia, si accede solo su invito: è il caso di Pietro (Dennis Protopapa) e Cristian (Giuliano Soprano), due giovani al servizio di un burbero pescatore, che agognano un posto in una delle bande. Nel loro tentativo di emergere nel mondo della favela, incroceranno la loro strada con quella di una ragazzina proveniente dal mondo esterno e impiegata nell’acciaieria (Ludovica Nasti), e con quella di una tenace poliziotta determinata a porre fine alle scorribande dei clan (Barbara Ronchi), in particolare di quello delle “Formiche”, capitanato dal temibile “Testacalda” (Alessandro Borghi), a cui i due giovani finiranno con l’affiliarsi.

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