Strizzando l’occhio al ’68, il giallo si tinge di commedia
Moses Wine (Richard Dreyfuss) è un detective privato che vive alla giornata. Nel ’68 era un giovane attivista a Berkeley, ma i sogni hanno lasciato spazio al disincanto. Viene assunto da una sua vecchia fiamma (Susan Anspach) per risolvere un caso di spionaggio elettorale nei confronti di un politico californiano; ma la faccenda è ben più pericolosa di quanto si immagini… Continua la lettura di “The Big Fix” di Jeremy Kagan→
“L’unica donna che mi abbia mai eccitato è mia nonna”- Erezioni paesaggistiche deturpanti della Nova Dubai
Nova Dubai è l’appellativo che gli abitanti di São José dos Campos, in Brasile, hanno attribuito ad un complesso di grattacieli in costruzione. Il regista Gustavo Vinagre, ritornato nel quartiere Jardim Alvorada della città brasiliana dopo essere rimasto per quattro anni all’estero, si ritrova davanti ad un paesaggio completamente diverso da quello precedente. Decide allora di fare un documentario per ricostruire lo spazio dei ricordi deturpati dalla speculazione edilizia e per riappropriarsene. Continua la lettura di “Nova Dubai” di Gustavo Vinagre→
Danilo, regista e protagonista, in occasione del 30° compleanno del fratello Roberto, appassionato di Seconda Guerra Mondiale, decide di regalargli un viaggio per un posto in cui sarebbe sempre voluto andare: Auschwitz. Un viaggio di riconciliazione tra i due fratelli, il cui rapporto si è rotto nel momento in cui Roberto ha intrapreso la strada della tossicodipendenza e dell’alcolismo, passando tra carceri, comunità e reparti psichiatrici.
Lucia Small ritorna al Torino Film Festival a sette anni da The Axe in the Attic senza la compagnia del noto collaboratore Ed Pincus venuto a mancare il 5 Novembre dello scorso anno. In fondo però è come se Pincus fosse stato con noi in sala. Il documentario infatti è una carrellata di immagini, di esperienze e di pillole di saggezza dell’uomo e della sua malattia terminale. L’ultima pagina del suo Diaries 1971-1976.Continua la lettura di “One Cut, One Life” di Lucia Small→
In the Claws of Light è il titolo sotto il quale Davide Oberto ha raggruppato quattro film che compongono parte della sezione Italiana.corti. Un esplicito omaggio al cinema di Lino Brocka, regista filippino nonché uno dei massimi esponenti del cinema queer, scomparso prematuramente nel 1991 a causa di un incidente stradale. Continua la lettura di Quattro cortometraggi “In the Claws of Light”→
“Questo film parte dall’immagine di qualcuno che porta via un bambino da un luogo in cui non sta bene”. È con queste parole che Susanne Bier (regista danese, vincitrice del premio Oscar nel 2011 per Un mondo migliore) presenta il suo ultimo film, A Second Chance, un’opera a metà tra dramma e thriller che vede nel ruolo di protagonista Nikolaj Coster-Waldau (Il Trono di Spade, Headhunters). Continua la lettura di “En chance til” (“A Second Chance”) di Susanne Bier→
Chiunque abbia letto uno qualsiasi dei romanzi di Joe R. Lansdale avrà percepito fin da subito la capacità dello scrittore di rendere “cinematografici” i suoi racconti. I suoi libri sono come un grande drive in, luogo tanto caro a Lansdale, in cui il lettore diventa uno spettatore che sullo schermo può trovare qualsiasi cosa: l’horror, il western, il noir, la fantascienza, il tutto sapientemente combinato in grandi storie surreali da leggere/guardare sgranocchiando pop corn. Continua la lettura di “Cold in July” di Jim Mickle→
Dimentichiamoci la famiglia perfetta, quella in cui un bambino cresce nel migliore dei modi, mamma e papà lavorano e nessuno soffre di qualche malattia. Entriamo nel mondo di Cam (Mark Ruffalo), un uomo, un padre e un marito a cui, dopo un forte esaurimento nervoso, viene diagnosticata una forma di psicosi maniaco-depressiva, ovvero un disturbo bipolare. L’anno è il 1978 è la famiglia Stuart deve fare i conti con questo problema. Maggie (Zoe Saldana), moglie di Cam, deve prendersi tutte le responsabilità, lavorare sodo e prendersi cura delle due bambine. Ma questo non basta. Continua la lettura di “Infinitely Polar Bear” (“Teneramente folle”) di Maya Forbes→
Aron (Áron Szentesi), ventinovenne di Budapest, è il protagonista di For Some Inexplicable Reason, lungometraggio d’esordio del regista ungherese Gàbor Reisz, in concorso al 32°TFF.
Il giovane, neolaureato in cinema, non ha un lavoro e non sembra nemmeno troppo interessato a trovarne uno. Anzi, trascorre le giornate a struggersi per una recente storia d’amore miseramente fallita e a fantasticare di morire così, accasciandosi improvvisamente sul ciglio della strada, sull’autobus, nei luoghi e nelle situazioni più impensabili. Ha due genitori forse troppo oppressivi (ma non senza ragione) e un gruppo di amici fedelissimi con cui condivide grandi bevute, tutti con una carriera o con dei figli.
ARTE ha lasciato carta bianca al regista Bruno Dumont per realizzare questa mini serie TV. Alla serie hanno dedicato alcune pagine i Cahiers du Cinéma dello scorso settembre: nell’editoriale Stéphane Delorne ha presentato P’tit Quinquin come una “bomba”e vede nella serie un gesto radicale. I Cahiers la considerano la produzione più pazza che sia stata realizzata da molto tempo. Continua la lettura di “P’tit Quinquin” di Bruno Dumont→
Nel 1974, due anni dopo l’inaspettato successo di Duel, il giovane Spielberg porta sugli schermi uno dei suoi film più intimisti e sottovalutati. The Sugarland Express non è infatti solo un film on the road come tante se ne producevano all’epoca, ma è un viaggio attraverso l’amore per l’America e per il Cinema. Continua la lettura di “The Sugarland Express” (“Sugarland Express”) di Steven Spielberg→
Vedere in una stessa sede Bruno Bozzetto e Piero Angela è un’emozione riservata a pochi. La sera del 27 novembre questo privilegio è stato concesso solo ai fortunati che sono riusciti a mettersi in coda in tempo, data la moltitudine di persone accorse in occasione dell’evento e la ristrettezza della sala Massimo 2.
Avete presente un Manet dipinto dai carcerati? Ecco questo è Anuncian Sismos, opera prima di Rocio Caliri e Melina Marcow, giovanissime registe argentine. Il film, prodotto dalla Hulot Cine, è ispirato ad una storia vera. Una città del Nord dell’Argentina è colpita da numerosi suicidi giovanili; decide quindi di prendere precauzioni e studiare una strategia per risolvere il problema. Continua la lettura di “Anuncian sismos” (“Announce Erathquakes”) di Rocio Caliri e Melina Marcow→
Dopo aver interpretato per anni il ruolo di Theresa D’Agostino nella serie targata HBO The Wire , l’attrice Brandy Burre decide di abbandonare la carriera di attrice per dedicarsi a suoi due figli e al compagno Tim Reinke. Trasferitasi a Bancon, periferia di New York, Brandy si trova immersa in un mondo che la coglie del tutto impreparata; pannolini, bollette e pasti da cucinare sembrano non far per lei. Continua la lettura di “Actress: Diary of a Mad Housewife” di Robert Green→
Rampollo della middle class residente nel facoltoso quartiere di Brian Grove, Zachary Orfman (Dane DeeHan) perde l’amata fidanzatina Bethany (Aubrey Plaza) in seguito al morso di un serpente velenoso. Seguono elaborazione del lutto, chiacchiere sui budini che la ragazza mangiava da piccola, partite a scacchi fino alle tre di mattina con i genitori di lei Maury (John C. Reilly) e Geenie (Molly Shannon) che cercano di mantenere in vita il ricordo di Beth. Questa non tarda a farsi viva, come se niente fosse accaduto, come se si fosse trattato di uno scherzo di cattivo gusto. Continua la lettura di “Life After Beth” di Jeff Baena→
Chi ha detto che un remake è un film inferiore rispetto all’originale? Certamente se il nuovo prodotto non contiene nulla di più – se non addirittura meno – di quanto c’era nell’originale, allora la risposta non è altro che un “doppione”. Molte recenti operazioni di questo tipo ne sono la prova (Carrie di Kimberly Pierce, per fare un esempio). Ma se invece si parte dal prodotto originale come idea iniziale e poi si decide di prendere una strada completamente differente lavorando su elementi nuovi, allora si può realizzare qualcosa di più: si pensi a The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese in rapporto con Infernal Affairs di Andrew Lau. Sono due prodotti completamente autonomi. Continua la lettura di “Whe Are What We Are” di Jim Mickle→
Spazio ai giovani promettenti del panorama internazionale
Con Tôi quên rôi –I forgot, il giovane regista argentino Eduardo Williams propone questa volta un lavoro più lungo del suo precedente cortometraggio: ventisei minuti in cui mostra, in modo discontinuo, le esistenze anonime di alcuni ragazzi che trascorrono le loro giornate tra il lavoro, le uscite e il parkour. Quella che viene rappresentata è una generazione pronta a saltare da un tetto all’altro, che vive sospesa in una realtà a mezz’aria. Dichiara il regista: «Questo film è nato come un’opportunità per me di collocarmi nel luogo ipotetico che preferisco quando dirigo o guardo un film, ovvero lontano da ogni certezza. Cerco sempre di perdermi dentro queste esperienze, così da generare il vuoto che mi dà la possibilità di superare i miei limiti». L’immagine che ne risulta è quella di una quotidianità snervata e snervante, esasperata dall’uso della camera a mano. La trama risulta troppo lacunosa e la fotografia fastidiosa, se non per l’ultima ripresa dall’alto che chiarisce allo spettatore il senso della frammentarietà delle scene. Continua la lettura di “Tôi quên rôi – I forgot!” di Eduardo Williams e “La Huella en la niebla” di Emiliano Grieco→
Mange tes morts è il peggior insulto che si possa dire ad uno zingaro ed è anche il titolo del nuovo lavoro di Jean-Charles Hue, regista che aveva già partecipato al Torino Film Festival nel 2009 con Carne viva, un ritratto di Tijuana. Il nuovo lungometraggio di Hue è un bildungsfilm che nel finale diventa un road movie dai tratti esistenzialisti. Il film, nella parte iniziale molto documentaristico, è ambientato nella comunità nomade dei Jenisch. La trama è semplice, anche fin troppo, e consiste in un viaggio tra i “gadjo” (i non gitani), per rubare un carico di rame. Continua la lettura di “Mange tes morts” di Jean-Charles Hue→
Scanditi dalle note di I Heard It Through the Grapevine (nella versione di Marvin Gaye), scorrono i titoli di testa, in sovrimpressione rispetto alle immagini dei protagonisti del film, ripresi nel privato delle loro reazioni alla notizia del suicidio di Alex, amico comune ed ex compagno di corsi alla University of Michigan. Questi primi e rapidi flash su ogni personaggio sono caratterizzanti: lo spettatore ha in pochi secondi la possibilità di conoscerli tutti.
“Questa non è una storia sulla malattia, ma è la storia di un rapporto umano.”
Così ha dichiarato ieri alla conferenza stampa del Torino Film Festival Eddie Redmayne, protagonista del film The Theory of Everything, in cui interpreta l’astrofisico Stephen Hawking. Ed effettivamente è di questo che parla il film: è una storia d’amore. Ma tra chi? Tra Stephen e la sua prima moglie, Jane? O tra Stephen e la fisica?
Il film è l’adattamento cinematografico del libro autobiografico Travelling to Infinity: My Life With Stephen, scritto dalla prima moglie di Hawking. E The Theory of Everything comincia proprio dal primo incontro tra i due, per poi percorrere insieme gli anni in cui si sono amati e sostenuti a vicenda, hanno dato vita a una famiglia e si sono infine separati. Il film, nonostante i toni seri, riesce tuttavia a far ridere in alcuni punti. Particolarmente interessanti sono stati i ben due riferimenti alla famosa serie inglese Doctor Who, che hanno reso il film decisamente British.
Vestire i panni di Stephen Hawking non sarà stato certo facile, ma l’interpretazione di Eddie Redmayne, con il suo fascino e il suo carisma, ha convinto tutti sin da subito – tanto che potrebbe essere un possibile candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. Ma per ora qui a Torino gli è stato consegnato ieri sera il premio Maserati.
Ieri mattina alla conferenza stampa l’attore inglese ci ha detto che, venuto a conoscenza del progetto, se ne è subito interessato, ma che non appena ottenuta la parte di Hawking, si è reso conto delle difficoltà che questo ruolo poteva comportare. Infatti, per prepararsi, è stato seguito dalla ballerina e coreografa Alexandra Reynolds, che gli ha insegnato come muovere adeguatamente il corpo e sfruttare solo certi muscoli. Inoltre l’attore si è recato in una clinica specializzata dove ha potuto studiare i disagi fisici ed emotivi dei malati di SLA.
Certamente un lavoro molto duro, a livello fisico e psicologico. Ma Eddie Redmayne ci dice che è stato soprattutto l’incontro con Stephen Hawking ad aiutarlo a calarsi adeguatamente nella parte, a fargli comprendere le più piccole sfaccettature di questo meraviglioso uomo, un’icona che sembra volerci dire sempre qualcosa in più, svelandoci i misteri dell’Universo, ma non solo.
Ed è su questo punto che che il film si sofferma. Non si parla in modo eccessivo di fisica, buchi neri o radiazione di Hawking, ma ci si concentra sui rapporti umani, sulle difficoltà che si possono incontrare lungo il cammino e che possono essere superate solo con un’enorme forza di volontà e l’affetto delle persone care. È un film sull’amore e sulle differenti modalità di amare. Ed è proprio qui che sta la “teoria del tutto”.
Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino