“Il mare è amaro”, sentenziava uno dei personaggi de La terra trema di Luchino Visconti. E pare essere questo il leitmotiv che scandisce Atlantique, lungometraggio d’esordio dell’attrice francese Mati Diop, premiato allo scorso Festival di Cannes con il Gran Premio della Giuria.
L’azione si svolge a Dakar, capitale del Senegal: una torre dalle linee architettoniche ultramoderne svetta alta e ingombrante sulla città, avvolta nella nebbia dell’Oceano Atlantico. Alla base dell’edificio, un gruppo di operai lavora al complesso abitativo che dovrà sorgere attorno a esso. Uno di questi, Souleiman, ha una relazione clandestina con Ada, promessa sposa a Omar, l’imprenditore che ha dato vita al progetto della torre.
Les Misérables di Ladj Ly condivide con Les Misérables di Victor Hugo non solo il titolo e l’ambientazione, ma anche la capacità di raccontare una condizione di desolazione e brutalità attraverso un’opera capace di trasmettere un messaggio universale. Non possiamo sapere come Hugo avrebbe rappresentato il suo tempo se avesse avuto una macchina da presa, ma quello che vediamo sullo schermo è un nuovo tentativo di raccontare la povertà, materiale e non. Ly raccoglie il lascito di un capolavoro letterario senza sfruttarlo né rinnegarlo, ma rivitalizzandolo in un film che, con un linguaggio asciutto e preciso, porta una pulsione sotterranea davanti all’obiettivo e sotto la luce dei riflettori della Croisette del Festival di Cannes, dove è stato insignito del Premio della Giuria nella scorsa edizione.
Una overdose di contenuti audiovisivi. Se dovessimo ripensare agli ultimi due mesi ci accorgeremmo di aver consumato praticamente tutto il visibile nello spettro dei supporti video e delle piattaforme streaming, senza dimenticare gli abbonamenti premium dei siti per adulti, gratuiti a tempo limitato. Noi poi, che il cinema lo studiamo e che di cinema ci nutriamo, abbiamo fatto un’indigestione particolarmente violenta: dai classici “da recuperare” ai film da vedere per gli esami, da quelli che se non lo vedo ora, non lo vedrò mai più a tante, tante serie TV. Dal 20 aprile è disponibile su Netflix The Last Dance, docu-serie sportiva in dieci episodi che prende le mosse dalla stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls, l’ultima di Michael Jordan nella città del vento, e ripercorre l’epopea vincente della squadra e dei suoi sei titoli NBA.
Presentato nella sezione Alice nella Città della Festa del Cinema di Roma e vincitore del premio Raffaella Fioretta come miglior opera prima italiana, Buio è il lungometraggio d’esordio di Emanuela Rossi, uno dei primi film in uscita VOD nella sala virtuale di Mymovies.
Nella Berlino del 1929 personaggi ambigui e vicende grottesche si intrecciano durante gli ultimi, tumultuosi anni della Repubblica di Weimar. Tratta dai romanzi noir di Volker Kutscher e prodotta da Sky Deutschland in collaborazione con X-Filme Creative Pool, Beta Film e Degeto Film, la serie, iniziata nel 2017, è giunta quest’anno alla sua terza stagione. Trasmessa in Italia sul canale Sky Atlantic e disponibile su Sky On Demand.
Presentazione a cura degli studenti del progetto “CoVisions-19”
L’emergenza Covid-19 ha modificato significativamente la vita accademica. Anche noi, studenti del corso di “Storia e Teoria della Fotografia”, non possiamo svolgere regolarmente le lezioni in aula. Per questo motivo, superando la distanza fisica, siamo stati coinvolti dalla professoressa Basano nella creazione di un progetto fotografico che risponde alla parola chiave “isolamento”. Il nostro obiettivo è ragionare sulle possibilità comunicative della fotografia e sul suo linguaggio, stimolare la creatività e superare i limiti fisici dell’isolamento. Il voler dar voce a “CoVisions-19” ha fatto sì che ognuno di noi prendesse parte al coro che si è levato, creando un filo conduttore tra gli studenti e legandosi ad altri progetti come quello del blog CineD@msche pubblica qui la presentazione del nostro lavoro.
Se qualche mese fa avessimo potuto dare uno sguardo al futuro e ci fossimo visti chiusi in casa tra parole come quarantena e virus, probabilmente avremmo pensato di aver confuso il nastro della nostra vita con quello di qualche film apocalittico a tema contagio globale. Proprio perché inaspettato, questo momento ci ha colto impreparati, soprattutto concretamente e ideologicamente. Il tempo, più o meno lungo, di cui abbiamo avuto bisogno per comprendere cosa stesse succedendo intorno a noi (e poi proprio a noi), è terminato quando ci siamo ritrovati in casa ad ascoltare o leggere il “divieto assoluto di lasciare la propria abitazione”.
Anche i più restii a capire quello che realmente stava accadendo, dopo un ultimo e sicuro aperitivo e un’ultima boccata di sana aria fresca, hanno compreso infine che, forse per la prima volta, per superare questo momento sono necessarie la partecipazione e collaborazione di tutti. Non abbiamo dovuto attendere molto per vedere il risultato degli impegni di ognuno di noi ridotti improvvisamente a zero: social e canali media ci hanno però aiutato a condividere le soluzioni più innovative o divertenti alla condizione di isolamento. Abbiamo visto, sulla colonna sonora del virus in crescita, sport in casa e cori dai balconi, battute, grandi discorsi, scontri e incontri. Abbiamo visto nelle reazioni individuali una nuova collettività, un senso di appartenenza, gli uni agli altri e tutti allo stesso paese, che non si vedeva da tempo.
Nel nostro caso, grazie al corso della prof.ssa Roberta Basano “Storia e teoria della fotografia”, abbiamo avuto la possibilità di partecipare di un mondo che non può essere quello che è se vissuto individualmente: la fotografia. L’atto di creazione di una fotografia non si limita allo scatto: l’immagine esige di essere mostrata, condivisa, esplicitata. La fotografia vuole dibattiti, scontri e prese di posizione. In breve, la fotografia è uno tra i tanti linguaggi artistici che incorpora in sé tanta più forza quando essa è condivisa. È proprio a questo scopo che nasce il progetto intitolato “CoVisions-19”. Questo consiste nel condividere, dapprima su archivi online ed ora sui social, fotografie che rispondano allo stesso tema. In questa prima fase ci siamo impegnati per realizzare scatti che rispondessero alla parola “isolamento”.
I risultati – caricati quotidianamente sulla pagina Instagram @covisions_19 – mostrano come un momento di frustrazione possa essere usato per creare, e come anche i sentimenti negativi o i momenti difficili possano trovare un loro sfogo creativo. “CoVision-19” permette alla fotografia di prendersi un piccolo spazio di espressione e comunicazione, attraverso diverse immagini e attraverso le parole che ne sono la cornice. Il progetto, però, non serve solo a ricordarci la forza dell’arte e l’importanza del legame tra immagine e descrizione, serve anche a dare prova della potenza della creatività. Ci mostra quanto sia forte una mente che crea e quanto siano belle le idee che da essa nascono. Le fotografie nate in questo progetto sono la prova di come la risposta di ognuno di noi al mondo contagiato di oggi possa creare qualcosa di bello.
Nell’Italia del primo dopoguerra, uno spettro si aggira per le campagne emiliane: vive in cascine abbandonate dove soffre il freddo e la fame; schiva la presenza umana in ogni sua forma; elabora composizioni pittoriche dal carattere primitivo, servendosi soltanto degli strumenti che la natura gli mette a disposizione. Questo spettro ha un’età e un nome: Antonio Ligabue, 20 anni, nato e cresciuto in Svizzera e in seguito estradato in Italia.
Favolacce è stato definito una favola nera, ma ciò che si realizza compiutamente in questo film è un mosaico in cui realtà e finzione si sovrappongono l’una all’altra, diventando un mondo a sé. I fratelli D’Innocenzo lo hanno scritto molti anni fa, ma il film risulta estremamente attuale mostrando, in modo del tutto inaspettato, come la crisi contemporanea abbia radici lontane e oscure.
Si è svolta venerdì 21 febbraio, nella splendida cornice dell’Aula del Tempio della Mole Antonelliana, la seconda delle masterclass organizzate per celebrare Torino città del cinema. Ospite della serata è il regista Julien Temple, un artista che ha da sempre legato la sua opera cinematografica al mondo della musica e che, per questo motivo è stato scelto per l’apertura del festival Seeyousound. È stato infatti il suo ultimo lungometraggio ad aprire l’evento: Ibiza. The Silent Movie, un’opera sperimentale in cui il regista indaga l’isola famosa per la club-house attraverso un film muto, accompagnato dalla partitura musicale di Fat Boy Slim. Un viaggio alla riscoperta della storia di quella che lui stesso ha definito come “un’utopia fallita”.
Primo candidato alla vittoria dei Rezzie 2020 con 9 nominations, il discusso e travagliato film di Tom Hooper, Cats, è infine arrivato anche nei cinema italiani. E’ tratto dall’omonimo musical, uno dei più famosi per incassi e longevità, che aveva debuttato nel 1981 a Londra e continua tuttora a essere riproposto in tutti i teatri del mondo, Italia compresa.
L’opera seconda di Yinan è una sinfonia visiva. Un gangster movie dalle tinte noir, in cui immagini e suoni si completano a vicenda per formare un insieme armonico, in cui il silenzio e la violenza esasperata sono gli elementi dominanti di una messa.
La corsa di Parasite è stata davvero lunga: ha riscosso l’attenzione internazionale nella scorsa edizione del festival di Cannes e ha continuato a farsi sentire fino agli Oscar di febbraio, ricevendo premi e consensi in tutto il mondo. Lo sconfinato thriller sud coreano firmato da Bong Joon-ho si è così imposto come il film dell’anno. Alla luce dei quattro premi Oscar vinti la notte del 9 febbraio, ancora, dopo mesi di attenzione mediatica, c’è chi si domanda: perché Parasite è stato un fenomeno così dirompente?
Monroeville, Alabama, fine anni ’80. L’afroamericano Walter McMillian (Jamie Foxx) viene condannato alla pena capitale per l’omicidio, mai commesso, di una donna bianca. L’ avvocato Bryan Stevenson (Michael B. Jordan), neolaureato a Harvard, si interessa alla vicenda e, grazie al supporto della collega Eva Ansley (Brie Larson), decide di aiutarlo a uscire dal braccio della morte.
Corea del Sud, fine anni Ottanta. In una cittadina di provincia cominciano a essere rinvenuti cadaveri di giovani donne brutalmente assassinate, soffocate attraverso l’uso inconsulto dei loro stessi indumenti intimi. La polizia locale indaga, ma la scarsità di competenze e di adeguati strumenti d’indagine, unitamente alla mancata collaborazione della comunità locale, mette l’intero dipartimento in crisi.
A fare maggiormente le spese di questa crisi è il detective Park Du-man (Song Kang-ho), poliziotto dai sentimenti nobili ma dai modi bruschi, un po’ antropologo, un po’ chiromante, che si improvvisa anche membro della Scientifica, medico legale e aguzzino durante gli interrogatori.
“Tu hai una voce che potrebbe portarti ad Oz”. Quella di L. B. Mayer sembrava una promessa, invece è stata una maledizione. Basato sullo spettacolo teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter, il film di Rupert Goold è un biopic che racconta la vita di Judy Garland attraverso due livelli narrativi, l’inizio della sua carriera sul set de Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939), che girò quando ancora non aveva 17 anni, e i suoi ultimi concerti a Londra nel 1969.
Il 2020 è un anno importante per Torino, che diventa “Città del Cinema” in occasione del ventesimo anniversario dell’apertura del Museo Nazionale del Cinema nella Mole Antonelliana e della nascita di Film Commission Torino Piemonte. Nel ricco programma di eventi che accompagnerà le celebrazioni, la suggestiva Aula del Tempio del Museo si fa cornice di venti Masterclass con grandi maestri del cinema internazionale, inaugurate ieri, 28 gennaio, alle 18:00 dal direttore del museo Domenico De Gaetano. Il protagonista e ospite di eccezione della prima Masterclass è stato il regista israeliano Amos Gitai. Con lui ha dialogato la critica cinematografica Grazia Paganelli, supportata dalla prontissima traduttrice Gigliola Miglietti.
«Ci abbiamo provato». Tre semplici parole, una sorta di testamento. Una dichiarazione in apparenza sconfortata, che si rivela monito per il futuro, racchiudendo forse il senso stesso del documentario Herzog incontra Gorbaciov, diretto da Werner Herzog e André Singer nel 2018 e distribuito in Italia per pochi giorni questo gennaio.
Nel pieno della Prima Guerra Mondiale, due giovani caporali britannici, Schofield (George MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) devono compiere una missione disperata. L’ordine è di attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio che impedirà a 1600 uomini, tra cui il fratello di Blake, di finire in una trappola mortale. Per portare a termine la missione i due soldati dovranno percorrere la terra di nessuno, oltrepassare le linee tedesche, attraversare trincee e città distrutte, in una terribile corsa contro il tempo che si trasformerà in un’odissea piena di pericoli e insidie.
Atlanta, 1996. Durante un concerto legato alle Olimpiadi appena iniziate, viene rinvenuto, a pochi passi dagli spettatori, uno zaino contenente un ordigno esplosivo. I servizi di sicurezza si adoperano immediatamente affinché gli artificieri possano disinnescare la bomba, che però scoppia prima del loro arrivo, riversando una pioggia di chiodi che solo per miracolo non si abbatte sulla folla.
Quello che avrebbe potuto trasformarsi in un massacro, grazie alla solerzia dei servizi di sicurezza si è tramutato in una tragedia dalle perdite limitate. Ma nulla sarebbe stato possibile se Richard Jewell, uno dei responsabili della vigilanza dell’evento, non avesse denunciato la presenza della bomba in tempo utile. Eppure, quest’uomo sovrappeso, che vive ancora con la madre, passa in poco tempo dall’essere un eroe nazionale a diventare il principale sospettato dell’FBI nell’inchiesta sull’attentato.
Alla fine del secolo scorso, su una assolata spiaggia della Tunisia c’è un uomo che guarda verso l’orizzonte. Quella spiaggia non ha nulla di particolarmente invitante, anzi è piuttosto sporca. Eppure solo da lì, quando non c’è foschia, si vede l’Italia.
Quell’uomo si chiama Benedetto Craxi, ha ampiamente superato i 60 anni, è malato di diabete e ha una gamba quasi in cancrena. E’ irascibile, impreca, passa le sue giornate adagiato su una sdraio nella sua residenza presieduta dai militari. Ma non è sempre stato così: un tempo Benedetto, noto come Bettino, era capo del governo di una delle nazioni più potenti del mondo, segretario di uno dei partiti socialisti più influenti dell’Occidente, amato e applaudito da tutti.