The colossal shadow of wind turbines looms intermittently over Maria Lukyanova’s face, the protagonist of Grace, as if to recall the centrifugal rage by which she is invested. She closes her eyelids and imagines an escape from the van in which she has lived for as long as she can remember and where her father (Gela Chitava), has placed his last hopes. A dwelling where father and daughter travel through Russia’s remote provinces, screening old films in villages where the internet has not yet taken over. For the protagonist, the escape from her father and consequently from their life as a nomad – or rather, as «travelers», as the man points out – materializes in the sea, which she can only dream about through the images of female swimmers in an old television set and in the plastic attractions of a water park inside a shopping mall.
L’ombra colossale delle pale eoliche incombe a intermittenza sul viso di Maria Lukyanova, protagonista di Grace, quasi a richiamare la rabbia centrifuga da cui è investita. Chiude le palpebre e immagina una via di fuga dal van in cui vive da quando ha memoria e dove il padre, Gela Chitava, ha riposto le sue ultime speranze. Una dimora con cui padre e figlia attraversano le province remote della Russia, proiettando vecchie pellicole nei villaggi in cui internet non ha ancora preso il sopravvento. L’evasione dal padre e di conseguenza dalla vita da nomade – o meglio, da «viaggiatori», come sottolinea il genitore – per la protagonista si materializza nel mare, che può solo sognare attraverso le immagini di nuotatrici in un vecchio televisore e le attrazioni plastiche di un parco acquatico all’interno di un centro commerciale.
The second feature film by Quebecois director Chloé Leriche, Soleils Atikamekw (Atikamekw Suns) portrays the profound intergenerational pain of the Atikamekw community in Manawan, Quebec. The film’s delicate aesthetics and careful formal work are not intended to sugarcoat the film, but rather to testify the strength and beauty of a community that, though destroyed, attempts to rebuild its memory.
Secondo lungometraggio della regista quebecchese Chloé Leriche, Soleils Atikamekw ritrae il profondo dolore intergenerazionale della comunità Atikamekw di Manawan, Québec. La delicatezza estetica e l’accurato lavoro formale del film non sono volti a indorare la pillola, bensì a testimoniare la forza e la bellezza di una comunità che, seppur distrutta, tenta di ricostruire la propria memoria.
Lydia (Hafsia Herzi) and Salomé’s lives are intricately and specularly linked: if one of them is happy, the other one suffers and viceversa. Therefore, on the same day that Salomé celebrates her birthday and her newly discovered pregnancy, Lydia mourns the end of her relationship with her boyfriend, letting herself go to a lonely and alienated autumnal Paris that resembles Taxi Driver’s (1976) New York. However, when Salomé gives birth, Lydia runs into Milos (Alexis Manenti) – an insomniac bus driver that impersonates De Niro’s Travis Bickle and with whom Lydia previously had a fling –and realizes that the newborn represents a desperate attempt for her to finally feel loved.
Le vite di Lydia (Hafsia Herzi) e Salomé (Nina Meurisse) sono legate tra loro in modo speculare: quando una è felice l’altra soffre e viceversa. Così, lo stesso giorno in cui Salomè festeggia il proprio compleanno e l’appena scoperta gravidanza, Lydia piange la fine della relazione con il suo fidanzato, abbandonandosi a una solitaria e alienata Parigi autunnale che sembra la New York di Taxi Driver (1976). Quando Salomè partorisce, però, Lydia rincontra per caso Milos (Alexis Manenti) – insonne conducente di autobus che fa il verso al Travis Bickle di De Niro e con cui Lydia ha precedentemente avuto un’avventura – e si rende conto che la neonata rappresenta per lei il disperato tentativo per potersi finalmente sentire amata.
Con molta delicatezza, Nikola Spasic ci racconta una storia in perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Un racconto per immagini iniziato sei anni fa con l’obiettivo di realizzare un’opera il cui centro narrativo fosse un soggetto forte. La protagonista di questa storia, Kristina, è una donna transgender che colleziona oggetti di antiquariato, ama i gatti e vive in una casa dal design ricercato ed elegante. Un ambiente, questo, completamente in contrasto con il suo lavoro. La donna, infatti, è una sex worker ma la sua professione non è il fulcro di ciò che vediamo sullo schermo. Quella che ci viene mostrata è una quotidianità perfettamente scandita e organizzata che pare quasi disturbata dagli incontri con i clienti. E ciò che rende più significativo e interessante il film di Spasic è il fatto che Kristina non sia un personaggio recitato da un’attrice professionista, bensì una persona reale alla quale il regista e la sceneggiatrice si sono voluti ispirare per costruire il film.
A differenza di ciò che ci si potrebbe aspettare, il sesso è un elemento esterno al film, sostituito dalla grande fede e spiritualità di Kristina. Molto significativo è l’incontro con Marko, un ragazzo conosciuto per caso e nel quale la protagonista continuerà a imbattersi ripetutamente, al punto da indurla a domandarsi se la presenza dell’uomo sia reale o il frutto della sua immaginazione. Durante un appuntamento i due hanno un dialogo intenso che li porta a confidarsi l’uno con l’altra e a parlare della loro fede. E con un gioco di campo-controcampo che, durante la scena, non li inquadra mai insieme, anche nello spettatore comincia a sorgere il dubbio sull’effettiva esistenza di Marko.
Kristina si rivela il luogo d’incontro tra la messa in scena e l’autenticità umana. Un omaggio a una vita “diversa” che trova la sua massima espressione nella scena finale, quando lo spettatore si trova a riflettere mettendo inevitabilmente in discussione anche sé stesso. Attraverso lo sguardo creativo del regista, Kristina diventa una persona alla quale è stata restituita appieno la propria dignità.
Gaia Verrone
Articolo uscito su «la Repubblica» il 2 dicembre 2022
Nagisa, a debut feature film by Japanese director Kogahara Takeshi, can be interpreted as a complex and layered attempt to reframe a bond, to redefine that thin filament that connects the body of those who survive and the increasingly evanescent memory of those who are no longer with us. The world that is portrayed is thus the result of a blurred mental condition, a set of indistinct reenactments created by the mind of a boy detached from reality.
The protagonist is Fuminao, a Tokyo boy tormented by guilt over the death of his younger sister Nagisa, who died three years earlier in a bus accident on her way to visit her brother. One night, the boy accompanies his friend Yuki to visit a tunnel that, according to some popular beliefs, appears to be haunted by ghosts. In this mysterious and gloomy place, he will again face his past, his origins, until he relives in his mind the intense relationship with his missing sister. The film is basically a reprise of a homonymous short film by Kogahara himself in 2017, in which the two main characters, again Fuminao and Nagisa, are two young people in love. The adolescent “love story” of the former is thus contrasted, in this second work, with the memory of a deceased person and the reminder of the faint sigh of death, in a mad dance involving Eros and Thanatos until they become part of the same being.
The protagonist’s apathy, as well as the alienation that affects his existence, arise from the strong trauma triggered by the loss of a loved one. For this reason, the young man’s life is constantly punctuated by mechanical movements and continuous silences, depicted through the use of repeated and interminable fixed shots. The story is fragmented, not at all linear, as if every shred of memory spontaneously resurfaces when Fuminao savors certain physical or emotional sensations. This makes the film a real labyrinth with no way out, a puzzle in which, at times, it is difficult to understand the meaning of certain events.
At the end of this enigmatic existential journey, there are many questions that arise, raising more doubts than answers in the protagonist’s mind. “Do ghosts really exist?” the boy hesitantly asks a policeman he meets by chance outside the tunnel. The man’s answer will come only after a long and ostentatious silence: “The ghost is you.” It is those who have remained anchored in the past, unable to continue a normal life, like a woman wandering the streets in search of her missing son, who represent the real ghosts of society.
Nagisa, lungometraggio d’esordio del regista giapponese Kogahara Takeshi, può essere interpretato come un complesso e stratificato tentativo di rielaborare un legame, di ridefinire quel sottile filamento che collega il corpo di chi sopravvive e il ricordo, sempre più evanescente, di chi non c’è più. Il mondo che viene rappresentato è dunque frutto di un’offuscata condizione mentale, un insieme di indistinte rievocazioni partorite dalla mente di un ragazzo distaccato dalla realtà.
Il protagonista è Fuminao, un ragazzo di Tokyo tormentato dal senso di colpa per la morte della sorella minore Nagisa, deceduta tre anni prima in un incidente stradale mentre andava a trovare il fratello in autobus. Una notte il ragazzo accompagna l’amico Yuki a visitare un tunnel che, secondo alcune credenze popolari, pare essere infestato dai fantasmi. In questo misterioso e tetro luogo si troverà ad affrontare nuovamente il suo passato, le sue origini, fino a rivivere nella propria mente l’intenso rapporto con la sorella scomparsa. Il film è in fondo la riproposizione di un cortometraggio omonimo realizzato dallo stesso Kogahara nel 2017, in cui i due protagonisti, sempre Fuminao e Nagisa, sono però due giovani innamorati. Alla “love story” adolescenziale del primo si contrappone quindi, in questa seconda opera, il ricordo di un defunto e il richiamo al flebile sospiro della morte, in una folle danza che coinvolge Eros e Thanatos fino a renderli parte di uno stesso essere.
L’apatia del protagonista, così come l’alienazione che ne condiziona l’esistenza, nascono dal forte trauma scaturito dalla perdita di una persona amata. Per questo motivo la vita del giovane è costantemente scandita da movimenti meccanici e continui silenzi, raffigurati attraverso l’utilizzo di reiterate e interminabili inquadrature fisse. La storia è frammentata, per nulla lineare, come se ogni brandello di memoria riaffiorasse spontaneamente quando Fuminao assapora determinate sensazioni fisiche o emotive. Questo rende il film un vero e proprio labirinto senza vie d’uscita, un rompicapo in cui, talvolta, risulta difficile comprendere il senso di alcuni avvenimenti.
Al termine di questo enigmatico viaggio esistenziale sono molte le domande che sorgono, suscitando nella mente del protagonista più dubbi che risposte. «I fantasmi esistono davvero?» chiede esitante il ragazzo a un poliziotto incontrato casualmente fuori dal tunnel. La risposta dell’uomo arriverà solo dopo un lungo e ostentato silenzio: «Il fantasma sei tu». Sono coloro che sono rimasti ancorati al passato, incapaci di proseguire una vita normale, come una donna che vaga per strada alla ricerca del figlio scomparso, a rappresentare i veri spettri della società.
When Mateo (Manel Llunell) is diagnosed with brain cancer, his mother Libertad (Ángela Molina) gets the chance she was looking for: Mateo is now harmless, in need of care and attention that only she can give him. Eduardo Casanova proposes an Oedipal love story with his second full-length-film “La piedad”, presented in competition at the 40th edition of Torino Film Festival.
Mateo never leaves home without his mother, they sleep together in the same bed, and whenever one of them gets sick, both of them experience symptoms. Their personalities are blended to the point that they sometimes get swapped or one merges with the other; they laugh, cry, and suffer together. Mateo was born to satisfy his mother’s need to be essential for someone. What scares Libertad is the prospect that one day her son will grow up and be independent, take a bath on his own, and leave home. She wants him to stay in their little bubble in which she breastfeeds him and nurtures him forever, even though he is a grown man. The relationship between mother and son is compared with the parallel story set in North Korea, where dictator and subject cannot live without each other. Firstly, Mateo’s absent father plays the tyrant’s role, as he appears in Mateo’s dreams in the place of di Kim Jong-un while killing a unicorn, but the son will soon realize that the real cause of his discomfort his is mother.
As it is true with his first work, Skins (2017), Casanova is not scared of showing images that bring cinema back to pure visual art, building a voyeuristic relationship among the viewers that ask themselves whether they want to keep looking at the screen or not. The colour pink dominates the scene, exposing and dissecting the characters’ unspeakable secrets. They lose their humanity and become torn, sick pieces of flesh. The director is much interested in psychic anomalies rather than physical ones. Therefore, Casanova investigates the result of the combination of two psychic disorders: firstly, the Münchausen syndrome by proxy is the syndrome which leads Libertad to keep her son in a sickly stage by secretly drugging him, and secondly, the Stockholm syndrome that leads Mateo back to his tormentor, his mother. The son’s Oedipus complex, which makes him hate his father (whom he replaces) without even knowing him, contributes to the couple’s toxicity. Moreover, even though his mother is the cause of all his misfortunes, Mateo cannot survive without her, since he does not conceive anything except the morbid love that has accompanied him from birth.
Quando a Mateo (Manel Llunell) viene diagnosticato un cancro al cervello, la madre Libertad (Ángela Molina) ha l’occasione che cercava: Mateo è ora totalmente indifeso, bisognoso di cure e attenzioni che solo lei è in grado di fornirgli. È una storia di amore edipico quella che Eduardo Casanova ci propone nel suo secondo lungometraggio La piedad, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.
Mateo non esce mai di casa senza la madre, dormono insieme nello stesso letto e quando uno dei due si ammala anche l’altro avverte i sintomi. Le personalità dei due sono talmente amalgamate da arrivare a scambiarsi e fondersi, ridendo, piangendo e soffrendo insieme. Mateo è nato proprio per soddisfare il bisogno della madre di essere indispensabile per qualcuno. La prospettiva che un giorno Mateo cresca e diventi indipendente, si faccia il bagno da solo e esca di casa per conto suo, spaventa la madre che cerca di tenerlo in una bolla in cui resti per sempre il suo bambino, da allattare a accudire, anche ora che è ormai cresciuto. Il rapporto tra madre e figlio dialoga con la vicenda parallela ambientata in Corea del Nord, nella quale dittatore e suddito non possono fare l’uno a meno dell’altro. Se all’inizio per Mateo è il padre assente a ricoprire il ruolo di tiranno e ad apparirgli in sogno nelle veci di Kim Jong-un intento ad uccidere un unicorno, presto si renderà conto che è invece la madre la causa del suo malessere.
Così come nella sua opera prima, Pelle (2017), Casanova non ha paura di mostrare immagini attraverso cui il cinema ritorna pura arte visiva, creando un legame voyeuristico con lo spettatore che si chiede se continuare a guardare o distogliere lo sguardo. Il colore rosa domina la scena mettendo a nudo e sviscerando i segreti inconfessabili dei personaggi, che perdono la propria umanità per diventare semplici pezzi di carne lacerati e malati. Ma più delle anomalie corporee, sono quelle psichiche ad interessare il regista. Casanova infatti indaga il risultato della combinazione di due disturbi psichiatrici quali la sindrome di Münchausen per procura, che porta la madre a tenere il figlio in stato di malattia somministrandogli farmaci di nascosto, e la sindrome di Stoccolma, che induce il figlio a tornare dalla madre-aguzzina. Il complesso edipico del figlio, che odia il padre senza averlo mai conosciuto e al quale si sostituisce, contribuisce poi alla nocività della coppia. Così, nonostante la madre sia la causa di tutti i suoi mali, Mateo non può fare a meno di lei, perché non concepisce nulla di diverso da quell’amore morboso che lo ha accompagnato dalla nascita.
The oyster that remains attached to the rock on which it was birthed by fate will live peacefully. The oyster that instead ventures into the unknown in search of fortune can only end up swallowed by the ocean. This is the so-called “Ideal of the Oyster”, which is essential in the events of “I Malavoglia” by Giovanni Verga and of “La Lunga Corsa”, the second movie by director Andrea Magnani and the only Italian feature film in competition at the fortieth edition of the Turin Film Festival.
Giacinto (Adriano Tardiolo) was born and raised in prison, the only environment he recognizes as home during his training process. Abandoned by his parents, he is looked after by prison guard Jack (Giovanni Calcagno), who becomes his figure of reference. However, Jack would like Giacinto to go out and make a living away from the bars and narrow corridors through which the boy enjoys running despite it being forbidden. Thus, he takes him to a family house which, however, is more of a prison for the child than the prison itself. As soon as he gets the chance, he runs away and attacks a man to get arrested and be able to go “home”, but he discovers that children cannot go to prison. So, he tries again on his eighteenth birthday. Jack understands that Giacinto will never change his mind and has him hired as a guard in the penitentiary, which thus becomes a place of work, lodging and recreation for him.
If “Easy – Un viaggio facile facile” (2017), Magnani’s first work, was a classic road movie, here instead a static journey is presented: Giacinto runs for hours but never moves, he remains inside his miniature “Matrix”, preferring the blue pill to the red one (colors that, among other things, are recurrent in the film). He wants to stay locked up in his cave because he sees nothing interesting in the frenetic stillness that pervades the exterior, where people seem to do nothing but run aimlessly between circling buses and construction sites that have been standing still for years.
Jack tries to get Giacinto to escape from what he sees as a mental cage without realizing that he himself is the first of the prisoners chained to a life that doesn’t satisfy him and from which he tries to escape by drinking in the evening. Giacinto doesn’t run to escape or to win a race; he runs to run, unlike those like Jack who would like to flee, but stand still in their perpetual unhappiness.
L’ostrica che rimane attaccata allo scoglio su cui il caso l’ha fatta nascere vivrà serenamente. L’ostrica che invece si avventurerà verso l’ignoto in cerca di fortuna non potrà che finire inghiottita dall’oceano. È così definito “l’ideale dell’ostrica” che accompagna le vicende dei protagonisti de I Malavoglia di Giovanni Verga e del film La lunga corsa, seconda opera del regista Andrea Magnani e unico lungometraggio italiano in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.
Giacinto (Adriano Tardiolo) nasce e cresce in carcere, unico ambiente che riconosce come casa nel corso del suo processo di formazione. Abbandonato dai genitori, viene accudito dalla guardia penitenziaria Jack (Giovanni Calcagno), che diventa il suo punto di riferimento. Jack vorrebbe però che Giacinto uscisse e si facesse una vita lontano dalle sbarre e dagli stretti corridoi per i quali il ragazzo si diverte a correre nonostante sia vietato. Lo porta così in una casa-famiglia che risulta però per il bambino una prigione più del carcere stesso. Appena ne ha l’occasione fugge e aggredisce un uomo per essere arrestato e poter tornare “a casa”, ma scopre che i bambini non possono andare in prigione. Ci riprova così il giorno del suo diciottesimo compleanno. Jack capisce che Giacinto non cambierà mai idea e lo fa assumere come guardia nel penitenziario, che diventa così per lui luogo di lavoro, alloggio e svago.
Se Easy – Un viaggio facile facile (2017), opera prima di Magnani, era un classico road movie, qui viene invece presentato un viaggio statico: Giacinto corre per ore ma non si muove mai, rimane all’interno della sua Matrix in miniatura, preferendo la pillola blu a quella rossa (colori tra l’altro ricorrenti nel film). Vuole restare rinchiuso nella sua caverna perché non vede nulla di interessante nel frenetico immobilismo che pervade l’esterno, dove le persone non sembrano far altro che correre senza meta tra autobus che girano in tondo e cantieri fermi da anni.
Jack cerca di far evadere Giacinto da quella che lui vede come una gabbia mentale senza però rendersi conto che è lui stesso il primo dei prigionieri, incatenato a una vita che non lo soddisfa e dalla quale tenta di scappare bevendo la sera. Giacinto non corre per fuggire o per vincere una gara; lui corre per correre, a differenza di quelli come Jack che vorrebbero fuggire ma rimangono immobili nella propria perpetua infelicità.
Jina (Geong Seung-yeon), an exemplary employee in a credit card company’s call centre, is a bashful and reserved girl, strictly attached to her habits and to the peaceful succession of places and acts that mark her days, which she divides between her little apartment and the workplace.
Impiegata modello nel call center di una compagnia di carte di credito, Jina (Gong Seung-yeon) è una ragazza schiva e riservata, saldamente ancorata alle proprie abitudini, al placido susseguirsi di luoghi e gesti che scandiscono le sue giornate, divise tra il suo piccolo appartamento di ringhiera e il luogo di lavoro.
Inspired by true events narrated in the homonymous novel by Enrico Costa of 1884, Il muto di Gallura is the only Italian feature film in competition at TFF 39. In mid-nineteenth-century Sardinia, a feud broke out between two Gallura families, triggering a conflict that lasts for several years, through a chain of reciprocal wrongs. In the name of the ancient and sacred law of retaliation, 70 people are killed, many by the hand of a deaf-mute boy, Bastiano Tarsu.
Ispirato ai fatti realmente accaduti narrati nell’omonimo romanzo del 1884 di Enrico Costa , Il muto di Gallura è l’unico lungometraggio italiano in concorso al TFF 39. Nella Sardegna di metà Ottocento, una faida scoppia tra due famiglie galluresi innescando un conflitto che attraverso una catena di torti reciproci si protrae per diversi anni; in nome dell’antica e sacra legge del taglione, ben 70 persone vengono uccise, molte per mano di un ragazzo sordomuto, Bastiano Tarsu.
Evanescente e al contempo materico, l’universo espressivo a cui l’animatrice Florence Miailhe dà forma con La traversée riesce a coniugare atmosfera fiabesca e crudo realismo, restituendo con estrema evidenza la forza di una storia universale, archetipica, quella di chi è costretto ad abbandonare la propria terra e, esule, si barcamena per arrivare altrove.
Ancora prima delle immagini, è una luce bianca a suggerire le coordinate per la visione del film. Una luce che invade lo schermo e appare come un eccentrico sostituto del nero, su cui i titoli di testa scorrono al contrario, dall’alto verso il basso, suggerendo un percorso a ritroso. È proprio questo moto inverso lo spirito che muove Casa de antiguidades, del registra brasiliano João Paulo Miranda Maria, un’opera prima che guarda al passato per parlare del presente.
Intimist and political at the same time, the director Brady’s debut film shows the transgenerational psychological impact of the Northern Irish conflict through the story of two sisters.
Filmed on the border between Northern Ireland and the Republic of Ireland, it begins when Kelly (Nika McGuigan), missing after her mother’s death, suddenly comes back to the little town where she ran away from, bursting into her sister Lauren’s life (Nora-Jane Noone).