Archivi tag: concorso lungometraggi

“DISSIDENT” BY STANISLAV GURENKO AND ANDRII ALF’EROV

Article by Emidio Sciamanna

Translation by Vittorio Cavalli

The Kyiv of 1968, depicted by Stanislav Gurenko and Andrii Alf’erov in Dissident, is not a vibrant urban symphony like the avant-garde Berlin of Walter Ruttmann, but a grey, oppressive sprawl of streets and buildings constantly hit by a violent and unrelenting rain, a ghost of the Soviet Union that looms, heavy and suffocating, over the shoulders of the Ukrainian population. In the dissonant flow of a city in motion, the dreams, anxieties, and illusions of individuals abandoned to their fate intertwine, tormented by solitude and in perpetual conflict between a peaceful struggle for independence and a burning desire for rebellion.

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“DISSIDENT” DI STANISLAV GURENKO E ANDRII ALF’EROV

La Kiev del 1968 rappresentata da Stanislav Gurenko e Andrii Alf’erov in Dissident non è una vitale sinfonia urbana come la Berlino avanguardista di Walter Ruttmann, ma un cinereo agglomerato di strade ed edifici costantemente colpiti da una pioggia violenta e incessante, spettro dell’Unione Sovietica che aleggia, oppressiva, sulle spalle del popolo ucraino. Nel flusso disarmonico di una città in movimento si intrecciano i sogni, le angosce e le illusioni di individui abbandonati a loro stessi, tormentati dalla solitudine e in perenne conflitto tra una pacifica lotta per l’indipendenza e un ardente desiderio di ribellione.

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“KASA BRANCA” BY LUCIANO VIDIGAL

Article by Romeo Gjokaj

Translation by Aurora Monteleone

The passing trains offer something unexpectedly precious to young Dé (Big Jaum). The movement of the carriages, their metallic and continuous rhythm, evokes the flow of life. For this reason, whenever he feels the need, Dé climbs the bridge overlooking the tracks with his grandmother Almerinda (Teca Pereira), who suffers from Alzheimer’s. Thus, both can silently watch the trains pass beneath them, giving themselves the illusion of being above their problems, if only for a brief moment.

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“KASA BRANCA” DI LUCIANO VIDIGAL

Il passaggio dei treni offre qualcosa di inaspettatamente prezioso al giovane Dé (Big Jaum). Il movimento dei vagoni, il loro ritmo metallico e continuo, ricordano il moto della vita; per questo motivo, quando ne sente il bisogno, Dé sale sul ponte che si affaccia sui binari insieme alla nonna Almerinda (Teca Pereira) malata di Alzheimer. Così, entrambi possono osservare in silenzio i treni scorrere sotto di loro, illudendosi di trovarsi al di sopra dei propri problemi, almeno per qualche istante. 

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“TENDABERRY” BY HALEY ELIZABETH ANDERSON

Article by Brigitta Mariuzzo

Translation by Martina Perrero

Tendaberry explores the signs that time, as it passes, leaves on our lives and the environment that sourrounds us. These marks may be tangible and visible to anyone, or they may manifest themselves in a less obvious way and remain in the background of our daily lives.

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“TENDABERRY” DI HALEY ELIZABETH ANDERSON

Tendaberry esplora le tracce che il tempo, scorrendo, lascia sulle nostre vite e sull’ambiente che ci circonda. Questi segni possono essere tangibili e visibili a chiunque, oppure possono manifestarsi in modo meno evidente e restare sullo sfondo della nostra quotidianità. 

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“NINA” BY ANDREA JAURRIETA

Article by Ludovico Franco

Translation by Martina Marino

Čechov coined a now well-known dramaturgical principle: if there’s a shotgun on stage, it must go off. Nina (Patricia L. Arnaiz), whose name directly references The Seagull, always carries that shotgun with her. After thirty years in Madrid, she returns to her hometown, ready to strike. Like a hunter, she waits for the perfect moment to exact revenge on the man who abused her when she was just a young girl, a niña.

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“NINA” DI ANDREA JAURRIETA

Čechov ha coniato un principio drammaturgico ormai celebre: se in scena c’è un fucile, non può non sparare. Nina (Patricia L. Arnaiz), il cui nome rimanda proprio a Il gabbiano, quel fucile lo porta sempre con sé. Dopo trent’anni a Madrid, ritorna nella sua città natale, pronta a colpire. Come una cacciatrice, attende il momento ideale per vendicarsi dell’uomo che abusava di lei quando era ragazza, una niña.

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“HOLY ROSITA” BY WANNES DESTOOP

Article by Tommaso Del Latte

Translation by Laura Cattani

The Belgian director Wannes Destoop at his debut feature, enacts in Holy Rosita, a simple, community-focused, hopeful story.

Rosita (Daphne Agten) lives in a working-class block of houses, she works a variety of jobs, and she spends most of her free time with the neighborhood children, who are the only ones capable of giving her a few carefree moments. Rosita has only one dream, to become a mother. However, just when she manages to get pregnant, she begins to be tormented by doubts, caused by the uncertainty of living up to the role, economic problems and the judgments of the community in which she lives.

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“HOLY ROSITA” DI WANNES DESTOOP

Una storia semplice, comunitaria, piena di speranza, quella che Wannes Destoop mette in scena in Holy Rosita, opera prima del regista belga. 

Rosita (Daphne Agten) vive in un caseggiato popolare, svolge lavori di vario tipo e trascorre gran parte del suo tempo libero in compagnia dei bambini del quartiere, gli unici capaci di donarle qualche momento di spensieratezza. Rosita ha un unico sogno, quello di diventare madre. Tuttavia, proprio quando riesce a rimanere incinta, la protagonista comincia a essere tormentata dai dubbi, dettati dall’incertezza di essere all’altezza del ruolo, dai problemi economici e dai giudizi della comunità in cui vive.

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“THE LAST ACT” BY PAYMON SHAHBOD

Article by Carlotta Profico

Translation by Aurora Monteleone

The Last Act – written and directed by the Iranian filmmaker Paymon Shahbod – starts in the hallways of a hospital in Tehran, where the shoots of a film starring actress Farzaneh (Marjan Ghamari) are underway.

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“MY BEST, YOUR LEAST” BY KIM HYUN-JUNG

Article by Alessandra Sottini

Translation by Giuditta Portaro

Adults are precious figures: they accompany the path of growth and maturity, sometimes delimiting the space and microcosm of young people with necessary rules and impositions. However, in My Best, Your Least, parents and teachers appear too cold and deaf to those they consider “miniature adults.”

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“MY BEST, YOUR LEAST” DI KIM HYUN-JUNG

Gli adulti sono figure preziose: accompagnano il percorso di crescita e maturità, delimitando con regole e imposizioni talvolta necessarie lo spazio e il microcosmo dei giovani. Tuttavia in My Best, Your Least, genitori e insegnanti si mostrano fin troppo algidi e sordi davanti a coloro che considerano “adulti” in miniatura.

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EUROPA CENTRALE BY GIANLUCA MINUCCI

Article by Silvia De Gattis

Translation by Cinzia Di Bucchianico

Throughout Gianluca Minucci’s debut film, viewers find themselves in a state of constant auditory, visual, emotional, even tactile, and olfactory hyper-solicitation.

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“CORRESPONSAL”, BY EMILIANO SERRA

Article by Alessandro Pomati.

Translation by Alessandra Rapone.

An informer for the armed wing of the Argentine dictatorship in 1978, called Ulrich, works with images: photographic images or those created by amateur film cameras. This may be a didactic detail, since the way the director Emiliano Serra (in his first fiction feature film) ‘uses’ his main character, in particular the way he captures and defines him in the writing, makes him, in turn, a ‘camera’: the narrative proceeds only when he is present, and the viewer sees and hears only what Ulrich sees and hears. Furthermore, the impassivity of the protagonist’s face (played by Gabriel Rosas) and the monochord setting of his voice, able to read both a confidential report and an article about the upcoming football World Cup with the same intonation, emphasize the idea of a coldness that only a machine or an inanimate object could have. The eyes, not surprisingly, are the only expressive feature.

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“CORRESPONSAL” DI EMILIANO SERRA

Informatore per il braccio armato della dittatura argentina nel 1978, Ulrich lavora con le immagini: immagini fotografiche o realizzate da cineprese amatoriali. È questo un dettaglio forse didascalico, dal momento che il modo in cui il regista Emiliano Serra (al suo primo lungometraggio di finzione) “utilizza” il suo personaggio principale, ovvero il modo in cui lo riprende e lo definisce a livello di scrittura, lo rendono a sua volta una “macchina da presa”: la narrazione procede soltanto quando lui è presente e lo spettatore vede e sente soltanto ciò che vede e sente Ulrich. Inoltre, l’impassibilità del volto del protagonista (interpretato da Gabriel Rosas) e l’impostazione monocorde della sua voce, capace di leggere con la stessa intonazione un rapporto confidenziale e un articolo sugli imminenti mondiali di calcio, rimarcano l’idea di una freddezza che solo una macchina o un oggetto inanimato potrebbero avere. Sono gli occhi, non a caso, il solo tratto espressivo.

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“GRACE” BY ILYA POVOLOTSKY

Article by Antonio Congias

Translation by Eleonora Torrisi

The colossal shadow of wind turbines looms intermittently over Maria Lukyanova’s face, the protagonist of Grace, as if to recall the centrifugal rage by which she is invested.
She closes her eyelids and imagines an escape from the van in which she has lived for as long as she can remember and where her father (Gela Chitava), has placed his last hopes. A dwelling where father and daughter travel through Russia’s remote provinces, screening old films in villages where the internet has not yet taken over. For the protagonist, the escape from her father and consequently from their life as a nomad – or rather, as «travelers», as the man points out – materializes in the sea, which she can only dream about through the images of female swimmers in an old television set and in the plastic attractions of a water park inside a shopping mall.

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“GRACE” DI ILYA POVOLOTSKY

L’ombra colossale delle pale eoliche incombe a intermittenza sul viso di Maria Lukyanova, protagonista di Grace, quasi a richiamare la rabbia centrifuga da cui è investita. Chiude le palpebre e immagina una via di fuga dal van in cui vive da quando ha memoria e dove il padre, Gela Chitava, ha riposto le sue ultime speranze. Una dimora con cui padre e figlia attraversano le province remote della Russia, proiettando vecchie pellicole nei villaggi in cui internet non ha ancora preso il sopravvento.  L’evasione dal padre e di conseguenza dalla vita da nomade – o meglio, da «viaggiatori», come sottolinea il genitore – per la protagonista si materializza nel mare, che può solo sognare attraverso le immagini di nuotatrici in un vecchio televisore e le attrazioni plastiche di un parco acquatico all’interno di un centro commerciale.

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