Una coppia in crisi parte con i figli per un’ultima vacanza prima della separazione; la meta è un resort tropicale trovato su internet, un luogo apparentemente da sogno che si rivela teatro di avvenimenti oscuri e inspiegabili. Queste le premesse di Old, l’ultimo thriller di M. Night Shyamalan tratto dal graphic novel Château de sable. Il fumetto di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters diviene lo spunto perfetto per declinare temi e modi tipici del regista, che aggiunge un altro tassello al proprio universo fantastico e inquietante, dominato dal sovrannaturale. A minacciare i protagonisti, costringendoli a fronteggiare le proprie debolezze, è questa volta un’anomalia nello scorrere del tempo (ogni mezz’ora corrisponde a un anno), per cui la famiglia Capa si ritrova a invecchiare precocemente.
Shyamalan si confronta con una delle ossessioni più antiche dell’umanità, quella del tempus fugit, riaggiornandola alla luce delle nevrosi attuali, della coazione alla pianificazione e al consumo di esperienze, ambientandola nel contesto che più la esaspera: le vacanze. La nevrosi affligge gli adulti (il padre è un contabile fissato con le statistiche) quanto le nuove generazioni, come indicano i passatempi del piccolo Trent, che cataloga gli sconosciuti per nome e professione e programma per tappe il proprio futuro, con tanto di accenno al mutuo. Ma come ogni volta in cui il regista affronta la catastrofe questa si fa rivelazione, e il sovrannaturale è occasione per una presa di coscienza: ogni tentativo di spiegare il mondo è instabile e per quanto i personaggi affastellino teorie il mistero dell’isola resta insolubile. Come in The Happening (2008), ci si salva accantonando l’assillo interpretativo, riscoprendo i legami e il valore del qui e ora, e la rivelazione giunge tornando a costruire castelli di sabbia.
Laddove statisti e medici falliscono, la chiave sta dunque in un gioco tra bambini, in un messaggio in codice che richiede il salto della fede, non in un dio ma nel gioco narrativo. Ancora una volta in Shyamalan, le storie salvano così come si svelano, mettendo a nudo le proprie strutture: dalla compressione temporale permessa dal montaggio che si fa centro tematico, alla presenza del regista in scena (qui demiurgo e spettatore, che osserva i personaggi appostato su un’altura), all’elaborazione stilistica evidenziata dagli insistiti fuori-campo; l’impalcatura cinematografica si manifesta apertamente, senza però minare la sospensione dell’incredulità. Come a ribadire che il cinema è sì finzione, ma è una storia a cui vogliamo (e forse dobbiamo) credere.
Chiara Rosaia