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“MAN AND DOG” BY STEFAN COSTANTINESCU

Written by: Alessandro Pomati

Translated by: Lia Colombo

Two people are wandering in the depths of the wood; a bus drives into a tunnel whose exit cannot be seen; a thick blanket of smoke. These are just a few of the images that Stefan Costantinescu’s first feature film exploits. On one hand, the viewer can perceive the disorientation that Doru (Bogdan Dumitrache), a laborer who has emigrated to Sweden from Romania, feels upon his return. On the other, we witness his wife Nicoleta (Ofelia Popii), his teenage daughter, and his arteriosclerotic mother’s way of “welcoming” him “back” with no more than surprise and coldness; the only one to feel any genuine emotion seems to be his faithful dog Amza. Behind Doru’s unexpected return there is actually more to than the work-related reason he keeps peddling to anyone who asks: while in Sweden, Doru received anonymous messages informing him of his wife’s alleged marital infidelity. Therefore, the true purpose of his return to Romania is to verify their authenticity.

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Like many of his compatriots (Cristian Mungiu, Cristi Puiu), Costantinescu is able to create glacial and frozen atmospheres, where tensions swirl without erupting, if not at their very limit. This justifies the cold and aseptic tones of the cinematography, and the indoor shots with the clear aim of “imprisoning” the protagonists. Moreover, those scenes are built with sequence-plans in order to allow the viewer to pick every single word of what the characters say to each other. The risk of epigonism is avoided because the camera, like Doru, also breaks free from staticity and begins to peddle the characters generating a great deal of suspense, in full Hitchcockian style. While witnessing this “stalking” process, we end up putting together the pieces of the image of a country where patriarchal culture still takes hold, where the woman is not even allowed to go have a coffee without her husband’s approval, while the latter’s affairs and escapades are all but forbidden.

Through a withdrawn performance, Dumitrache is remarkably effective in capturing the grotesque dimension of the broken man. Sometimes he also manages to evoke laughter in the viewer – even in the context of domestic violence in which the film is set. Nevertheless, his partner Popii also shines with a great performance of glacial irony. However, any intended or unintended trace of humor disappears in the powerful finale: it dodges the mere consolation aim and seems to suggest that even in a society where everyone is cold, violent, distant (with or without COVID-19), mean, and obsessed with IKEA, one can always find something to hold on to. It is a struggle, but it can be done; even if you are a little bit of a man, and a little bit of a beast.

“MAN AND DOG” DI STEFAN COSTANTINESCU

Due persone che vagano nel folto di un bosco, un pullman che entra in un tunnel di cui non si riesce a vedere l’uscita, una fitta coltre di fumo: sono soltanto alcune delle immagini che Stefan Costantinescu, al suo primo lungometraggio, utilizza per descrivere la sensazione di spaesamento che Doru (Bogdan Dumitrache), operaio emigrato in Svezia dalla Romania, prova al momento del suo ritorno. Il suo arrivo suscita sorpresa, ma anche una certa freddezza nella moglie Nicoleta (Ofelia Popii), nella figlia adolescente e nella madre arteriosclerotica; l’unico a provare un minimo di genuina commozione sembra essere il suo fedele cane Amza. Dietro l’inatteso ritorno di Doru c’è in realtà di più della semplice ragione lavorativa che egli continua a propinare a chiunque glielo chieda: mentre si trovava in Svezia, infatti, Doru ha ricevuto dei messaggi anonimi che lo informavano della presunta infedeltà coniugale di sua moglie. Lo scopo del suo ritorno in Romania è appurarne la veridicità.

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Come molti suoi connazionali (Cristian Mungiu, Cristi Puiu), Costantinescu dà prova di riuscire a creare atmosfere glaciali e sospese, dove le tensioni serpeggiano senza scoppiare se non al limite estremo. Questo giustifica la fotografia dai toni freddi e asettici, le riprese realizzate per lo più in interni con lo scopo di “imprigionare” i protagonisti e, in questi interni, i piani-sequenza volti a non perdere neanche una parola di quello che essi si dicono. Il rischio di epigonismo viene evitato nel momento in cui anche la macchina da presa, al pari di Doru, si libera dalla staticità e comincia a pedinare i personaggi in scene di altissima suspense, in perfetto stile hitchcockiano. A emergere da questo “pedinamento” è l’immagine di un Paese in cui la cultura patriarcale la fa ancora da padrone, dove alla donna non è concesso di prendere neanche un caffè senza l’approvazione del marito, mentre a quest’ultimo le scappatelle e le sregolatezze sono tutt’altro che proibite.

Dumitrache, attraverso uno stile recitativo spesso in sottrazione, è straordinariamente efficace nel catturare la dimensione grottesca del maschio in crisi, riuscendo spesso a suscitare il riso nello spettatore – pur nel contesto di violenza domestica in cui il film si ambienta. D’altro canto, la sua partner, Popii, brilla in un’interpretazione di glaciale ironia. Ma ogni traccia di umorismo, voluto o involontario, sparisce nel potente finale, che sembra suggerire (schivando il proiettile della consolazione) che persino in una società così fredda, violenta, distante (con o senza COVID-19 a tenerci separati), meschina, con l’ossessione di vivere in “stile IKEA”, si può trovare qualcosa a cui aggrapparsi. È una fatica, ma si può fare; anche se si è un po’ uomini, e un po’ bestie.

Alessandro Pomati