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“PACIFICTION” DI ALBERT SERRA

Quando ci si accosta all’opera di Albert Serra non si può fare a meno di notare la grande contraddizione che sta alla base del suo cinema: quella fra l’ambientazione delle sue immagini, che si annidano nel passato della storia europea (dagli anni ’80 del film d’esordio al 1700 francese – periodo storico da lui prediletto – di La mort de Louis XIV e di Liberté) e il senso di atrofizzazione, di presente assoluto e fuori dal tempo che pervade in maniera apocalittica i suoi personaggi, sempre in attesa di un climax che non arriverà mai, o che forse è già arrivato.

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Un’attesa spasmodica della fine che diventa paranoia nucleare per un Benoît Magimel chiamato a interpretare l’ambiguo protagonista di Pacifiction, un commissario diplomatico arrivato nell’ex colonia francese di Tahiti per cercare di indagare su inquietanti voci che vogliono un’imminente ripresa di pericolosi test atomici. Serra lavora sull’estrema stilizzazione e opacità dei personaggi e sull’artificialità esibita delle luci (come già avveniva nell’indimenticabile finale di Liberté) per creare una tramatura visiva di grande suggestione, uno spazio flottante e incerto in cui si riesce a percepire l’astrazione del potere in tutta la sua spietata e pervasiva insensatezza. È fra mezze voci e accenni che il protagonista De Roller, tramite designato fra i politici e la popolazione, sonda l’isola muovendosi come in un limbo: un sonnambulo che vaga in quello che sembra uno stato di vita solo apparente. Lo spettatore viene imbrigliato nel movimento ipnotico del film, che concede pochi indizi e lancia ampie zone d’ombra irrisolte, rimandando costantemente ad un fuori campo inconoscibile che grava come un presagio.

A duplicare ed amplificare la sensazione di minaccia che viaggia sottopelle è la presenza inquietante dell’oceano, che con la sua superficie inghiotte e nasconde alla vista. De Roller è guidato da una volontà di chiarezza che non si concretizzerà mai: nel dialogo-monologo più importante del film il protagonista parla di un mondo che ha perso la concezione del tempo e della memoria, di un’umanità che deve avere come necessità primaria quella di illuminare, di vedere le pelli avvizzite del potere che sono già state incarnate dal corpo esposto e morente di Jean-Pierre Léaud in La mort de Louis XIV. Serra continua con Pacifiction il suo lavoro sulla percezione del presente e sulla decomposizione invisibile di un tempo raggelato e immobile, puntando il suo sguardo per la prima volta sulla contemporaneità.

Irma Benedetto

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“LA PIEDAD” BY EDUARDO CASANOVA

Article by: Romeo Gjokaj

Translated by: Rita Brigante

When Mateo (Manel Llunell) is diagnosed with brain cancer, his mother Libertad (Ángela Molina) gets the chance she was looking for: Mateo is now harmless, in need of care and attention that only she can give him. Eduardo Casanova proposes an Oedipal love story with his second full-length-film “La piedad”, presented in competition at the 40th edition of Torino Film Festival.

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Mateo never leaves home without his mother, they sleep together in the same bed, and whenever one of them gets sick, both of them experience symptoms. Their personalities are blended to the point that they sometimes get swapped or one merges with the other; they laugh, cry, and suffer together. Mateo was born to satisfy his mother’s need to be essential for someone. What scares Libertad is the prospect that one day her son will grow up and be independent, take a bath on his own, and leave home. She wants him to stay in their little bubble in which she breastfeeds him and nurtures him forever, even though he is a grown man. The relationship between mother and son is compared with the parallel story set in North Korea, where dictator and subject cannot live without each other. Firstly, Mateo’s absent father plays the tyrant’s role, as he appears in Mateo’s dreams in the place of di Kim Jong-un while killing a unicorn, but the son will soon realize that the real cause of his discomfort his is mother.

As it is true with his first work, Skins (2017), Casanova is not scared of showing images that bring cinema back to pure visual art, building a voyeuristic relationship among the viewers that ask themselves whether they want to keep looking at the screen or not. The colour pink dominates the scene, exposing and dissecting the characters’ unspeakable secrets. They lose their humanity and become torn, sick pieces of flesh. The director is much interested in psychic anomalies rather than physical ones. Therefore, Casanova investigates the result of the combination of two psychic disorders: firstly, the Münchausen syndrome by proxy is the syndrome which leads Libertad to keep her son in a sickly stage by secretly drugging him, and secondly, the Stockholm syndrome that leads Mateo back to his tormentor, his mother. The son’s Oedipus complex, which makes him hate his father (whom he replaces) without even knowing him, contributes to the couple’s toxicity. Moreover, even though his mother is the cause of all his misfortunes, Mateo cannot survive without her, since he does not conceive anything except the morbid love that has accompanied him from birth.

“LA PIEDAD” DI EDUARDO CASANOVA

Quando a Mateo (Manel Llunell) viene diagnosticato un cancro al cervello, la madre Libertad (Ángela Molina) ha l’occasione che cercava: Mateo è ora totalmente indifeso, bisognoso di cure e attenzioni che solo lei è in grado di fornirgli. È una storia di amore edipico quella che Eduardo Casanova ci propone nel suo secondo lungometraggio La piedad, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Mateo non esce mai di casa senza la madre, dormono insieme nello stesso letto e quando uno dei due si ammala anche l’altro avverte i sintomi. Le personalità dei due sono talmente amalgamate da arrivare a scambiarsi e fondersi, ridendo, piangendo e soffrendo insieme. Mateo è nato proprio per soddisfare il bisogno della madre di essere indispensabile per qualcuno. La prospettiva che un giorno Mateo cresca e diventi indipendente, si faccia il bagno da solo e esca di casa per conto suo, spaventa la madre che cerca di tenerlo in una bolla in cui resti per sempre il suo bambino, da allattare a accudire, anche ora che è ormai cresciuto. Il rapporto tra madre e figlio dialoga con la vicenda parallela ambientata in Corea del Nord, nella quale dittatore e suddito non possono fare l’uno a meno dell’altro. Se all’inizio per Mateo è il padre assente a ricoprire il ruolo di tiranno e ad apparirgli in sogno nelle veci di Kim Jong-un intento ad uccidere un unicorno, presto si renderà conto che è invece la madre la causa del suo malessere.

Così come nella sua opera prima, Pelle (2017), Casanova non ha paura di mostrare immagini attraverso cui il cinema ritorna pura arte visiva, creando un legame voyeuristico con lo spettatore che si chiede se continuare a guardare o distogliere lo sguardo. Il colore rosa domina la scena mettendo a nudo e sviscerando i segreti inconfessabili dei personaggi, che perdono la propria umanità per diventare semplici pezzi di carne lacerati e malati. Ma più delle anomalie corporee, sono quelle psichiche ad interessare il regista. Casanova infatti indaga il risultato della combinazione di due disturbi psichiatrici quali la sindrome di Münchausen per procura, che porta la madre a tenere il figlio in stato di malattia somministrandogli farmaci di nascosto, e la sindrome di Stoccolma, che induce il figlio a tornare dalla madre-aguzzina. Il complesso edipico del figlio, che odia il padre senza averlo mai conosciuto e al quale si sostituisce, contribuisce poi alla nocività della coppia. Così, nonostante la madre sia la causa di tutti i suoi mali, Mateo non può fare a meno di lei, perché non concepisce nulla di diverso da quell’amore morboso che lo ha accompagnato dalla nascita.

Romeo Gjokaj

“LA LUNGA CORSA” BY ANDREA MAGNANI 

Article by: Romeo Gjokaj

Translated by: Niccolò Sereno

The oyster that remains attached to the rock on which it was birthed by fate will live peacefully. The oyster that instead ventures into the unknown in search of fortune can only end up swallowed by the ocean. This is the so-called “Ideal of the Oyster”, which is essential in the events of “I Malavoglia” by Giovanni Verga and of “La Lunga Corsa”, the second movie by director Andrea Magnani and the only Italian feature film in competition at the fortieth edition of the Turin Film Festival. 

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Giacinto (Adriano Tardiolo) was born and raised in prison, the only environment he recognizes as home during his training process. Abandoned by his parents, he is looked after by prison guard Jack (Giovanni Calcagno), who becomes his figure of reference. However, Jack would like Giacinto to go out and make a living away from the bars and narrow corridors through which the boy enjoys running despite it being forbidden. Thus, he takes him to a family house which, however, is more of a prison for the child than the prison itself. As soon as he gets the chance, he runs away and attacks a man to get arrested and be able to go “home”, but he discovers that children cannot go to prison. So, he tries again on his eighteenth birthday. Jack understands that Giacinto will never change his mind and has him hired as a guard in the penitentiary, which thus becomes a place of work, lodging and recreation for him.

If “Easy – Un viaggio facile facile” (2017), Magnani’s first work, was a classic road movie, here instead a static journey is presented: Giacinto runs for hours but never moves, he remains inside his miniature “Matrix”, preferring the blue pill to the red one (colors that, among other things, are recurrent in the film). He wants to stay locked up in his cave because he sees nothing interesting in the frenetic stillness that pervades the exterior, where people seem to do nothing but run aimlessly between circling buses and construction sites that have been standing still for years. 

Jack tries to get Giacinto to escape from what he sees as a mental cage without realizing that he himself is the first of the prisoners chained to a life that doesn’t satisfy him and from which he tries to escape by drinking in the evening. Giacinto doesn’t run to escape or to win a race; he runs to run, unlike those like Jack who would like to flee, but stand still in their perpetual unhappiness.

“FAIRYTALE” DI ALEKSANDR SOKUROV

La sostanziale differenza tra noi e la Storia è che questa non parla, siamo noi a costringerla a farlo. Cosa accadrebbe però se essa ci guardasse in faccia, ci prendesse per mano e iniziasse a parlarci del più e del meno, dei suoi rimpianti e dei suoi sogni irrealizzabili? È ciò che si propone di fare Aleksandr Sokurov con il suo Fairytale: far parlare spontaneamente la Storia, a bassa voce e con un leggero tocco di umorismo.

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Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini e Winston Churchill si ritrovano riuniti nell’aldilà a chiacchierare mentre vagano per una nebbiosa selva oscura in attesa che il guardiano della porta decida se farli entrare in Paradiso. Il contenuto di queste conversazioni? Sbeffeggiarsi reciprocamente cercando ciascuno di far valere i propri ideali politici e sociali, comprendendosi nonostante le lingue diverse. Discorsi che evidenziano la loro dimensione privata cancellando l’aura solitamente attribuita loro dalla funzione pubblica e dalla Storia stessa. La parola viene dunque usata come strumento per conciliare i diversi punti di vista e per cercare di rompere la barriera con il passato e l’immagine cristalizzata che di loro abbiamo. Costruito attraverso filmati d’archivio, senza l’intervento di deep-fake o altri strumenti di intelligenza artificiale, il film chiama in causa il rapporto con il reale, la verosimiglianza, la memoria e la smitizzazione di questi personaggi, obiettivo che non avrebbe potuto certo perseguire ricorrendo ad attori che sostituissero questi volti, corpi e gesti che hanno cambiato la storia. Le voci prestate ai protagonisti sono poi perfettamente rese da un ottimo lip-sync che infonde vita alle sbiadite immagini immerse nella nebbiosa reminiscenza del passato.

Sokurov tenta di dare un senso alle difficoltà che il genere umano sta attraversando oggi facendo un passo indietro e soffermandosi sulle figure che maggiormente hanno plasmato quella realtà che conosciamo, individuati inevitabilmente nei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, evento che più ha eradicato le convinzioni positiviste sul progresso umano. Provare ad empatizzare con figure come Hitler e Stalin è l’arduo compito proposto allo spettatore, che attraverso tale operazione scopre che ogni avvenimento storico, anche il più terribile e malvagio, nasconde al suo interno solo uomini.

Romeo Gjokaj

“SHE SAID” DI MARIA SCHRADER

Il peso insostenibile dell’ambiguità manipolatoria, della colpevolizzazione infondata, dei silenzi complici. Il nuovo lungometraggio di Maria Schrader, fuori concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival, è una denuncia contro Harvey Weinstein che sprigiona il desiderio di gridare di cui le donne sono state tanto a lungo private, riscattando così il diritto alla loro voce.

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Una giovane donna all’alba della propria carriera, con l’animo che pullula di sogni e gli occhi colmi di ingenua speranza, viene travolta da una richiesta tanto inattesa quanto inopportuna proprio quando pensava di partecipare a un incontro di lavoro. “Mi strappò via la mia voce quel giorno, proprio mentre stavo iniziando a trovarla”, rivela Laura Madden, confessando la convinzione che ebbe per anni di essere stata la sola a non aver avuto la forza di opporsi alle molestie dal potente quanto temuto produttore della Miramax. Laura era tutt’altro che sola, ma il suo persecutore è stato per lungo tempo tutelato da un consolidato sistema che proteggeva sistematicamente e scrupolosamente i molestatori. Le giornaliste del “New York Times” Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Zakan) intrapresero un’inchiesta investigativa per portare alla luce le molestie e gli abusi sessuali commessi da Weinstein, che aveva oltrepassato i limiti non solo delle relazioni professionali, ma anche i confini nazionali, compiendo innumerevoli soprusi anche oltreoceano. 

L’équipe di She Said è consapevole di raccontare una storia vera e non lascia spazio alla violenza gratuita, alla quale le donne sono già abbondantemente esposte. L’imponente presenza fisica di Weinstein è restituita dalle testimonianze orali delle donne che descrivono gli episodi nei quali è lui a detenere l’inequivocabile agency di carnefice. Emblematica, al contempo, è invece la sua voce, che sentiamo in voice over, violenta e prepotente quanto i soffocanti accordi che indusse le sue vittime a firmare, privandole “legalmente” della loro dignità. Ripercorriamo, guidati da queste testimonianze, gli spazi da cui avrebbero tanto voluto fuggire, come in un incubo dal quale non era loro concesso di risvegliarsi. Questo film, tuttavia, vuole essere altresì uno spazio sicuro per tutte le donne coinvolte per esprimersi e condividere la propria sofferenza e rabbia. Prime tra tutte Megan e Jodi, che seguiamo ben oltre i processi investigativi e che Maria Schrader ci rivela con grande sensibilità e rispetto. La collaborazione e supervisione delle dirette interessate e la loro concessione a entrare nelle rispettive vite private sono state senz’altro indispensabili per raggiungere l’obiettivo di realizzare un film di forte risonanza e che incoraggi le donne a fidarsi le une delle altre.

Yulia Neproshina

BACK TO LIFE: IL RITORNO DEL POLAR ITALIANO

La sezione Back to life del TFF40 dedicata al restauro cinematografico ha proposto un dittico di particolare interesse sul polar italiano, riportando allo splendore originario due dei suoi rari gioielli. Realizzati a distanza di tempo e con differenti caratteristiche si sono ritrovati accomunati per la fredda accoglienza ricevuta da critica e pubblico al momento della loro uscita in sala per poi assurgere allo stato di cult movies.

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Milano calibro 9 (1972) oggi non rappresenta più solo il vertice della carriera di Fernando Di Leo, ma anche l’unico polar italiano del periodo in grado di reggere il confronto con i decantati polizieschi americani ed europei (tra il 1970 e il 1972 uscirono capolavori come The French Connection di Friedkin, Le Cercle Rouge di Melville e Carter di Hodges). E di perfezione parleremmo se non fosse stato purtroppo per il manicheismo di alcune scene fra il commissario (Wolff) e il suo vice (Pistilli) imbevute di dozzinale retorica socio-politica.

Il restauro presentato dal Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale ha il grande merito di ripristinare le sovrimpressioni delle ore e dei giorni volute dal regista per lo sviluppo ciclico della trama (“Da lunedì a lunedì” era in origine il titolo scelto) e di ridonare il giusto smalto visivo e sonoro alle vicende di Rocco (Adorf), Nelly (Bouchet) e soprattutto di Ugo Piazza (un granitico Moschin) vittima o diabolico artefice di un violentissimo redde rationem nella malavita organizzata milanese (lo si capirà nel finale con una splendida triplice agnizione). La copia digitale esalta la magistrale regia tesa a dettare il ritmo serrato (lo stesso Di Leo, senza modestia, affermava «nessuno, in Europa, a parte Melville, aveva la grinta di taglio americano che avevo io») e la fedeltà della sceneggiatura all’antologia di racconti hard boiled di Scerbanenco da cui è tratto.

Completano il quadro del riconosciuto capostipite del poliziottesco all’italiana l’ambientazione neorealista in cui agisce una galleria di straordinari personaggi pulp (Tarantino per sua ammissione attingerà a piene mani), le incalzanti musiche di Bacalov e degli Osanna e lo strisciante determinismo di fondo.

Bisogna spostarsi invece a Torino trent’anni dopo per l’altro neo-noir sommerso e “maledetto”.

Tre punto sei (2003), esordio e unico lungometraggio del compianto Nicola Rondolino (figlio d’arte del noto critico e storico del cinema Gianni), per una serie di problematiche produttive e distributive ha richiesto un delicato intervento di recupero curato da Cinecittà, Museo Nazionale del Cinema di Torino e Augustus Color, diretto a superare lo scoglio dell’assenza di un negativo originale.

Figura versatile e molto amata nella sua città, prematuramente scomparso nel 2013, Rondolino dimostrò subito in quest’opera prima un talento non comune (furono in pochi ad accorgersene) piegando i cliché del genere in una narrazione mai banale grazie a uno stile contemporaneo composto da vertiginose ellissi, scene d’azione telluriche e pregnanti momenti drammaturgici di scontro fra i vari personaggi. La vivida coerenza dell’immaginario criminale multietnico calato nel quartiere torinese di San Salvario colpisce nel segno evitando le trappole dei più retrivi pregiudizi razziali, mentre è l’intenso Binasco a spiccare nel ruolo del poliziotto corrotto follemente innamorato della donna contesa dal suo miglior amico (un Giallini più cupo che mai) disilluso malavitoso al servizio di un clan della droga sui generis (gustoso l’esperimento citazionista da I Soprano).

Doverosa quindi la riscoperta di Tre punto sei nel quarantennale del festival che vide a lungo Rondolino come selezionatore nutrendo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto dare al nostro cinema.

Davide Troncossi

“LA LUNGA CORSA” DI ANDREA MAGNANI

L’ostrica che rimane attaccata allo scoglio su cui il caso l’ha fatta nascere vivrà serenamente. L’ostrica che invece si avventurerà verso l’ignoto in cerca di fortuna non potrà che finire inghiottita dall’oceano. È così definito “l’ideale dell’ostrica” che accompagna le vicende dei protagonisti de I Malavoglia di Giovanni Verga e del film La lunga corsa, seconda opera del regista Andrea Magnani e unico lungometraggio italiano in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Giacinto (Adriano Tardiolo) nasce e cresce in carcere, unico ambiente che riconosce come casa nel corso del suo processo di formazione. Abbandonato dai genitori, viene accudito dalla guardia penitenziaria Jack (Giovanni Calcagno), che diventa il suo punto di riferimento. Jack vorrebbe però che Giacinto uscisse e si facesse una vita lontano dalle sbarre e dagli stretti corridoi per i quali il ragazzo si diverte a correre nonostante sia vietato. Lo porta così in una casa-famiglia che risulta però per il bambino una prigione più del carcere stesso. Appena ne ha l’occasione fugge e aggredisce un uomo per essere arrestato e poter tornare “a casa”, ma scopre che i bambini non possono andare in prigione. Ci riprova così il giorno del suo diciottesimo compleanno. Jack capisce che Giacinto non cambierà mai idea e lo fa assumere come guardia nel penitenziario, che diventa così per lui luogo di lavoro, alloggio e svago.

Se Easy – Un viaggio facile facile (2017), opera prima di Magnani, era un classico road movie, qui viene invece presentato un viaggio statico: Giacinto corre per ore ma non si muove mai, rimane all’interno della sua Matrix in miniatura, preferendo la pillola blu a quella rossa (colori tra l’altro ricorrenti nel film). Vuole restare rinchiuso nella sua caverna perché non vede nulla di interessante nel frenetico immobilismo che pervade l’esterno, dove le persone non sembrano far altro che correre senza meta tra autobus che girano in tondo e cantieri fermi da anni.

Jack cerca di far evadere Giacinto da quella che lui vede come una gabbia mentale senza però rendersi conto che è lui stesso il primo dei prigionieri, incatenato a una vita che non lo soddisfa e dalla quale tenta di scappare bevendo la sera. Giacinto non corre per fuggire o per vincere una gara; lui corre per correre, a differenza di quelli come Jack che vorrebbero fuggire ma rimangono immobili nella propria perpetua infelicità.

Romeo Gjokaj

“IPERSONNIA” BY ALBERTO MASCIA

Article by: Marco di Pasquale

Translated by: Arianna Deiro

The dystopian narrative, which became popular in 20th century literature and cinema, has always been an effective tool to analyse and discuss contemporary society’s problems and changes. Alberto Mascia, with his movie Ipersonnia, takes the topics which in the past years have generated intense debates in Italy and puts them in a near future. The high crime rate and the severe overcrowding in Italian prisons have pushed politicians towards an extreme solution: turning prison sentences into years of forced sleep.

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David Damiani (Stefano Accorsi) is a psychologist whose job consists in periodically waking up inmates to monitor their mental health. The forced sleep takes a toll especially on the convicts’ brain, as they find it hard to distinguish dream from reality. Ipersonnia is based on such dichotomy and the movie’s atmosphere draws inspiration from films such as eXistenz (Cronenberg – 1999) or Memento (Nolan – 2000). The dreamlike element directly correlates to psychoanalysis and its immoral use combined with technology. Due to a brainwave inhibitor, the inmate is vulnerable while the psychologist can insert all kind of ideas in his mind, even potentially convincing him of being guilty of crimes he did not commit. Therefore, Ipersonnia presents a new and interesting interpretation of the “transplants” of ideas carried out by the protagonists of Inception (Nolan – 2010). While in Nolan’s movie the manipulation only took place in the dreamlike worlds created by people’s minds, in Ipersonnia the process happens while they are awake, through psychanalysis. Technological advance, combined with psychotherapy, allows for the destruction of all the barriers of the unconscious and sleep simply becomes a moment of stasis and imprisonment. Despite all the thematical and narrative suggestions, the style of the director remains inert, in function of a simpler understanding of the events of the film.

Prison overcrowding, justice and its problematic implementation are important issues of our society that are hinted at by the film, but are relegated to the background. The narrative turns mostly to conspiracy theories and to the deterioration of the power which is trying to take control of the citizen’s minds. Ipersonnia is part of the recent attempt by Italian productions to make the public interested in genre film once again. Such attempt is perhaps lacklustre in its comparison with dystopia, which would require a critical and in-depth analysis of such current and relevant issues, both in its content and in its form.

“IPERSONNIA” DI ALBERTO MASCIA

La narrazione distopica, affermatasi nella letteratura e nel cinema del Novecento, è da sempre un efficace strumento di analisi e discussione dei problemi e dei cambiamenti della società contemporanea. Alberto Mascia con il suo film Ipersonnia, sposta in un futuro prossimo argomenti che negli ultimi anni hanno generato intensi dibattiti nel nostro Paese. L’alto tasso di criminalità e il grave sovraffollamento delle carceri italiane hanno spinto la classe politica verso una soluzione estrema: trasformare la pena detentiva in anni di sonno forzato.

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David Damiani (Stefano Accorsi), è uno psicologo che si occupa del risveglio periodico dei detenuti per monitorarne la salute mentale. I condannati subiscono gli effetti del sonno artificiale principalmente a livello cerebrale, facendo fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Su questa dicotomia si basa Ipersonnia, con atmosfere debitrici di film come eXistenz (Cronenberg – 1999) o Memento (Nolan – 2000). L’elemento onirico si lega direttamente alla psicanalisi e al suo uso immorale unito con la tecnologia. Attraverso un inibitore di onde cerebrali il detenuto rimane vulnerabile mentre lo psicoterapeuta può immettere nella sua mente ogni tipo di idea fino a convincerlo della colpevolezza di crimini non commessi. Ipersonnia propone quindi un’interessante rivisitazione degli “innesti” di idee effettuati dai protagonisti di Inception (Nolan – 2010). Se in quest’ultimo film la manipolazione si compiva interamente nei mondi onirici creati dalla mente, in Ipersonnia tutto questo avviene da svegli, attraverso la psicanalisi. Il progresso tecnologico combinato con la psicoterapia distrugge ogni barriera dell’inconscio e il sonno diventa un mero momento di stasi e di prigionia. Di fronte a queste suggestioni tematiche e narrative lo stile registico rimane tuttavia inerte, in funzione della semplice comprensione degli eventi del film.

Il sovraffollamento delle carceri, la giustizia e la sua problematica applicazione sono questioni importanti della nostra società che la pellicola accenna sommariamente, relegandole sullo sfondo. La narrazione vira piuttosto sul complottismo e sulla degenerazione del potere che cerca di prendere il controllo delle menti dei cittadini. Ipersonnia si inserisce nel recente tentativo della produzione italiana di riavvicinare il pubblico al cinema di genere, tentativo che risulta forse mancato proprio nel confronto con la distopia, che richiederebbe una visione critica e approfondita di questioni attuali così rilevanti, sia nella forma che nel contenuto filmico.

“FALCON LAKE” BY CHARLOTTE LE BON

Article by: Marta Faggi

Translated by: Sara Borraccino

On the shore of their lake, Chloé (Sara Montpetit) asks Bastien (Joseph Engel) what his greatest fear is: the boy smiles with a shrug and replies that it is masturbating in front of mom and dad. In tears Chloé confesses then her own: “I think my greatest fear is to be lonely all my life.”

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Charlotte Le Bon, in her directorial debut, plumbs the age of adolescence by telling the story of a summer interlude at the lake. To do so, she draws heavily from the graphic novel Una Sorella (Bao Publishing, 2018) by french author Bastien Vivès, in which we find a recollection of all the ambivalences of the early youthful desires. Falcon Lake focuses on the mutual attraction between the two main characters. Chloé is a 16-year-old girl who tries so hard to act like an adult even when she’d rather press pause on everything. It might be this nature of hers that drives her to seek out Bastien, who’s two years younger than her and is openly inexperienced and subjugated by the charm of her ostentatious and constructed confidence. The two kids are immortalized in their purest naiveté as they awkwardly discover each other’s bodies. In the background, the actual adults, the parents. In Una Sorella, Vivès never depicts their faces, because that story is not theirs. And Le Bon reproposes this choice in her own language, the language of film: the parents are relegated off-screen, the faces unseen, with only their voice as a testament of presence.

In the last act, Le Bon, also the author of the screenplay, detaches her work from the one her feature film is based on. The ending she chose for the male protagonist is symbolic of the core of adolescence itself, an age spent on the edge between life and death. “There are ghosts who do not know they are dead,” and it is these ghosts, with their desires, who make up our youth. The two kids live their experiences in an absolute and fatalistic way, without the emotional processing typical of those who have already gone through adolescence and emerged unscathed.

Falcon Lake does not stray very far from coming-of-age narrative clichés. Despite that, the director creates a space of rigorous representation in which the anxieties and discoveries of adolescence alternate, within which the viewer can find themselves and their own experience.

“COMA” DI BERTRAND BONELLO

“Cara Anna, non è la prima volta che mi rivolgo a te in questo modo”. È con queste parole che inizia l’ultimo film di Bertrand Bonello, una lettera aperta piena di amore e sensibilità rivolta alla figlia adolescente. Il regista aveva già cercato di comunicare con la ragazza attraverso il suo cinema con Nocturama (2016), di cui compaiono alcune immagini all’inizio del film in un montaggio così confuso da trasformarne i fotogrammi in pura astrazione. Se lo sforzo di entrare in contatto con la figlia non era allora riuscito dato che lei non ha visto il film, Bonello ci riprova, realizzando un’opera più intima, personale e al contempo universale che si rivolge alla figlia ma anche alle nuove generazioni.

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“COMA” BY BERTRAND BONELLO

Article by: Fabio Bertolotto

Translated by: Laura Todeschini

‘Dear Anna, this is not the first time I have addressed you in this way’. It is with these words that Bertrand Bonello’s latest film begins. Words which pave the way to an open letter full of love and sensitivity addressed to his teenage daughter. The director had already tried to communicate with the girl through the cinema with Nocturama (2016). Some images of this film appear at the beginning of Coma in a confused montage that turns the frames into pure abstraction. The previous effort to get in touch with his daughter had been unsuccessful, since she had not seen the film. For this reason, Bonello tries again, making a more intimate, personal and, at the same time, universal work that addresses his daughter and also new generations.

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“FALCON LAKE” DI CHARLOTTE LE BON

Sono sulla riva del loro lago, quando Chloé (Sara Montpetit) chiede a Bastien (Joseph Engel) quale sia la sua più grande paura: il ragazzo sorride, scrolla le spalle e risponde che è masturbarsi di fronte a mamma e papà. Quando Chloé si confessa a sua volta, sta piangendo: «Credo che la mia più grande paura sia di sentirmi sola tutta la vita».

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Charlotte Le Bon, al suo esordio alla regia, scandaglia l’adolescenza mostrandola durante una parentesi estiva al lago. Per farlo, attinge a piene mani dalla graphic novel Una sorella (Bao Publishing, 2018) del francese Bastien Vivès, in cui vengono trattate le ambivalenze del desiderio giovanile al suo nascere. Falcon Lake si concentra sull’attrazione reciproca tra i due protagonisti. Lei, Chloé, è una sedicenne che si sforza di comportarsi da adulta anche quando vorrebbe solo darsi il tempo di cui ha bisogno. È forse proprio questo che la spinge a ricercare Bastien, di due anni più giovane di lei, apertamente inesperto e soggiogato dal fascino della ostentata e costruita sicurezza di lei. I due ragazzi sono immortalati nella loro più pura ingenuità, mentre scoprono, impacciati, uno il corpo dell’altra. Sullo sfondo del loro rapporto ci sono gli adulti veri e propri, i genitori. In Una sorella, Vivès non disegna mai i volti, perché quella non è la loro storia. Le Bon ripropone questa scelta nel suo linguaggio, quello cinematografico: i genitori sono relegati fuori campo, i visi non si vedono e rimangono soltanto le voci.

Nel finale, Le Bon, anche autrice della sceneggiatura, si discosta dall’opera su cui è basato il suo lungometraggio. La conclusione che ha scelto per il protagonista maschile è l’emblema dell’adolescenza in sé, rappresentata come un periodo della vita al confine tra la vita e la morte. «Ci sono fantasmi che non sanno di essere morti» e sono questi fantasmi, con i loro desideri, a popolare la giovinezza. I protagonisti vivono le loro esperienze in maniera assoluta e fatalista, senza l’elaborazione emotiva tipica di chi l’adolescenza l’ha già superata e ne è uscito indenne.

Falcon Lake non si allontana molto dai cliché narrativi del coming of age. Nonostante questo limite, la regista crea uno spazio di rigorosa rappresentazione in cui si alternano inquietudini e scoperte dell’adolescenza, dentro le quali lo spettatore può ritrovare se stesso e il proprio vissuto.

Marta Faggi

TORINO FILM FESTIVAL. THE 40TH EDITION

Article by: Davide Troncossi

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

With the presentation to the press of the Casa Torino Film Festival, the run-up to TFF40 came to an end. It will begin (screenings, events, masterclasses) on November 25th with the opening ceremony at the Teatro Regio in Turin, for the first time also broadcast live on radio as part of Hollywood Party on Rai Radio3, dedicated to «a tale through music and images on the relationship between the Beatles, the Rolling Stones and cinema».

Last week, the opening press conference of the event took place at the Cinema Quattro Fontane in Rome, celebrating the important milestone of its fortieth edition, coinciding with the long-awaited emergence from the devastating pandemic nightmare.

The promoters unveiled an ambitious, varied and richly innovative program, both in terms of the films on offer and the spaces for interaction between artists and the public, laying the foundations for an edition full of expectations.

In terms of logistics, the first novelty is the Casa Torino Film Festival, which will be located in the Cavallerizza Reale, also the festival’s Media Centre, thanks to the collaboration with our University. The centre aims to become «the nerve centre of the festival where most of the meetings and events will take place», as the new artistic director Steve Della Casa presented it (in fact a veteran already at the helm of the TFF between 1999 and 2002, and one of its founders in 1982 under the impetus of Gianni Rondolino and Ansano Giannarelli). Moreover, as summarised by the president of the National Museum of Cinema in Turin, the TFF’s promoting body, Enzo Ghigo, the entire city will be involved through a «look of the city that will go beyond the usual festival spaces to dress up the squares and streets of Turin with real works of art, created by the brilliant graphic trait of Ugo Nespolo, who also signed the guiding image». A sort of urban mapping that has long been in vogue in large metropolises and is likely to appeal to visitors of all ages.

Many guests will arrive in Turin during the festival, well-known faces from show business, music, cinema and beyond. The legendary protagonist of A Clockwork Orange, Malcolm McDowell (who will receive the Star of the Mole, will be honoured with a retrospective and will hold a masterclass), Paola Cortellesi, Toni Servillo, Mario Martone, Paolo Sorrentino, but also Vittorio Sgarbi, the singer Noemi, the producer Marina Cicogna, Michele Placido, Sergio Castellitto, the former goal twins Vialli and Mancini, Simona Ventura and many others will be among the guests.

As far as the program is concerned, in addition to a competition of national and international previews divided into the feature, documentary and short film sections, a rich out-of-competition section stands out (for a total of 173 works, 81 of which are world premieres) ranging from the solo show of the young Spanish director Carlos Vermut to the Portraits and Landscapes category, from the more “committed” section (Of Conflicts and Ideas) to the New Worlds of Auteur, up to Crazies, an anthology of films on what is new in horror production worldwide, destined to send the multitude of fans of the genre into raptures.

Malcolm McDowell

Not forgetting Back to life (the restored films), High Noon (the misunderstood classic American westerns), the homage to documentary filmmaker/collector Mike Kaplan, and the unfailing Masterclasses, what stands out is the strongly heterogeneous character of a program aimed at highlighting first works as well as average genre cinema (plus the so-called B-series production but with cult-movie potential), trying to be «a festival that remembers the past but thinks of the future, a festival that is cultured but popular, research but fun. A festival that wants to be a party».

With a keen eye on contemporary issues such as environmental sustainability, gender violence, which will also be remembered by the event’s patroness Pilar Fogliati with the anniversary of the International Day for the Elimination of Violence against Women, the many guests who will meet the public «telling their ideas and their point of view» and the varied schedule, the director emphasizes the festival’s desire to combine high and low culture, aiming to involve professionals from the sector, the event’s loyal audience and those who, intrigued by the novelties, will be able to approach the event.

TORINO FILM FESTIVAL. LA 40ma EDIZIONE

Con la presentazione alla stampa della Casa Torino Film Festival si è conclusa la fase di avvicinamento al TFF40 che aprirà (proiezioni, eventi, masterclass) il 25 novembre con la cerimonia di apertura al Teatro Regio di Torino, per la prima volta anche in diretta radiofonica all’interno di Hollywood Party su Rai Radio3, dedicata a “un racconto per musica e immagini sul rapporto tra i Beatles, i Rolling Stones e il cinema”. 

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“INMERSIÓN” BY NICOLÁS POSTIGLIONE

Article by Sara Longo

Translated by Giulia Baldo

The boat trip of a father with his two daughters will soon become a nightmare. This is the simple premise on which is built Inmersión, the debut feature film of Chilean director Nicolás Postiglione that investigates what’s underneath its characters. «It’s a shame that no one comes here anymore» comments the father, while observing with nostalgia the places where he grew up, now apparently deserted. And yet, the unstable balance of the three protagonists is definitely destroyed by the encounter with some castaways who, after being welcomed aboard, start to make the father seriously fear for his and his daughters’ lives.

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GIUSEPPE PICCIONI, PREMIO MARIA ADRIANA PROLO 2021

Il riconoscimento intitolato a Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo Nazionale del Cinema, quest’anno è stato assegnato a Giuseppe Piccioni. Un premio alla carriera, alla memoria dei suoi film, alle battaglie silenziose che questi hanno saputo raccontare.

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TORINO 39 SHORT FILMS

Article by Redazione DAMS

Translated by Valerio Copponi

Over the last two years, Torino Film Festival has given new life to the short film category by bringing them back in the official competition in the last edition. This year, they were at the centre of an interesting novelty: each of the twelve films selected by Daniele De Cicco has accompanied one of the feature films in competition before their respective screenings during the days of the festival. A signal of recognition and respect towards an increasingly popular practice in Italy, which has its core in the Turinese festival.

“LIBERTY” BY JOHANNA RÓŻNIAK

A group of youngsters fight for their ideals: an unacceptable action to the society which dominates the dystopian future in which the Polish director’s short film takes place.

Kuba, a young member of the opposition group, gets arrested and finds himself inside a super high-tech prison from which he could never escape, were it not for the help of his father, an important politician. The increasingly stringent limitations imposed on young people, the abuse of power by law enforcement, the technology able to violate any semblance of privacy, the recommendation: all these current themes are analysed perfectly over 14 minutes of terrifying reality.

“NIGHT” BY AHMAD SALEH

Starry and deadly night, a merciful goddess who, like a mother, puts to sleep her children, exhausted by the bombs, by the dust and by the unrelenting pain. A woman rebels against the sweet lullaby, lets out a desperate cry, an appeal of hope to find her young daughter, lifeless, buried under the rubble: what can the Night do but bring peace to her soul, as well? Palestinian director Ahmad Saleh, in this grueling short film, talks about the infamy of war, which forces men to accept their departure peacefully, as the only solution to rid themselves of the constant threat of the shootings and violence.  

“LA ÚLTIMA PIEZA DEL PUZZLE” BY RICARDO MUÑOZ

Freedom, continuously evoked by the words on the poster: “PUEBLO SATISFECHO, PUEBLO LIBRE” (“satisfied People, free People”), and its denial, which can be caused by something as simple as reacting to law enforcement authorities, are at the core of the short film by the Venezuelan director. By narrating the simple story of citizen Albertini, who is always missing one piece to complete his puzzles, Ricardo Muñoz lets out a cry of rebellion against the main totalitarian regimes which have dominated numerous countries and continue to do so.

“MAVKA” BY ANASTASIA LEDKOVA

The short film by Anastasia Ledkova is an exquisite, dream-like look at a family tragedy. The death of a woman might be the right time for her son and husband to start a new life. The two of them have different views on the idea of moving, but all that is overshadowed when the son finds a sweet and mysterious girl, concussed, on the bank of a river. The unknown girl wins over the two protagonists with her elegance and innocence, behind which hides a terrible truth that will hit them both hard.

“BACKYARD CAMPING” BY MOR HANAY

A peaceful and pleasant night under the stars seems to be the best way to resolve, although temporarily, the numerous family problems that the protagonist couple have and are aware of. The backyard is the setting, the camping tent becomes a fortress, but the desired resolution never comes, because of a surreal thief and an unbeatable tree.

“RENDEZ-VOUS” BY ROSHANAK AJAMIAN

Baran and Navid are a young Iranian couple going through a crisis. Baran intends to end the relationship as she is in love with her husband’s sister. The shock is painful, especially considering that they have recently moved to Canada, and Navid could have never predicted the end of the relationship. The director chooses to alternate between the two on a date and fragments of Baran crying desperately in the car, aware of the suffering that is about to come.

“LA CATTIVA NOVELLA” BY FULVIO RISULEO

This animated short by Fulvio Risuleo offers an elaborate meditation on the relationship with death, religion, and the future of human relationships in the new world that is moving forward.

The film is divided into three acts, each accompanied by three songs by singer-songwriter Mirko Mancini (aka Mirkoeilcane, ed.). Although the musician’s voice is fundamental to hold the metaphorical reflection together, the metaphysical content which accompanies the descent of Jesus on Earth is completely overshadowed by the visual plotline featured in the film’s mise-en-scène. The three tones corresponding to the different acts of the short film are extremely effective: the first act, dedicated to the Black Angel, is white and cold; the second act, containing the preparation for the descent, is black and gloomy; the last act, which chronicles the old Giovanni’s funeral, is colourful and warm.

“JUNKO” BY MINSHO LIMBU

The story of Junko is the story of many Nepalese new brides, forced to live far away from their husbands who leave for India looking for a job.

Minsho Limbu decides to chronicle, with echoes of Beckett, the young woman’s wait for her Godot, who may never return home.

The directing is elegant and subtle, the camera lingers on Junko’s microcosm, accompanying her in the realisation of her future solitude, as it was for her mother and for the women of previous generations. Limbu studies every shot in detail, as the production design remains essential and functional to what is being told; in this way, the story almost seems to tell itself in front of the lens. The film is an example of great storytelling, it leaves no questions unanswered and chronicles, without pity and sentimentalism, a cross-section of the cultural life in Nepal.

“NEON MEETS ARGON” BY JAMES DOHERTY

The whole problem of life, then, is this: how to break out of one’s own loneliness, how to communicate with others. Cesare Pavese, This Business of Living: Diaries.

Immersed in a blaze of colours, an Hephaestus with an Irish accent accepts a young apprentice into his peculiar neon sign factory. Alienated by the community and unfamiliar with social relations because of his prolonged isolation, the old craftsman’s neon light turns on thanks to the arrival of a friendly individual who bursts into his dull daily routine. The two lost souls struggle to communicate, but the barriers are broken down by the need of finding themselves through one another.

“BABATOURA” BY GUILLAUME COLLIN

Making the most of a frantic style of directing which chases after the characters’ dialogues through fast-paced, back-and-forth exchanges, the short film by Guillaume Collin describes the delicate balance of a Canadian family, gathered for dinner.

Many secrets and fears grip the heart of Benoit, worried that his family will not accept the illegitimate son which his partner carries in her womb. The mise-en-scene helps to understand the nature of each of the diners seated around the table, and simultaneously displays their reaction to the shocking news that destroys the principles of a traditional family, thus measuring the extent of their love for one another.

“LA NOTTE BRUCIA” BY ANGELICA GALLO

Riding the (overlong) wave of crime stories set in the outskirts of Rome, a theme and a leitmotif which have oversaturated Italian cinema in the last few years, director Angelica Gallo condemns an environment in which teenagers find no way to emerge as individuals and as members of society, other than associating themselves with criminals. The presence of Marcello Fonte e Aniello Arena enriches a genre short film which depicts teenagers living on the street like stray dogs, working in packs to survive, but ready to betray one another in the name of a god who knows no morals: money.

“AIN’T NO MERCY FOR RABBITS” DI ALIZA BRUGGER

Director Aliza Brugger presents in competition an all-female western film that revolutionises the genre as it has traditionally been imagined, by reinventing the woman’s role: no more a defenseless creature, incapable of providing for herself in an arid and treacherous environment, like that of the desert. Indeed, the small Ronan lives with her ailing grandmother in a hostile environment, far away from any kind of civilization and from natural resources. They are surrounded by a rocky horizon, but no cowboy comes galloping to their rescue. “You gonna be the wolf or the rabbit?”: this is the question that runs through the mind of the young protagonist who, inspired by her grandmother’s teachings, fights against the fear of not being able to survive. Knowing that she can only rely on her abilities, the young Ronan learns to ride, a symbol of independence and freedom.

“ANOTHER BRICK ON THE WALL” BY ZHANG NAN

Article by Alessandro Pomati

Translated by Elena Soldà

In 1977 in China, a few months after the fall of Mao Tse-tung and the subsequent reassembly of the Communist Party of China, a valley not far from the city-prefecture of Tangshan, in the province of Hebei, is submerged in order to create an artificial dam that can supply water to the nearby big city. Underwater, however, not only the houses and shops that have been cleared run out, but also an entire stretch of the Great Wall, the monument that more than any other, perhaps, characterizes China in the world. Forty years after the construction of the dam, some local inhabitants, noting the misery of the conditions of a part of the wall on the surrounding hills, decide to put on a restoration operation to give new prestige to the millenary monument.

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