Milano, fine anni Sessanta. Umberto è un adolescente che decide di farsi crescere i capelli, i professori lo guardano storto e puntandogli l’indice in fronte gli suggeriscono di tagliarli. Un gruppo di suoi compagni di classe lo chiude in bagno, minacciando i suoi ciuffi con un paio di forbici da barbiere. Lui urla, si dimena e dopo pochi minuti gli amici fricchettoni scardinano la porta, entrano ed è subito rissa. Secondo Felice Pesoli tutto è cominciato lì, da una banda di capelloni che ha deciso, senza troppa coscienza politica, di minare quell’ideale conservatore di mascolinità che i genitori avevano ben ereditato dai loro padri, quarant’anni prima.
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“Blade Runner” di Ridley Scott
Los Angeles, 2019. In una città caotica, sovrappopolata, inquinata e sferzata da una perenne pioggia battente, si snodano le vicende di Rick Deckard (un Harrison Ford post Indiana Jones), cacciatore d’androidi, che ha la missione di “pensionare” un gruppo di replicanti ribelli guidati dal misterioso e carismatico Roy Batty (Rutger Hauer, olandese al suo primo film americano – da ricordare che fu considerato per il ruolo anche David Bowie). Ma la conoscenza di Rachel (la bellissima Sean Young), replicante ma dai sentimenti umani, sconvolge la missione del cacciatore fino all’epico e ambiguo finale. La sceneggiatura si ispira al racconto Do Androids Dream of Electric Sheep? Di Philip K. Dick.
“The Dressmaker” di Jocelyn Moorhouse
1951. Dopo quasi vent’anni, Tilly (interpretata dall’attrice premio Oscar Kate Winslet) fa ritorno a Dungatar, luogo da cui era stata allontanata quando era solo una bambina in seguito ad un tragico evento, per occuparsi della madre Molly (interpretata dall’attrice Judy Davis). Il ritorno di Tilly genera turbamento tra gli abitanti. In un piccolo paese come Dungatar, sperduto nel nulla e circondato da immensi campi di grano, tutti conoscono tutti e ovviamente tutti sanno tutto di tutti. Con il suo fascino e la sua eleganza Tilly, talentuosa stilista, conquista gli sguardi di molti. Primo fra tutti, il sergente Farrat (interpretato da Hugo Weaving), un uomo per bene ma con un segreto: ama le stoffe, i tessuti, gli abiti e soprattutto le piume. Anche il giovane Teddy Mcswiney (Liam Hemsworth) rimane incantato dalla bellezza della giovane donna tanto da innamorarsi di lei. Ed infine le donne del villaggio, attratte dalle sue abilità sartoriali, iniziano a commissionarle numerosi abiti. Ma un ricordo sfocato tormenta Tilly e, lungo tutto il film, ella cerca di farlo riaffiorare nella memoria.
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“Hello, My Name is Doris” di Michael Showalter
La trentatreesima edizione del Torino Film Festival si è conclusa ieri sera quando, dopo la premiazione dei film in concorso, è stato proiettato il film di chiusura nella sala del cinema Reposi: Hello, My Name is Doris, diretto da Michael Showalter e interpretato dalla grandiosa Sally Field.
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Conferenza stampa di chiusura del TFF 2015
Si è svolta oggi la conferenza stampa di chiusura della 33° edizione del Festival, condotta dalla direttrice Emanuela Martini, con interventi di Paolo Damilano e Alberto Barbera.
Damilano si dice molto soddisfatto dell’edizione appena conclusa perché è stata coinvolta tutta la città confermando quindi il fatto che il TFF è un festival metropolitano. Stupefacente l’affluenza degli spettatori nelle sale che cresce di anno in anno, nonostante il Festival abbia luogo nel mese di Novembre, già carico di numerosi eventi. Ora l’obiettivo è quello che il Festival diventi di importanza internazionale.
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Cinque cortometraggi sull’amore – TFF 2015
Nella sezione del TFF denominata My Son, My Son, What Ye Have Done (dal titolo di un film di Werner Herzog) sono stati presentati cinque cortometraggi che hanno in comune la tematica dell’amore. Tutti diversi nel modo di raccontare. Mai banali.
Il foglio di Silvia Belotti
Fino dall’alba in via Oberdan a Napoli molte persone scrivono il proprio nome su un foglio attaccato al muro della sede delle Agenzia delle Entrate, necessario per dare ordine alla fila interminabile di coloro che si recano in questo ufficio. Il foglio separa la società (esterna) dalla burocrazia (interna) degli uffici. Tra litigi e riflessioni, tra chi aspetta il suo turno, la macchina da presa riprende quanto avviene con taglio giornalistico tralasciando qualsiasi intento narrativo.
Il suo nome di Pedro Lino
Una carrellata inquadra un muro a secco che sembra interminabile, poi un anziano che cammina a fatica tra i campi. Qua e là qualche pecora. Inquadrature fisse e movimenti lenti scandiscono questo ritratto-intervista di un anziano che vive da solo in campagna dal 1966. Scopriamo la sua vita dalle sue parole e dalla sue fotografie: la gioventù, il servizio militare, la sorella, i suoi tentativi di sposarsi con una donna di cui non ricorda il nome. Tutto è conservato, compresa la Lancia Prisma che non ha mai guidato, come in un museo della memoria. Il vecchio racconta la propria vita senza rimpianti, con parole e gesti molto spontanei.
Il dossier di Mari S. di Olivia Molnar
Olivia Molnar ci racconta, nel suo primo cortometraggio, la storia di sua zia Mari attraverso inquadrature fisse di foto e libri e brevi filmati. Mari S., ungherese, vive la controrivoluzione del suo Paese negli anni Cinquanta e fugge a Genova. La sua vita dal 1953 al 1989 è documentata attentamente dai Munka Dossziè, i rapporti stilati da due incaricati dei servizi segreti che Olivia recupera nel 2014 tramite l’Archivio di Stato. Gli anni successivi sono ricostruiti dalla regista per non permettere che tutto venga cancellato dall’Alzhaimer di Mari.
Neuf cordes di Ugo Arsac
La lira di Orfeo aveva nove corde. I primi musicisti furono gli dei. Orfeo fu colui che riuscì ad incantare anche loro con la sua musica. Il mito di Orfeo, che torna dagli inferi senza Euridice, si intreccia a storie di rivoluzione in Ucraina attraverso le opere di due scultori. Il trait d’union tra Orfeo e l’Ucraina è il marmo di Carrara: l’inferno può essere anche bianco. Una fotografia meravigliosa ci guida all’interno di paesaggi suggestivi, con immagini molto contrastate cromaticamente. Denuncia e poesia, disagio e arte, viaggio interiore del protagonista e dello spettatore si mescolano in un’opera prima matura e lirica, scritta, diretta e prodotta dal giovane regista francese.
Scherzo di Fabio Scacchioli e Vincenzo Core
Il secondo movimento della Nona di Beethoven accompagna un pout-pourri di immagini che si susseguono rapide: il mare, i viaggi nello spazio, spezzoni di film hollywoodiani e documentari si muovono insieme alla musica, alle voci, agli applausi in sottofondo in un viaggio surreale, divertente, in un percorso che sale e scende, che si avvicina e si allontana. Il cortometraggio celebra la magia del cinema: nessuna storia, ma uno sfiziosissimo e sapiente montaggio.
“Tragica alba a Dongo” di Vittorio Crucillà
Difficile situare quest’opera in una delle due categorie che, secondo Luigi Freddi, il Duce aveva elaborato riguardo la settima arte («I film si suddividono tra quelli di cui il pubblico si chiede come finiranno e quelli di cui lo stesso pubblico si chiede quando finiranno»). Per quanto riguarda Tragica alba a Dongo il pubblico si è invece chiesto quando l’avrebbe mai potuto vedere.
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“Just Jim” di Craig Roberts
Craig Roberts è nato nel 1991 ed ha appena diretto il suo primo film, Just Jim, presentato nella sezione Festa Mobile del TFF33. Pare che per problemi di budget abbia deciso di affidare a sé stesso il ruolo del protagonista (ottima scelta, perché come diciassettenne triste funziona a meraviglia). Ma non finisce qui: Roberts ha anche scritto la sceneggiatura.
“Ritorno a Spoon River” di Francesco Conversano e Nene Grignaffini
Francesco Conversano e Nene Grignaffini dedicano un film all’Antologia di Spoon River per celebrare i cent’anni dalla pubblicazione della celeberrima raccolta di poesie di Edgar Lee Masters. Il film è girato a Lewiston e Petersburg, nell’Illinois, dove gli abitanti di quei luoghi rileggono il testo immersi nei loro ambienti familiari. Il film ha un ritmo lento, anche troppo a volte, ma l’idea è sicuramente ottima. In 104 minuti di viaggio attraversiamo cittadine che raccontano l’America di provincia e le vite delle persone che le abitano.
Ognuno dei personaggi che rilegge gli epitaffi si immedesima nei protagonisti del libro, come se questo parlasse anche delle loro vite.
“All, all are sleeping on the hill”. Il tempo è fermo, si passa di casa in casa a sentire le persone che raccontano la loro storia. L’impressione è che gli abitanti di queste due città d’America siano adagiati nelle loro vite e bloccati come i personaggi di Spoon River. Come è ben noto, la vita nell’America di periferia non è affatto facile e divertente e questa storia è un esempio di cosa significhi vivere isolati e quasi imprigionati in città anche grandi, ma vuote e poco stimolanti.
Una delle abitanti di Lewiston rilegge uno dei versi frasi più emozionanti dell’Antologia: “It takes life to love life”, per dire che serve un certo spirito per amare la vita, pur vivendo lì.
Il testo di Lee Masters è stato scritto nel 1915 e ancora oggi è attuale. George Gray diceva: “Eppure avevo fame di un significato nella vita”, e penso che questo sia un pensiero comune a tutti noi così come ai personaggi del film.
Return to Spoon River by Francesco Conversano and Nene Grignaffini
Article by: Giulia Conte
Translation by: Lorenzo Matarazzo
Nene Grignaffini and Francesco Conversano dedicate a film to the Spoon River Anthology to celebrate the hundred years from the publishing of the famous poetry collection by Edgar Lee Masters. The movie was shot in Lewiston and Petersburg, Illinois, where the current inhabitants of those places read the compositions in their houses’ rooms. Slow pace, even too much sometimes, but a particular idea for sure. 104 minutes of traveling through small towns which tell the tale of the provincial America and the lives of those who live there.
All of the characters who read one of the epitaphs, identify themselves with one of the protagonists from the book, as if the latter were speaking of their lives too.
“All, all, are sleeping on the hill.”
Time is still, and the film moves from house to house, listening to the story of everyone. The feeling is that the inhabitants of the two cities are lazily living their lives, stuck like the Spoon River characters, who, and here lies the difference, were dead. As it is well known, life in suburban America can be many things, except easy and fun. This narration is a clear example of what means living isolated and almost imprisoned in cities, which might be big under the aspect of territorial extension but empty and not interesting on a cultural level.
One of the Lewiston citizens reads one the most touching sentences from the Anthology:
“It takes life to love life”
This to say that a certain kind of spirit is needed to love life, despite living there.
The Spoon River Anthology is a work written in 1915, which is still very contemporary today: George Gray said:
Yet all the while I hungered for meaning in my life.”
And I think that this is a very common thought, shared by anyone of us, just like it is by the characters of the movie.
The work of Grignaffini and Conversano is entirely focused on this aspect, i.e. passing on the hunger for life and the willingness of persons to tell themselves, in order to give life to an film that, although not easy in its comprehension, is moving and makes one think.
Cinque cortometraggi – TFF 2015
In un clima caldo e familiare, la sera di domenica 22, assistiamo alla prima dei cortometraggi di Spazio Torino e la tensione dell’attesa è palpabile. Probabilmente metà del pubblico presente conosce o ha collaborato direttamente alle riprese dei film, tanto che sono seduta a fianco della moglie dell’unico superstite della tragedia raccontata da Neve rosso sangue di Daniel Daquino, Evento Speciale della rassegna. Ambientato a Valmata, in provincia di Cuneo, il film vede protagonisti un gruppo di partigiani che poco prima della fine del secondo conflitto mondiale vengono trucidati dalla Brigata Bassano. Il film rievoca un clima che non è concesso dimenticare.
Brooklyn by John Crowley
Article by: Giulia Conte
Translation by: Rita Pasci
Brooklyn, a drama directed by John Crowley and written by Nick Hornby, based on the novel of the same name by Colm Toìbin. It’s the moving story of Eilis Racey (Saoirse Ronan), a young Irish immigrant who, attracted by the promise of America, departs from Ireland leaving her family and her home to reach the coasts of New York City. The initial chains of homesickness quickly fade away and Eilis lets herself get lost in the intoxicating charm of love. Pretty soon, her liveliness is interrupted by her past, and this young woman will have to make a choice between the two countries and the two lives they involve. Continua la lettura di Brooklyn by John Crowley
“Brooklyn” di John Crowley
Brooklyn :è un film drammatico diretto da John Crowley e sceneggiato da Nick Hornby, basato sull’omonimo romanzo di Colm Toìbin. E’ la storia commovente di Eilis Racey (Saoirse Ronan), una giovane immigrata irlandese che, attirata dalle promesse dell’America, parte dall’Irlanda lasciando la famiglia per New York City. L’iniziale nostalgia di casa diminuisce rapidamente e Eilis si lascia prendere dal fascino inebriante dell’amore. Ben presto la sua vivacità si scontra con il suo passato, e la giovane dovrà scegliere tra i due Paesi e le vite che essi le offrono.
Guldkysten (Gold coast) by Daniel Dencik
Article by: Giulia Tinivella Dettoni
Translation by: Roberto Gelli
Guldkysten (Gold Coast) is a film produced in 2015 by Danish director and writer Daniel Dencik and has been presented within the section Festa Mobile in TFF.
The story takes place in the first half of 19th century. A young and naive Danish botanist leaves for the African colonies in the Gold Coast, in order to check and develop local plantations, and at the same time with the purpose of studying several floral species in those savage places, which are still unknown. Once he reaches the colonies, he is amazed by the enchanted nature of its forests and meets black people, towards whom he feels at the beginning a sense of superiority, soon replaced by the idea that there are no differences between they and him. He witnesses the disgusting behavior of the colony governor and his vices towards local women and men, who have to endure any kind of wickedness and vulgarity. As time goes by, he becomes a visionary: he dreams of a world without slavery, in which he could educate local people, in order to let them progress. But no one is going to support him.
One day he discovers that a rich black merchant traffics in slaves. He furiously decides to intervene and stop that slave trade, which was already forbidden by law, though still practiced. In spite of an illusory victory, where justice, liberty and equality finally seem to prevail, the young botanist soon finds himself alone and ends up being treated in worse conditions than those reserved to the slaves.
The director makes the movie start by showing the final scenes as a prologue: in this way, he wants to give more importance to the set up rather than to the narration. Gold Coast refers to Romanticism, a period when nature was celebrated for its vitality. We see the beautiful landscapes of Ghana (the same ones of Cobra Verde of Herzog), which are the protagonist of the film in some of its parts and represent the adoration of nature. Above all, Daniel is struck by the law regulating this savage nature: mathematical laws, not the traditional ones already known at that time. The spiral figure with its cyclic nature and its repeating is what mostly attracts him. It is part of the story’s architectural structure and works as a message telling us that in a certain way, the world will always come back to its original condition, to be what it was before.
This is a film, which shows the magnificent beauty of African nature but at the same time, it points out the evil of human being, who does not deserve to live in such a perfect world.
“Guldkysten” (“Gold Coast”) di Daniel Dencik
Guldkysten ( Gold Coast), un film del 2015, del regista e scrittore danese Daniel Dencik, è stato presentato nella sezione Festa Mobile del Festival.
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“The Lady in the Van” di Nicholas Hytner
Mary Shepherd (interpretata da una fantastica Maggie Smith) è una vivace donna anziana che vive dentro il suo caro, vecchio e puzzolente furgone. Vaga gironzolando per le strade di Londra in cerca di un posto sicuro dove stare, fino a quando non arriva a Camden Town, un quartiere nel Nord della città. Qui la gente si dimostra subito gentile nei suoi confronti, nonostante l’odore che porta con sé davanti alle loro case.
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