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Riaru Onigokko / Tag by Sion Sono

Article by: Luca Richiardi                                                                                                 Translation by: Cristiana Caffiero

Life is surreal.

There are movies with no soul which just try to step towards any directions without a reason. There are movies that are just empty and dreary. Well, this movie is just their opposite. “Tag” is directed by Sion Sono: it violently breaks in and manages to find a sharp conclusion both in a literal and figurative way. It confuses the feelings and perception of its audience but it doesn’t hide the fact that it has lost the sense of perception itself. This film needs to show its total dismay in order to penetrate the subconscious side of its audience and finally break through its conscious one. However, “Tag” is not addressed to an ordinary audience, for the simple reason that the movie is directed by Sion Sono. It’s a typical Japanese film with its peculiar artistic language which could by perceived as unfamiliar by a western audience, or at least by an audience not acquainted with Japanese pop culture.
This kind of audience might fail to notice the potential for social criticism hidden behind an excess of grotesque violence, which may appear then as empty divertissement: what has been defined, in jargon (particularly in the world of anime, manga and videogames enthusiasts) sa fanservice.
What exactly is fanservice? Excessive and pointless violence, schoolgirls in extra short miniskirts which are constantly lifted, eroticism, promiscuity, reification of the woman.
Tagcontains all these elements. It’s thrown onto the screen in a shameless, exaggerated, intentionally provocative way, as if to ask: “Is this what you want?” As the film unravels, laughing at all this becomes a gesture that makes the spectator feel guilty.
This collage made of absurdities, which people may have fun in, is a heaven for “nerd” teenagers and hides a cruel and dreadful hell. It reveals itself step by step, while we follow the young female protagonist Mitsuko in her absurd suffering.
Among all this violence, torture and death, her loss of identity is what mostly harms. It makes her appear to be an empty box or a mannequin identical to many others. She looks as a figure, whose not uniform nature may be compared to that of Jesus and therefore doomed to sacrifice. It is a kind of essential sacrifice, a spontaneous gesture which gets away from this torture pattern felt as a function of a sadistic pleasure. And it takes place exactly in front of a parody which blames and despises these masses of obsessive fans.
What is such a heroic sacrifice aimed at? It is understood, its aim matches the film’s one: a sabotage internal to the system so that it can penetrate deeper and, hopefully, it can be able to reach and consequently wake up consciences, in order to take them away from this grotesque circle of hell.

 

“Shinjuku Suwan” (“Shinjuku Swan”) di Sion Sono

Nell’universo manga ed anime vi sono molti generi.

Lo shonen, ovverosia il genere d’azione e combattimento dedicato ad un pubblico di adolescenti e giovani adulti, è sicuramente tra i più popolari, nonché probabilmente il più noto al di fuori del Giappone. DragonBall, One Piece, Naruto, sono alcune fra le serie più famose nel genere, viste da milioni di ragazzi in Italia come in tutto il mondo; sono opere profondamente legate a cliché (le cui radici talvolta affondano nella mitologia orientale), percorse da personaggi caratteristici e sorrette da strutture narrative spesso prevedibili nel loro sviluppo.

Shinjuku Swan è l’adattamento di uno di questi manga shonen, girato da Sion Sono nel suo impegnatissimo 2015 (ben cinque film in uscita). Ed è un adattamento che non stravolge queste strutture e cliché, ma li adegua ai tempi cinematografici e alle necessità legate al trasferimento dell’azione tipica di fumetti e di film d’animazione in un film live-action. L’obiettivo di Sion Sono è evidentemente quello di soddisfare tanto il pubblico affezionato all’opera originale quanto i neofiti o coloro che sono interessati solamente al film in sé. L’operazione è delicata, ma la mano del regista è sapiente e rispettosa, e l’operazione si può considerare un successo.

Nel protagonista Tatsuhiko ritroviamo, secondo uno dei cliché più noti del genere, un personaggio già visto mille volte: un bonaccione, uno scapestrato dal cuore d’oro violento con i prepotenti, gentile con i deboli. Insomma un Goku, un Luffy o un Naruto, per ricollegarci ai manga più noti. La novità sta nel microcosmo in cui questo personaggio è calato, che è tutt’altro che mitico e fantastico: si tratta del quartiere di Tokyo dei locali a luci rosse e del gioco d’azzardo Shinjuku, dove l’eroe è un ragazzo di strada senza un mestiere che viene casualmente reclutato da una agenzia di scouting per prostitute.

Ma in realtà anche questo microcosmo non si sottrae alle regole caratteristiche del genere: i pestaggi frequentissimi lasciano ben poche tracce sull’eroe e sui suoi amici, un po’ gangsters papponi e un po’ monaci zen indifferenti al dolore (persino una palla da bowling in faccia guarisce con un paio di cerotti). Personaggi larger than life sono inseriti in strutture gerarchiche ben definite che ci danno immediatamente un’idea delle loro capacità e restituiscono una narrazione semplice da interpretare, immediatamente soddisfacente soprattutto per un giovane spettatore.

I meccanismi della storia sono, quindi, quelli noti, ben oliati e perfettamente funzionanti, e per chi li conosce ed apprezza la soddisfazione sta nel vederli girare con estrema precisione e sicurezza, lasciandoci totalmente liberi di apprezzare la bellezza nascosta in ogni dettaglio: nelle coreografie dei combattimenti, nei costumi, nella scenografia, nei dialoghi misuratamente esagerati, nelle gag da puro slapstick.

Da lodare, infine, l’estrema parsimonia nell’uso di CGI (Computer-Generated Imagery), uno strumento spesso abusato nel genere dei cinecomics, a discapito del realismo e della sensazione di solidità dei corpi; in Shinjuku Swan ogni corpo è palpabile, ogni pugno è percepibile, ogni gemito di sofferenza dei personaggi viene rispettato e valorizzato, per la soddisfazione ed il divertimento dello spettatore.