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“DREAMLAND” DI BRUCE MCDONALD

L’ultimo film di Bruce McDonald rispecchia perfettamente il suo titolo, Dreamland, dal momento che è costruito sulle regole e sulla logica tipica delle situazioni oniriche. Fin da subito ci si immerge in un sogno ad occhi aperti in cui i due personaggi principali si trovano coinvolti in una vicenda criminale. Il gangster dal cuore d’oro e il musicista jazz eroinomane, ambedue interpretati dal versatile Stephen McHattie, condividono inoltre una profonda connessione che porta entrambi ad avere visioni di un probabile futuro o di un passato remoto che chiaramente li riguarda. La vicenda diventa man mano sempre più complessa e intricata, arricchendosi di personaggi così spietati e grotteschi da risultare quasi comici.

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“DREAMLAND” BY BRUCE MCDONALD

Article by: Chiara Perillo
Translated by: Anna Benedetto

The title Dreamland perfectly captures the essence of Bruce McDonald’s latest film, as it revolves around the fundamentals and the basic logic of the dream world. From the very first scenes, the audience gets lost in a daydream in which the two main characters end up being caught in criminal activities. A kind-hearted hitman and a drug-addicted jazz musician, both played by the talented Stephen McHattie, have also a strong connection that causes them visions of their possible future  or a remote past that involves them both. The plot becomes more and more complex as the film goes on, introducing a variety of stone-cold and grotesque characters that results comical at times.

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“GREENER GRASS” BY JOCELYN DEBOER AND DAWN LUEBBE

Article by: Noemi Castelvetro
Translated by: Francesca Massa

Jill (Jocelyn DeBoer) and Lisa (Dawn Luebbe), hectic mothers, trophy wives and frenemies, live in a small, thoroughly organized residential district, with disgusting pastel colors, where people go around with golf carts. Jill is a people pleaser, and she decides to give her newborn to Lisa, whom accepts: the people around the two women smoothly approve this exchange, and surreal events full of symbolic elements increase. 

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“GREENER GRASS” DI JOCELYN DEBOER E DAWN LUEBBE

Jill (Jocelyn DeBoer) e Lisa (Dawn Luebbe), madri frenetiche, casalinghe mantenute e migliori nemiche, vivono in una piccola città residenziale maniacalmente organizzata, dai nauseanti colori pastello, dove la gente va in giro in golf cart. Jill ha uno strano bisogno di compiacere le persone, a tal punto da offrire impulsivamente il proprio neonato a Lisa, che lo accetta: questo episodio, considerato come perfettamente normale da tutti coloro che vorticano attorno alla vita delle due donne, apre la strada a eventi sempre più surreali, in cui è possibile riconoscere, attraverso un occhio più analitico, alti contenuti simbolici.

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“NE CROYEZ SURTOUT PAS QUE JE HURLE” BY FRANK BEAUVAIS – “SIX PORTRAITS OF PAIN” BY TERESA VILLAVERDE

Article by: Noemi Castelvetro
Translated by: Anna Benedetto

A diaristic voiceover adornes a steady stream of moving images: Ne croyez surtout pas que je hurle, in English “Just don’t think I’ll scream”, belongs to the cinematic trend of “spoken” films, in which the writer-director combines powerful images with meaningful words. Switching between personal stories and digressions, the director reveals some autobiographical events and private thoughts that led him to an almost self-destructive “addiction to cinema” from April to October 2016. During this short amount of time, he watched nearly 400 films, whose brief clips pieced together form the unique visual feature of the movie.

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“NE CROYEZ SURTOUT PAS QUE JE HURLE” DI FRANK BEAUVAIS – “SIX PORTRAITS OF PAIN” DI TERESA VILLAVERDE

Un flusso continuo di immagini in movimento scandito da un monologo diaristico in voce fuori campo: Ne croyez surtout pas que je hurle, in italiano “Non pensare che io stia urlando”, aderisce alla tendenza cinematografica delle opere “parlate”, in cui i registi-scrittori controbilanciano l’onnipotenza delle immagini con il significato delle parole. Alternando la narrazione di vicende intime e digressioni, il regista stesso confida allo spettatore la personale successione di eventi e di pensieri che, dall’aprile all’ottobre 2016, lo hanno condotto allo sviluppo di una “dipendenza cinematografica” quasi autodistruttiva: in questo breve periodo di tempo egli ha infatti visionato quasi 400 film. Opere cui Beauvais rende un sentito omaggio utilizzandone i frammenti come unica componente visiva del suo film .

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“THE BAREFOOT EMPEROR” DI JESSICA WOODWORTH E PETER BROSENS

Dopo King of the Belgians (2016), re Nicolas III (Peter Van den Begin) torna in un sequel non convenzionale diretto da Jessica Woodworth e Peter Brosens, che tornano a parlare della crisi di identità europea e a fare satira sui poteri forti in The Barefoot Emperor. Il sovrano che aveva attraversato l’Europa per cercare di tornare nel suo Belgio, scisso dopo un colpo di stato da parte dai valloni, ora deve confrontarsi con un nuovo surreale spettro: lo scioglimento del parlamento europeo e l’incoronazione di un imperatore della Nova Europa. 

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“THE BAREFOOT EMPEROR” BY JESSICA WOODWORTH AND PETER BROSENS

Article by: Arianna Vietina
Translated by: Gabriele Cepollina

After King of the Belgians (2016), King Nicholas III (played by Peter Van den Begin) is back with an unconventional sequel directed by Jessica Woodworth and Peter Brosens, The Barefoot Emperor, which depicts the crisis of identity in Europe and satirizes the major powers. The sovereign, who had crossed Europe in order to go back to Belgium, split by a coup d’état carried out by the Walloons, now has to face a new surreal threat: the disbandment of the European Parliament and the crowning of an emperor of Nova Europa.

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“MARCHE OU CRÈVE” DI MARGAUX BONHOMME

“Cammina o muori”: così possiamo tradurre il titolo del film di Margaux Bonhomme, in concorso nella sezione principale alla 36^ edizione del Torino Film Festival. Un titolo che sintetizza una situazione di crisi costante. Marche ou crève ci immerge infatti con violenza e senza retorica alcuna nell’estenuante quotidianità di una famiglia segnata dalla presenza di una figlia disabile.

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“SANTIAGO, ITALIA” DI NANNI MORETTI

La storia si costruisce attraverso le persone. Gli occhi, i volti e i racconti consentono, spesso più di ogni altro fattore, di avvicinarsi empaticamente a una causa, di abbracciarla o quantomeno di comprenderne la profondità. Santiago, Italia, il nuovo documentario di Nanni Moretti presentato come film di chiusura al 36º Torino Film Festival, è un risuonare di voci che, attraverso il montaggio, ricostruiscono un episodio storico, trasportando lo spettatore dal dolore a una sorta di amore compassionevole.

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“OIKTOS” BY BABIS MAKRIDIS

Article by: Cristian Viteritti

Translation by: Silvia Fontana

People respond in different ways to accidents, tragedies or griefs: those who directly experiences them are immerged in contrasting feelings of denial and anger, which gradually transform into acceptance. Whereas those who are not affected by pain try to support the former, showing compassion and trying to lighten the pain of those who suffer.

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“OIKTOS” DI BABIS MAKRIDIS

Le persone reagiscono in modi diversi a incidenti, tragedie e lutti: chi li vive in prima persona è immerso in contrastanti sentimenti di negazione e di rabbia, destinati a trasformarsi gradualmente in accettazione. Gli altri, quelli che non sono colpiti dal dolore, cercano invece di supportare i primi, mostrando compassione, cercando di alleggerire la pena di chi soffre. Continua la lettura di “OIKTOS” DI BABIS MAKRIDIS

“L’OSPITE” DI DUCCIO CHIARINI

Verte sulla precarietà questo “romanzo di formazione fuori tempo massimo”, come l’ha definito il regista stesso, che indaga il dissidio tra età biologica e psicologica. Duccio Chiarini arriva a Torino con il suo secondo film, L’ospite, compreso tra i titoli della sezione Festa Mobile del Torino Film Festival e accolto con calore dal pubblico in sala.

Un racconto equilibrato che mescola sapientemente ironia e dramma mostrando il “viaggio” di Guido, ricercatore universitario sulla soglia dei quaranta costretto a ricomporre i pezzi della propria esistenza dopo una relazione fallita.

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“WILDLIFE” BY PAUL DANO

Article by: Giorgia Bertino

Translation by: Cecilia Facchin

Some people may remember him as the quiet and peevish guy hidden by his long black hair in Little Miss Sunshine, or as a writer on the verge of a crisis who falls in love with one of his characters in Ruby Sparks; for all the film-lovers, he is also an actor pushed down by the weight of a career born and dead in blockbusters in Youth, and, for the most curious ones, he is the best friend of a zombie with superpowers in the eccentric Swiss Army Man. It goes without saying: Paul Dano acted in many movies, working with directors such as Paul Thomas Anderson, Ang Lee, Steve McQueen, Paolo Sorrentino and Denis Villeneuve. It is important to keep that in mind if you are watching the first film directed by this 34-year-old man, who decided to take on the challenge of filmmaking after many years of acting at high levels.

Wildlife – one of the nominees for the TFF36 contest – tells the slow and transparent story of the implosion of a family which moves to Montana.

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“WILDLIFE” di PAUL DANO

C’è chi se lo ricorda silenzioso e imbronciato, nascosto dietro un folto ciuffo di capelli neri in Little Miss Sunshine, o nei panni di uno scrittore in crisi che s’innamora di uno dei suoi personaggi in Ruby Sparks; per i più cinefili, è anche un attore soffocato dal peso di una carriera nata e finita nei blockbuster in Youth – La giovinezza e, per i più curiosi, il migliore amico di un cadavere con i super poteri nell’eccentrico Swiss Army Man. Insomma, di film Paul Dano ne ha fatti parecchi, lavorando con registi del calibro di Paul Thomas Anderson, Ang Lee, Steve McQueen, Paolo Sorrentino, Denis Villeneuve. Ed è importante tenerne conto se si ha davanti l’opera prima di un trentaquattrenne che, dopo anni di recitazione di un certo livello, decide di misurarsi con la regia.

Wildlife – in concorso al TFF36 – è il racconto lento e trasparente dell’implosione di una famiglia americana trasferitasi in Montana.

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“LAND” BY BABAK JALALI

 

Article by: Annagiulia Zoccarato

Translation by: Emiliana Freiria

 

The contemporary history of Native Americans is sad and scarcely talked about, but the Torino Film Festival seems to hold those who tell it in high regard. After Avant les rues, competing in Torino 34, and the excellent Wind River by Taylor Sheridan, previewed last year, the next one is Land by the Iranian film director Babak Jalali, made with the support of Torino Film Lab.

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“LAND” di BABAK JALALI

La storia contemporanea dei nativi americani è una storia triste di cui si parla poco, ma il Torino Film Festival sembra in un certo senso avere un occhio di riguardo per chi la racconta. Dopo Avants les rues in concorso a Torino 34 e l’ottimo Wind River di Taylor Sheridan presentato in anteprima lo scorso anno, adesso tocca a Land dell’iraniano Babak Jalali, realizzato con il sostegno di Torino Film Lab.

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“IMPETUS” BY JENNIFER ALLEYN

Article by: Cristian Viteritti

Translated by: Giulia Maiorana

Impetus by Jennifer Alleyn is a hybrid film which combines typical expressive forms of documentary films, such as interviews, with fictional ways of narrating. The final product is a film full of storylines and timeframes that lead to a reflection on action and movement’s relevance and strength.

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“IMPETUS” DI JENNIFER ALLEYN

Impetus di Jennifer Alleyn è un film ibrido, che mescola alcune delle tipiche modalità espressive del documentario, come l’intervista, con i mezzi narrativi delle opere di finzione.  Il prodotto finale è un film ricco di intrecci e di linee temporali che terminano in una riflessione sull’importanza e la potenza del movimento, dell’azione.

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“Lace Crater” di Harrison Atkins

A 22 anni Harrison Atkins dirige il suo primo lungometraggio, non nascondendo di aver tratto ispirazione dal film Begotten di Edmund Elias Merhige, dove i personaggi sono tutti incappucciati o in costume, non parlano mai né fanno capire alcunché di sé stessi, un po’ come il fantasma del film di Atkins.

Proprio per quanto riguarda il il fantasma, il regista rivela di aver scelto questo tipo di costume creato con sacchi di iuta, proprio per allontanare il personaggio dai soliti cliché riguardanti gli spettri. Inoltre dichiara di aver preso a modello le maschere del teatro kabuki, anche se difficilmente si trovano congruenze tra il film e il suddetto teatro giapponese.

Per quanto concerne la protagonista, la sua seconda vita su un gioco di realtà virtuale viene spiegata dalla relazione con l’alienazione postmoderna generata dai social media, dove nonostante la morte, l’account continua ad esistere.

I tratti stilistici dell’horror soprannaturale si mescolano con sfumature melodrammatiche che in alcuni casi spiazzano lo spettatore, come si nota nelle prime fasi dell’incontro fra Ruth ed il fantasma, dove la protagonista quasi psicoanalizza il suo interlocutore. Tutto ciò ammorbidisce la tensione del film nei momenti più intensi.

La colonna sonora è composta prevalentemente da musica elettronica combinata in alcuni casi a effetti rallenty in altri a fasi spaesanti con immagini che tendono allo psichedelico. Atkins rivela che queste immagini sono frutto del caso, in quanto in postproduzione copiando i file su hard disk, accidentalmente si scollegò il cavo, creando questo effetto che poi il regista ha voluto lasciare, per sottolineare lo stato di alienazione e le fasi di malattia che la protagonista Ruth vive in scena.

Per concludere, vi invito caldamente a tenere d’occhio questo regista che al suo esordio nonostante la giovane età, è riuscito a portare al Torino Film Festival un ottimo film e a stupire.