The second feature film by Quebecois director Chloé Leriche, Soleils Atikamekw (Atikamekw Suns) portrays the profound intergenerational pain of the Atikamekw community in Manawan, Quebec. The film’s delicate aesthetics and careful formal work are not intended to sugarcoat the film, but rather to testify the strength and beauty of a community that, though destroyed, attempts to rebuild its memory.
Secondo lungometraggio della regista quebecchese Chloé Leriche, Soleils Atikamekw ritrae il profondo dolore intergenerazionale della comunità Atikamekw di Manawan, Québec. La delicatezza estetica e l’accurato lavoro formale del film non sono volti a indorare la pillola, bensì a testimoniare la forza e la bellezza di una comunità che, seppur distrutta, tenta di ricostruire la propria memoria.
Lydia (Hafsia Herzi) and Salomé’s lives are intricately and specularly linked: if one of them is happy, the other one suffers and viceversa. Therefore, on the same day that Salomé celebrates her birthday and her newly discovered pregnancy, Lydia mourns the end of her relationship with her boyfriend, letting herself go to a lonely and alienated autumnal Paris that resembles Taxi Driver’s (1976) New York. However, when Salomé gives birth, Lydia runs into Milos (Alexis Manenti) – an insomniac bus driver that impersonates De Niro’s Travis Bickle and with whom Lydia previously had a fling –and realizes that the newborn represents a desperate attempt for her to finally feel loved.
Le vite di Lydia (Hafsia Herzi) e Salomé (Nina Meurisse) sono legate tra loro in modo speculare: quando una è felice l’altra soffre e viceversa. Così, lo stesso giorno in cui Salomè festeggia il proprio compleanno e l’appena scoperta gravidanza, Lydia piange la fine della relazione con il suo fidanzato, abbandonandosi a una solitaria e alienata Parigi autunnale che sembra la New York di Taxi Driver (1976). Quando Salomè partorisce, però, Lydia rincontra per caso Milos (Alexis Manenti) – insonne conducente di autobus che fa il verso al Travis Bickle di De Niro e con cui Lydia ha precedentemente avuto un’avventura – e si rende conto che la neonata rappresenta per lei il disperato tentativo per potersi finalmente sentire amata.
The “minestrone” (“melting pot”), which Steve Della Casa has mentioned many times on his last year in office before passing over the direction to Giulio Base, doesn’t refer to one of the titles of the retrospective section dedicated to Sergio Citti, rather to the result of the selection made by the manager and his staff. It’s not a miscellany that risks displeasing anyone, but a compact and consistent organism, composed of films and different activities – masterclasses, unscheduled events, talk shows and conferences – which dialogues with each other because of both affinity and opposition, always having filmmaking as their only essential reference.
Il “minestrone” che Steve Della Casa – all’ultimo anno di mandato prima di lasciare la direzione a Giulio Base – ha più volte citato non si riferisce a uno dei titoli che compongono la retrospettiva dedicata a Sergio Citti, bensì al risultato della selezione attuata dal direttore insieme ai suoi collaboratori. Non una miscellanea che rischierebbe di scontentare chiunque, ma un organismo compatto e omogeneo, composto da film e diverse attività – masterclass, eventi fuori programma, talk e convegni – che risuonano l’un l’altro sia per affinità che per opposizione, avendo sempre come unico indispensabile referente il cinema.
L’esordio alla regia di Laura Baumeister, in concorso alla 40esima edizione del Torino Film Festival, narra una storia crudele e dolorosa, in grado di unificare l’oppressione di cui è vittima il suo paese d’origine, il Nicaragua, con i soprusi ai quali la piccola Maria (l’energica e pensierosa Ara Alejandra Medal) è costretta a sottostare.
Con molta delicatezza, Nikola Spasic ci racconta una storia in perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Un racconto per immagini iniziato sei anni fa con l’obiettivo di realizzare un’opera il cui centro narrativo fosse un soggetto forte. La protagonista di questa storia, Kristina, è una donna transgender che colleziona oggetti di antiquariato, ama i gatti e vive in una casa dal design ricercato ed elegante. Un ambiente, questo, completamente in contrasto con il suo lavoro. La donna, infatti, è una sex worker ma la sua professione non è il fulcro di ciò che vediamo sullo schermo. Quella che ci viene mostrata è una quotidianità perfettamente scandita e organizzata che pare quasi disturbata dagli incontri con i clienti. E ciò che rende più significativo e interessante il film di Spasic è il fatto che Kristina non sia un personaggio recitato da un’attrice professionista, bensì una persona reale alla quale il regista e la sceneggiatrice si sono voluti ispirare per costruire il film.
A differenza di ciò che ci si potrebbe aspettare, il sesso è un elemento esterno al film, sostituito dalla grande fede e spiritualità di Kristina. Molto significativo è l’incontro con Marko, un ragazzo conosciuto per caso e nel quale la protagonista continuerà a imbattersi ripetutamente, al punto da indurla a domandarsi se la presenza dell’uomo sia reale o il frutto della sua immaginazione. Durante un appuntamento i due hanno un dialogo intenso che li porta a confidarsi l’uno con l’altra e a parlare della loro fede. E con un gioco di campo-controcampo che, durante la scena, non li inquadra mai insieme, anche nello spettatore comincia a sorgere il dubbio sull’effettiva esistenza di Marko.
Kristina si rivela il luogo d’incontro tra la messa in scena e l’autenticità umana. Un omaggio a una vita “diversa” che trova la sua massima espressione nella scena finale, quando lo spettatore si trova a riflettere mettendo inevitabilmente in discussione anche sé stesso. Attraverso lo sguardo creativo del regista, Kristina diventa una persona alla quale è stata restituita appieno la propria dignità.
Gaia Verrone
Articolo uscito su «la Repubblica» il 2 dicembre 2022
Antonio, Abder, Bartek, Boubacar e Dorin sono i protagonisti del nuovo documentario di Cosimo Terlizzi che, attraverso un collage di vecchi filmati amatoriali, ci restituisce un frammento dell’intimità e della vita dei cinque attori. Un’opera intima che testimonia ciò che accade lontano dal palcoscenico e dai riflettori, rappresentando la vita dell’attore nel momento in cui non sta più mettendo in scena la sua arte.
“Non sono bravo a filmare e ancora meno a parlare davanti all’obiettivo, ma ho deciso di fare un diario della tournée per registrare i sentimenti e i dubbi al di là della scena”, queste sono le prime parole dette in camera da Antonio quando, nel 2008, decidee di filmare i suoi compagni di scena durante la tournée del loro spettacolo, Cinq Hommes, immortalando viaggi in treno, passeggiate notturne e, soprattutto, i momenti condivisi nel camerino e dietro le quinte. Nel corso documentario siamo accompagnati dalla voce in voice over di Antonio che ci narra ciò che stiamo vedendo, trasportandoci all’interno delle immagini.
Quello realizzato da Terlizzi, in soli 62 minuti, è un omaggio alla figura dell’attore, mai disgiunta però dalla sua condizione di uomo. Questo consente allo spettatore di entrare in punta di piedi nel camerino e di osservare la gioia, la soddisfazione, la delusione e la frustrazione che i cinque uomini hanno vissuto insieme. La scelta di lasciare riprese e sonoro al loro stato amatoriale è in grado di donare al girato un valore aggiuntivo, trasmettendo in chi guarda quella nostalgia che si prova nel rivedere immagini del passato.
Protagonista indiscusso del documentario, però, è il camerino. Un luogo di passaggio, fisico ma immateriale. Un “non luogo” all’interno del quale tutto si muove nell’ombra e nel silenzio. Lo spettatore viene così invitato in quello spazio del quale conosce l’esistenza ma che, allo stesso tempo, gli è sconosciuto. Un luogo privato, che esclude lo sguardo esterno nel quale siamo invitati a entrare solo grazie all’obiettivo di Antonio.
“Nothing can go back / to when the sea was calm” plays Conchiglie, the second song by Andrea Laszlo de Simone to take centre stage in a film at the 40 th Turin Film Festival, after Immensità heard in Bertrand Bonello’s Coma. The life of the young high school student Lucas is shaken by the sudden death of his father (played by Honoré himself), which unleashes a shockwave capable of straining the family’s resilience and bringing to the surface long-suppressed grey areas.
What Ery Claver tries to tell metaphorically with Our Lady of The Chinese Shop is the exploitation of Angola. After Portuguese colonialism, the country became the target of the economic interests of China, which has recently invested in several African countries to profit from the enormous mineral and natural resources.
In a poor neighbourhood of Luanda, during the Covid-19 pandemic, hopes and fears are projected in plastic icons of Our Lady sold in a small Chinese shop. The owner, Zhang Wei (Meili Li), punctuates the timing of the story and his voice, in a mysterious and poetic tone, offers the viewer a further interpretation of what is shown by the camera. He, the omniscient narrator, sees and knows everything about the stories that intertwine in the film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumed by grief at the loss of her daughter, and Zoyo (Willi Ribeiro) in search of a missing friend. Their repressed resentment is reflected in the restless movements of the camera, which does not stop even in the most static scenes. The two characters metaphorically represent the country’s feelings of revenge against its rulers. If the old Portuguese colonisation is represented by the strong presence and importance of the Catholic religion in the community, Chinese economic dominance is shown through the bright neon signs of Xiaomi, a smartphone company.
The society represented by Ery Claver seems desperate for guidance. Religion has nothing to offer but plastic figures, while politics and its decadence are represented by a surreal and parodistic meeting of the Chinese Communist Party, staged in a city arena that was never completed and is now in ruins. The only way, the director suggests, is that of rebellion. Zoyo, in an act of desperation, destroys the Chinese shop and its icons, while Domingas finds her emancipation in revenge on her abusive husband responsible for the death of her daughter. The discourse brought forward by Ery Claver, through allegories and shots with a strong symbolic charge, takes on a universal character of protest against the new and silent forms of exploitation and colonialism perpetrated in poor countries throughout the world.
Quello che Ery Claver cerca di raccontare metaforicamente con Our Lady of The Chinese Shop è lo sfruttamento dell’Angola. Dopo il colonialismo portoghese il paese è diventato obiettivo degli interessi economici della Cina, che recentemente ha investito in diversi paesi africani per trarre profitti dalle enormi risorse minerarie e naturali.
In un quartiere povero di Luanda, durante la pandemia di Covid-19, speranze e paure sono proiettate in icone di plastica della Madonna vendute in un piccolo negozio cinese. Il proprietario, Zhang Wei (Meili Li), scandisce i tempi del racconto e la sua voce, con tono misterioso e poetico, offre allo spettatore un’ulteriore interpretazione di ciò che viene mostrato dalla macchina da presa. Egli, narratore onnisciente, vede e conosce tutto delle storie che si intrecciano nel film: Domingas (Cláudia Púcuta), consumata dal dolore per la perdita della figlia, e Zoyo (Willi Ribeiro) alla ricerca di un amico scomparso. Il loro risentimento represso si rispecchia nei movimenti irrequieti della macchina da presa che non si ferma neanche nelle scene più statiche. I due personaggi rappresentano metaforicamente i sentimenti di rivalsa del paese nei confronti dei suoi dominatori. Se l’antica colonizzazione portoghese è rappresentata dalla forte presenza e importanza della religione cattolica nella comunità, il predominio economico cinese viene mostrato attraverso le luminose insegne al neon della Xiaomi, azienda produttrice di smartphone.
La società rappresentata da Ery Claver sembra alla disperata ricerca di una guida. La religione non ha altro da offrire che figure di plastica, mentre la politica e la sua decadenza vengono rappresentate da una surreale e parodistica riunione del partito comunista cinese, messa in scena in un’arena cittadina mai completata e ormai in rovina. L’unica via, suggerisce il regista, è quella della ribellione. Zoyo, infattti, in un atto di disperazione distrugge il negozio cinese e le sue icone, mentre Domingas trova la sua emancipazione nella vendetta sul marito violento e responsabile della morte della figlia. Il discorso portato avanti da Ery Claver, attraverso allegorie e inquadrature dalla forte carica simbolica, assume un carattere universale di protesta contro le nuove e silenziose forme di sfruttamento e colonialismo perpetrate nei paesi poveri di tutto il mondo.
Memories of a distant past that gradually fades in time often remain linked to an ideal world reworked by our minds to preserve emotions, sensations, fleeting instants of our existence in which we have, even for an instant, savoured flashes of true happiness. Manodopera recounts the world evoked by the sweet and nostalgic words of a grandmother, restoring the memory of a bygone era, made up of sacrifices and carefreeness, suffering and love.
The location, recreated in stop-motion, is a small mountain village at the foot of Monviso. It is called Borgata Ughettera and recalls the director Alain Ughetto’s Piedmontese origins. The film comes to life through the words of Cesira, his grandmother, who thinks back to her youth towards the end of the 19th century. Starting from some fundamental events, she thus gives rise to a reality suspended in time that is emphasised by the fragile malleability of the plasticine with which the characters are made of.
Between cardboard houses and bizarre broccoli trees, the objects somehow represent an indispensable aspect of the story; tangible elements whose purpose is to bring the sweetness of a memory closer to the purity of nature. The simplicity of the poor peasant world, the meeting with her future husband Luigi, the difficult periods of war and the need to emigrate to France in order to work and survive: these are the episodes that characterise Cesira’s past and that she describes to her nephew, in a surreal and poetic exchange between the animated universe and the real presence of the director on stage.
What Ughetto wanted to tell is not only the story of his origins, but also the story of all immigrants, wherever they come from in the world. A story of hard work, of adaptation, of gazes that lacerate the soul and leave irremediable wounds. This is why certain stereotypes in the film take on a different meaning, as if they were the images perceived by those who feel invaded and – not knowing other cultures and not understanding the languages spoken by migrants – judge those from other countries as inferior. As the original title makes clear: “forbidden to dogs and Italians”, a dramatic situation that our families have had to live with in the past and that is being played out again today, this time through the eyes of the viewer.
I ricordi di un passato lontano che progressivamente svanisce nel tempo rimangono spesso legati a un mondo ideale rielaborato dalla nostra mente per preservare emozioni, sensazioni, fugaci istanti della nostra esistenza in cui abbiamo, anche solo per un istante, assaporato sprazzi di vera felicità. Manodopera racconta il mondo rievocato dalle dolci e nostalgiche parole di una nonna, restituendo la memoria di un’epoca passata, costituita tra sacrifici e spensieratezza, sofferenza e amore.
Il luogo, ricreato in stop motion, è un piccolo paesino di montagna situato ai piedi del Monviso che prende il nome di Borgata Ughettera e richiama le origini piemontesi del regista Alain Ughetto. Il film prende vita attraverso le parole di Cesira, sua nonna, che ripensa alla sua gioventù verso la fine del diciannovesimo secolo. Partendo da alcuni fondamentali avvenimenti, dà così origine a una realtà sospesa nel tempo che la fragile malleabilità della plastilina con la quale sono realizzati i personaggi enfatizza.
Tra case di cartone e bizzarri alberi di broccoli, gli oggetti utilizzati rappresentano in qualche modo un aspetto indispensabile per la storia; elementi tangibili, il cui scopo è quello di avvicinare la dolcezza di un ricordo alla purezza della natura. La semplicità del povero mondo contadino, l’incontro con il futuro marito Luigi, i difficili periodi di guerra e la necessità di emigrare in Francia per poter lavorare e sopravvivere: sono gli episodi che caratterizzano il passato di Cesira e che lei stessa descrive al nipote, in un surreale e poetico scambio tra l’universo animato e la presenza reale del regista sulla scena.
Ciò che Ughetto voleva raccontare non è soltanto la storia delle sue origini, ma anche quella di tutti gli immigrati, da qualsiasi parte del mondo essi provengano. Una storia fatta di fatica, di adattamento, di sguardi che lacerano l’anima e lasciano ferite insanabili. Per questo, alcuni stereotipi presenti nel film assumono un significato diverso, come se fossero le immagini percepite da chi si sente invaso e – non conoscendo le altre culture e non capendo le lingue parlate dai migranti – giudica inferiore chi viene da altri paesi. Come il titolo originale ben evidenzia: “vietato ai cani e agli italiani”, una situazione drammatica in cui in passato le nostre famiglie hanno dovuto convivere e che oggigiorno si ripropone nuovamente, rendendoci stavolta partecipi attraverso gli occhi di chi osserva.
According to Mesopotamian mythology, the female demon Lamashtu was a devilish creature bringer of nightmares and diseases, who haunted unborn children by brutally ripping them out of their mother’s womb to feed on their blood. Venus, the latest feature by Jaume Balagueró, begins with a terrifying apocalyptic premonition: the reincarnation of the demonic figure is imminent and her coming will bring chaos and pain throughout the planet.
At the centre of the narrative is young Lucía, a dancer in an infamous nightclub run by a group of comically stereotyped criminals. One night, after stealing a big drug shipment from the gangsters, she miraculously manages to find shelter at her sister Rocío’s house, located in a building called Venus, in the decaying outskirts of Madrid. Venus – hence the title of the film – is a gloomy and mysterious place, home to dark presences that have been haunting the unfortunate residents for decades.
Loosely based on H. P. Lovecraft’s short story The Dreams in the Witch House, skilfully reworked by the Spanish director into a “horror story” with strong authorial connotations, Venus recalls in its structure the previous film, Muse, in which the paranormal subtly hovers against the background of an ordinary criminal investigation. Also in this case, the film crawls sinuously through the meanders of genre cinema, combining effectively sci-fi horror with gangster film, without ever becoming trivial or repetitive. Moreover, the caricatural element is intentionally emphasised, continuing the specific project on the grotesque that characterises the entire work of Balagueró.
This is definitely not the Spanish director’s masterpiece, however his ability to direct female figures is confirmed as excellent. In Venus, clearly inspired by Dario Argento’s characters, Lucía moves in a suffocating atmosphere, halfway between the nightmares caused by the demon and the oppressive reality of the daily life that the young woman must constantly face. For her, the building takes on a clear, although paradoxical, ambivalence: it is a prison that holds back her desire to dance, restricting her in a forced immobility caused by fear; but it is also a safe haven, a solid shelter to escape the demons that await her outside, the true nightmare of real life.
Secondo la mitologia mesopotamica, il demone femminile Lamashtu era una creatura diabolica portatrice di incubi e malattie, che prediligeva perseguitare i nascituri strappandoli con prepotenza dal ventre materno per nutrirsi del loro sangue. Venus, l’ultimo lungometraggio di Jaume Balagueró, inizia con un’agghiacciante premonizione apocalittica: la reincarnazione della figura demoniaca è ormai imminente e il suo avvento porterà caos e dolore in tutto il pianeta.
Al centro della narrazione troviamo la giovane Lucía, ballerina di un malfamato night club gestito da un gruppo di criminali comicamente stereotipati. Una notte, dopo aver rubato ai malavitosi un importante carico di droga, riesce miracolosamente a trovare riparo a casa della sorella Rocío, situata in un edificio denominato Venus nella decadente periferia di Madrid. Venus – da cui il titolo del film – è un luogo lugubre e misterioso, dimora di oscure presenze che da decenni affliggono i malcapitati inquilini del luogo.
Liberamente tratto dal racconto di H. P. Lovecraft, I sogni nella casa stregata, che il regista spagnolo rielabora abilmente in una “horror story” dai forti connotati autoriali, Venus ricorda per struttura il film precedente, La Settima Musa, in cui il paranormale aleggiava impercettibile sullo sfondo di una comune indagine investigativa. Anche in questo caso il film serpeggia sinuosamente tra i meandri del cinema di genere, amalgamando con efficacia l’horror fantascientifico e il gangster movie, senza mai risultare banale o ripetitivo. La componente caricaturale, inoltre, è consapevolmente enfatizzata continuando quel particolare lavoro sul grottesco che contraddistingue tutta l’opera di Balagueró.
Non si tratta certamente del lavoro migliore del regista spagnolo, eppure la sua capacità di dirigere le figure femminili si conferma eccellente. Caratterizzata da un’evidente ispirazione argentiana, la Lucía di Venus si muove in un’atmosfera soffocante, a metà tra gli incubi provocati dal demone e l’opprimente realtà della vita quotidiana che la giovane deve costantemente affrontare. Per lei l’edificio assume una chiara, seppur paradossale, ambivalenza: è una prigione, che limita la sua voglia di ballare imponendole una staticità obbligatoria attraverso la paura; ma è anche una zona sicura, un solido riparo per sfuggire ai demoni che l’attendono all’esterno, pronti a sfruttarla e gettarla via come spazzatura. Nonostante la presenza incombente di creature sovrannaturali e catastrofi cosmiche, per gli oppressi è dunque la società stessa a rappresentare la minaccia più terrificante, il vero incubo della vita reale.
“Niente potrà tornare / a quando il mare era calmo” recita Conchiglie, seconda canzone di Andrea Laszlo de Simone ad avere un ruolo centrale in un film di questo 40° Torino Film Festival, dopo Immensità ascoltata in Coma di Bertrand Bonello. E ad agitare le acque della vita del giovane liceale Lucas è l’improvvisa morte del padre (interpretato dallo stesso Honoré), che scatena un’onda d’urto capace di mettere a dura prova la tenuta della famiglia e far emergere zone d’ombra a lungo represse.
On August 4, 2020, a massive explosion destroyed the port of Beirut, killing 220 people and injuring 7,000. The day just before that, director Karim Kassem had arrived in the city’s port area to shoot a film he will never make, Octopus. In its place is this Octopus: the title remains, but it is a completely different film. It is the symphonic lament of a city left voiceless.
“So Abraham got up early in the morning, saddled his donkey, and took two of his young men with him and his son Isaac; and he split the wood for the burnt offering, and then he got up and went to the place of which God had told him.” Genesis 22:3
The biblical account shows that Abraham, moved by great faith, had no hesitation. Leonid, however, is a pagan, Leonid does not believe. And in order to offer the best future to his progeny, he is willing to transgress ethical norms and human laws, consequently going so far as to defy God.
The Fire Within is a film that focuses less on Herzog’s interest in volcanoes – already demonstrated in La Soufrière (1977) and Into the Inferno (2016) – than on the work of Katia and Maurice Krafft. A requiem, as the subtitle suggests, that revolves around the death of the two famous volcanologists while they were closely studying those giants towards which they felt a real obsession.