“After spending a few weeks with the watchmakers, my views on socialism were resolved: I was an anarchist.” With this sentence by Pyotr Kropotkin extracted from his Memoirs of a Revolutionary (1877), director Cyril Schäublin decided to start his second feature film ‘Unrest’ in which, by reconstructing the events of 1870, he recounts how the independence of thought of the artisans in the Jura Mountains ignited the spark for the birth of the international anarchist movement.
When approaching the work of Albert Serra, we cannot help but notice the great contradiction at the heart of his cinema: that between the setting of his images, which nestle in the past of the European history (from the 1980s of his debut film to the 1700s French – his favourite historical period – of La mort de Louis XIV and Liberté) and the sense of atrophy, of an absolute and out-of-time present that apocalyptically pervades his characters, always waiting for a climax that will never come, or that perhaps has already arrived.
A spasmodic wait for the end that becomes nuclear paranoia for a Benoît Magimel called to play the ambiguous protagonist of Pacifiction, a diplomatic commissioner who has arrived in the former French colony of Tahiti to try to investigate unsettling rumours of an imminent resumption of dangerous atomic tests. Serra works on the extreme stylisation and opacity of the characters and on the exhibited artificiality of lights – as was already the case in the unforgettable finale of Liberté – to create a highly suggestive visual texture, a floating and uncertain space in which it is possible to perceive the abstraction of power in all its ruthless and pervasive senselessness. It is between half-voices and hints that the protagonist De Roller – designated intermediary between the politicians and the population – probes the island moving as if in a limbo – a somnambulist wandering in what seems to be an only-apparent state of life. The viewer is restrained in the hypnotic movement of the film, which concedes few clues and casts wide, unresolved grey areas, constantly moving to an unknowable off-screen that weights like an omen.
To duplicate and amplify the feeling of threat that travels under the skin, there is the eerie presence of the ocean, which with its surface engulfs and conceals. De Roller is driven by a desire for clarity that will never become tangible reality. In the most important dialogue-monologue of the film, the protagonist talks about a world that has lost the conception of time and memory, of a humanity that must have as its primary need that to illuminate, to see the withered skins of power that have already been embodied by the exposed and dying body of Jean-Pierre Léaud in La mort de Louis XIV. With Pacifiction, Serra continues his work on the perception of the present and the invisible decomposition of a frozen and motionless time, aiming his gaze for the first time at contemporaneity.
Quando ci si accosta all’opera di Albert Serra non si può fare a meno di notare la grande contraddizione che sta alla base del suo cinema: quella fra l’ambientazione delle sue immagini, che si annidano nel passato della storia europea (dagli anni ’80 del film d’esordio al 1700 francese – periodo storico da lui prediletto – di La mort de Louis XIV e di Liberté) e il senso di atrofizzazione, di presente assoluto e fuori dal tempo che pervade in maniera apocalittica i suoi personaggi, sempre in attesa di un climax che non arriverà mai, o che forse è già arrivato.
Un’attesa spasmodica della fine che diventa paranoia nucleare per un Benoît Magimel chiamato a interpretare l’ambiguo protagonista di Pacifiction, un commissario diplomatico arrivato nell’ex colonia francese di Tahiti per cercare di indagare su inquietanti voci che vogliono un’imminente ripresa di pericolosi test atomici. Serra lavora sull’estrema stilizzazione e opacità dei personaggi e sull’artificialità esibita delle luci (come già avveniva nell’indimenticabile finale di Liberté) per creare una tramatura visiva di grande suggestione, uno spazio flottante e incerto in cui si riesce a percepire l’astrazione del potere in tutta la sua spietata e pervasiva insensatezza. È fra mezze voci e accenni che il protagonista De Roller, tramite designato fra i politici e la popolazione, sonda l’isola muovendosi come in un limbo: un sonnambulo che vaga in quello che sembra uno stato di vita solo apparente. Lo spettatore viene imbrigliato nel movimento ipnotico del film, che concede pochi indizi e lancia ampie zone d’ombra irrisolte, rimandando costantemente ad un fuori campo inconoscibile che grava come un presagio.
A duplicare ed amplificare la sensazione di minaccia che viaggia sottopelle è la presenza inquietante dell’oceano, che con la sua superficie inghiotte e nasconde alla vista. De Roller è guidato da una volontà di chiarezza che non si concretizzerà mai: nel dialogo-monologo più importante del film il protagonista parla di un mondo che ha perso la concezione del tempo e della memoria, di un’umanità che deve avere come necessità primaria quella di illuminare, di vedere le pelli avvizzite del potere che sono già state incarnate dal corpo esposto e morente di Jean-Pierre Léaud in La mort de Louis XIV. Serra continua con Pacifiction il suo lavoro sulla percezione del presente e sulla decomposizione invisibile di un tempo raggelato e immobile, puntando il suo sguardo per la prima volta sulla contemporaneità.
Rivedere a ventuno anni dalla sua uscita Chiusura di Alessandro Rossetto rende ancora più ardua l’analisi del film. Vedere un mondo che non c’è più, percepire la consapevolezza che esso stesso aveva di essere giunto a una fase terminale, la fine di un millennio e tutte le paure a esso annesse, genera nello spettatore un misto di ansia e tenerezza. C’è l’amore per un passato che sta svanendo ma, allo stesso tempo, la consapevolezza che non molto è cambiato. La provincia rimane a distanza di anni un luogo paludoso, stagnante, a cui è difficile fuggire ma che attraverso l’immagine cinematografica ha un richiamo romantico e affascinante. È proprio la capacità di mostrare questa doppia anima della provincia e questo scarto tra tradizione che svanisce e modernità che avanza a rendere grande il cinema di Alessandro Rossetto. Chiusura, come detto dallo stesso regista, è un film che a distanza di anni è diventato una riflessione sul tempo che passa.
Il documentario, restaurato sotto la supervisione di Rossetto stesso dall’Istituto Luce, segue la chiusura del negozio di parrucchiera della signora Flavia dopo 44 anni di attività. Il regista, laureato in antropologia, osserva attentamente i piccoli gesti di questo mondo, le parole degli abitanti che lo abitano, i conflitti che lo animano. A questo mondo se ne affiancano altri: il circo che arriva in città e la squadra di calcio femminile locale. L’osservazione di questi mondi si concentra allo stesso modo sugli impercettibili riti e conflitti, sulle emozioni personali delle persone che li abitano.
Ad aleggiare su questo microcosmo è però la nebbia invernale, elemento costante del film, che amplifica la sensazione di staticità e pure di fine, di chiusura di un periodo giunto ormai al suo termine. A spiccare però è la bellezza di questi elementi e la capacità del cinema del reale di dare fascino alle cose della vita comune. La sensazione di paralisi trascende e diventa bellezza: i gesti, le parole e i discorsi personali divengono ammalianti e affascinanti agli occhi dello spettatore.
Il tempo trascorso amplifica quindi l’esperienza di visione di Chiusura, a cui la riflessione sul tempo e la fine di un’era si aggiunge la riflessione a posteriori su un periodo che ormai è trascorso, ma le cui emozioni e sensazioni rimangono ancora incredibilmente vivide.
When Mateo (Manel Llunell) is diagnosed with brain cancer, his mother Libertad (Ángela Molina) gets the chance she was looking for: Mateo is now harmless, in need of care and attention that only she can give him. Eduardo Casanova proposes an Oedipal love story with his second full-length-film “La piedad”, presented in competition at the 40th edition of Torino Film Festival.
Mateo never leaves home without his mother, they sleep together in the same bed, and whenever one of them gets sick, both of them experience symptoms. Their personalities are blended to the point that they sometimes get swapped or one merges with the other; they laugh, cry, and suffer together. Mateo was born to satisfy his mother’s need to be essential for someone. What scares Libertad is the prospect that one day her son will grow up and be independent, take a bath on his own, and leave home. She wants him to stay in their little bubble in which she breastfeeds him and nurtures him forever, even though he is a grown man. The relationship between mother and son is compared with the parallel story set in North Korea, where dictator and subject cannot live without each other. Firstly, Mateo’s absent father plays the tyrant’s role, as he appears in Mateo’s dreams in the place of di Kim Jong-un while killing a unicorn, but the son will soon realize that the real cause of his discomfort his is mother.
As it is true with his first work, Skins (2017), Casanova is not scared of showing images that bring cinema back to pure visual art, building a voyeuristic relationship among the viewers that ask themselves whether they want to keep looking at the screen or not. The colour pink dominates the scene, exposing and dissecting the characters’ unspeakable secrets. They lose their humanity and become torn, sick pieces of flesh. The director is much interested in psychic anomalies rather than physical ones. Therefore, Casanova investigates the result of the combination of two psychic disorders: firstly, the Münchausen syndrome by proxy is the syndrome which leads Libertad to keep her son in a sickly stage by secretly drugging him, and secondly, the Stockholm syndrome that leads Mateo back to his tormentor, his mother. The son’s Oedipus complex, which makes him hate his father (whom he replaces) without even knowing him, contributes to the couple’s toxicity. Moreover, even though his mother is the cause of all his misfortunes, Mateo cannot survive without her, since he does not conceive anything except the morbid love that has accompanied him from birth.
Quando a Mateo (Manel Llunell) viene diagnosticato un cancro al cervello, la madre Libertad (Ángela Molina) ha l’occasione che cercava: Mateo è ora totalmente indifeso, bisognoso di cure e attenzioni che solo lei è in grado di fornirgli. È una storia di amore edipico quella che Eduardo Casanova ci propone nel suo secondo lungometraggio La piedad, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.
Mateo non esce mai di casa senza la madre, dormono insieme nello stesso letto e quando uno dei due si ammala anche l’altro avverte i sintomi. Le personalità dei due sono talmente amalgamate da arrivare a scambiarsi e fondersi, ridendo, piangendo e soffrendo insieme. Mateo è nato proprio per soddisfare il bisogno della madre di essere indispensabile per qualcuno. La prospettiva che un giorno Mateo cresca e diventi indipendente, si faccia il bagno da solo e esca di casa per conto suo, spaventa la madre che cerca di tenerlo in una bolla in cui resti per sempre il suo bambino, da allattare a accudire, anche ora che è ormai cresciuto. Il rapporto tra madre e figlio dialoga con la vicenda parallela ambientata in Corea del Nord, nella quale dittatore e suddito non possono fare l’uno a meno dell’altro. Se all’inizio per Mateo è il padre assente a ricoprire il ruolo di tiranno e ad apparirgli in sogno nelle veci di Kim Jong-un intento ad uccidere un unicorno, presto si renderà conto che è invece la madre la causa del suo malessere.
Così come nella sua opera prima, Pelle (2017), Casanova non ha paura di mostrare immagini attraverso cui il cinema ritorna pura arte visiva, creando un legame voyeuristico con lo spettatore che si chiede se continuare a guardare o distogliere lo sguardo. Il colore rosa domina la scena mettendo a nudo e sviscerando i segreti inconfessabili dei personaggi, che perdono la propria umanità per diventare semplici pezzi di carne lacerati e malati. Ma più delle anomalie corporee, sono quelle psichiche ad interessare il regista. Casanova infatti indaga il risultato della combinazione di due disturbi psichiatrici quali la sindrome di Münchausen per procura, che porta la madre a tenere il figlio in stato di malattia somministrandogli farmaci di nascosto, e la sindrome di Stoccolma, che induce il figlio a tornare dalla madre-aguzzina. Il complesso edipico del figlio, che odia il padre senza averlo mai conosciuto e al quale si sostituisce, contribuisce poi alla nocività della coppia. Così, nonostante la madre sia la causa di tutti i suoi mali, Mateo non può fare a meno di lei, perché non concepisce nulla di diverso da quell’amore morboso che lo ha accompagnato dalla nascita.
The Plains, David Easteal’s first feature film, is the Australian filmmaker’s experimental attempt to faithfully reconstruct his time spent in the car of Andrew Rakowski, a lawyer in his 50s returning home at the end of his workday in Melbourne’s outer suburbs. A work that eludes definition, a radical, yet malleable cinema verité.
The oyster that remains attached to the rock on which it was birthed by fate will live peacefully. The oyster that instead ventures into the unknown in search of fortune can only end up swallowed by the ocean. This is the so-called “Ideal of the Oyster”, which is essential in the events of “I Malavoglia” by Giovanni Verga and of “La Lunga Corsa”, the second movie by director Andrea Magnani and the only Italian feature film in competition at the fortieth edition of the Turin Film Festival.
Giacinto (Adriano Tardiolo) was born and raised in prison, the only environment he recognizes as home during his training process. Abandoned by his parents, he is looked after by prison guard Jack (Giovanni Calcagno), who becomes his figure of reference. However, Jack would like Giacinto to go out and make a living away from the bars and narrow corridors through which the boy enjoys running despite it being forbidden. Thus, he takes him to a family house which, however, is more of a prison for the child than the prison itself. As soon as he gets the chance, he runs away and attacks a man to get arrested and be able to go “home”, but he discovers that children cannot go to prison. So, he tries again on his eighteenth birthday. Jack understands that Giacinto will never change his mind and has him hired as a guard in the penitentiary, which thus becomes a place of work, lodging and recreation for him.
If “Easy – Un viaggio facile facile” (2017), Magnani’s first work, was a classic road movie, here instead a static journey is presented: Giacinto runs for hours but never moves, he remains inside his miniature “Matrix”, preferring the blue pill to the red one (colors that, among other things, are recurrent in the film). He wants to stay locked up in his cave because he sees nothing interesting in the frenetic stillness that pervades the exterior, where people seem to do nothing but run aimlessly between circling buses and construction sites that have been standing still for years.
Jack tries to get Giacinto to escape from what he sees as a mental cage without realizing that he himself is the first of the prisoners chained to a life that doesn’t satisfy him and from which he tries to escape by drinking in the evening. Giacinto doesn’t run to escape or to win a race; he runs to run, unlike those like Jack who would like to flee, but stand still in their perpetual unhappiness.
Thanks to the Covid-19 emergency a lifer finds himself in a situation of greater freedom when compared to that experienced by many others. In Il corpo dei giorni much more is revealed, thanks to this paradox. Santabelva collective meets the lifer Mario Tuti, one of the protagonists of the neo-fascist terrorism in the 1970s, in an unexpected situation. Interesting starting points arise from this confrontation, both historically and cinematically.
In the theory of pre-established social relations, the practice of affection allows one to unhinge the certainties on which one individual bases his or her relationship with the other. Life is a tumult of unexpected encounters, of ephemeral and transitory desires, of painful external interferences and accidental impediments: men must get used to the mutability of life, making themselves and their desires as inconstant as the unpredictable circumstances of reality.
In recent years, documentary cinema has exploited animation for intimate and personal narratives capable of giving a fresh insight into complex historical events. Films such as Waltz with Bashir (Ari Folman, 2008) or Samouni Road (Stefano Savona, 2018) discussed with a microscopic look events of enormous magnitude in an attempt to understand their profound nature. Through the memories of both his grandfather and father animated in stop motion, director Lei Lei retraces the difficult years of his family, divided by the Cultural Revolution in Maoist China.
The structure of Silver Bird and Rainbow Fish effectively reflects the fragmented nature of historical memory. The animation, indeed, consists of hand-moulded plasticine, newspaper pages, old photographs and illustrations from the propaganda of the time, combined in a collage of different styles and languages. The images generated from this mixture are not just an artistic re-elaboration of what is narrated off-screen. The voices of the relatives interviewed by the director often linger, take long pauses or are interrupted as the memories become less clear. It is precisely in these moments of emptiness, of repressed memory, that the animation shows its evocative power, transcending the historical narrative through references to Chinese fantastic imagery and mythology.
Like the images, the narration is structured on several levels as well, in a temporal collage covering almost thirty years of History, through the voices and points of view of three generations: the director’s, his father’s, and his grandfather’s, interviewed ten years earlier. These overlapping temporal planes correspond to the various materials used in the documentary. If the plasticine moulded by Lei Lei’s hands represents contemporaneity and his imaginative, ironic and changing point of view, the photographs and newspaper clippings are the faded remains of a vanished world.
Throughout the film the author reminds us several times, in a variety of ways, that what we are seeing is but one of the endless possible visions of what happened, filtered by the experiences of the various members of the family and the director himself, who imagined the events with his artistic sensibility and a contemporary eye. It’s impossible to restore a complete image of the past, but it is for this very reason that small stories like that of the Lei family are so important and worthy of being told.
Il cinema documentario negli ultimi anni ha sfruttato l’animazione per narrazioni intime e personali che restituissero una visione nuova su eventi storici complessi. Film come Valzer con Bashir (Ari Folman, 2008) o La strada dei Samouni (Stefano Savona, 2018) affrontavano con uno sguardo microscopico fatti di enorme portata per cercare di comprenderne la natura profonda. Il regista Lei Lei, attraverso le memorie del nonno e del padre animate in stop motion, ripercorre i difficili anni della sua famiglia, divisa dalla Rivoluzione culturale nella Cina maoista.
La struttura di Silver Bird and Rainbow Fish rispecchia efficacemente la natura frammentata della memoria storica. L’animazione, infatti, è costituita da plastilina modellata a mano, pagine di giornale, vecchie fotografie e illustrazioni della propaganda del tempo, unite in un collage di stili e linguaggi diversi. Le immagini generate da questo miscuglio non sono solo una rielaborazione artistica di ciò che viene raccontato fuori campo. Le voci dei parenti intervistati dal regista spesso indugiano, fanno delle lunghe pause o si interrompono perché i ricordi si fanno meno nitidi. È proprio in questi momenti di vuoto, di memoria rimossa, che l’animazione dimostra la sua potenza evocativa, trascendendo il racconto storico attraverso riferimenti all’immaginario fantastico e alla mitologia cinesi.
Come le immagini, anche la narrazione si struttura su più livelli, in un collage temporale che copre quasi trent’anni di Storia, attraverso le voci e i punti di vista di tre generazioni: quella del regista, del padre e del nonno, intervistato dieci anni prima. A questi piani temporali sovrapposti corrispondono i vari materiali utilizzati nel documentario. Se la plastilina modellata dalle mani di Lei Lei rappresenta la contemporaneità e il suo punto di vista fantasioso, ironico e mutevole, le fotografie e i ritagli di giornale sono i residui sbiaditi di un mondo scomparso.
Durante il film l’autore ci ricorda più volte, e in diversi modi, che ciò che stiamo vedendo non è che una delle infinite e possibili visioni dei fatti accaduti, filtrata dalle esperienze dei vari componenti della famiglia e dal regista stesso, che ha immaginato le vicende con la sua sensibilità artistica e un occhio contemporaneo. Restituire un’immagine compiuta del passato è impossibile, ma è proprio per questo motivo che piccole storie come quella della famiglia Lei sono così importanti e degne di essere raccontate.
La sostanziale differenza tra noi e la Storia è che questa non parla, siamo noi a costringerla a farlo. Cosa accadrebbe però se essa ci guardasse in faccia, ci prendesse per mano e iniziasse a parlarci del più e del meno, dei suoi rimpianti e dei suoi sogni irrealizzabili? È ciò che si propone di fare Aleksandr Sokurov con il suo Fairytale: far parlare spontaneamente la Storia, a bassa voce e con un leggero tocco di umorismo.
Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini e Winston Churchill si ritrovano riuniti nell’aldilà a chiacchierare mentre vagano per una nebbiosa selva oscura in attesa che il guardiano della porta decida se farli entrare in Paradiso. Il contenuto di queste conversazioni? Sbeffeggiarsi reciprocamente cercando ciascuno di far valere i propri ideali politici e sociali, comprendendosi nonostante le lingue diverse. Discorsi che evidenziano la loro dimensione privata cancellando l’aura solitamente attribuita loro dalla funzione pubblica e dalla Storia stessa. La parola viene dunque usata come strumento per conciliare i diversi punti di vista e per cercare di rompere la barriera con il passato e l’immagine cristalizzata che di loro abbiamo. Costruito attraverso filmati d’archivio, senza l’intervento di deep-fake o altri strumenti di intelligenza artificiale, il film chiama in causa il rapporto con il reale, la verosimiglianza, la memoria e la smitizzazione di questi personaggi, obiettivo che non avrebbe potuto certo perseguire ricorrendo ad attori che sostituissero questi volti, corpi e gesti che hanno cambiato la storia. Le voci prestate ai protagonisti sono poi perfettamente rese da un ottimo lip-sync che infonde vita alle sbiadite immagini immerse nella nebbiosa reminiscenza del passato.
Sokurov tenta di dare un senso alle difficoltà che il genere umano sta attraversando oggi facendo un passo indietro e soffermandosi sulle figure che maggiormente hanno plasmato quella realtà che conosciamo, individuati inevitabilmente nei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, evento che più ha eradicato le convinzioni positiviste sul progresso umano. Provare ad empatizzare con figure come Hitler e Stalin è l’arduo compito proposto allo spettatore, che attraverso tale operazione scopre che ogni avvenimento storico, anche il più terribile e malvagio, nasconde al suo interno solo uomini.
Il peso insostenibile dell’ambiguità manipolatoria, della colpevolizzazione infondata, dei silenzi complici. Il nuovo lungometraggio di Maria Schrader, fuori concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival, è una denuncia contro Harvey Weinstein che sprigiona il desiderio di gridare di cui le donne sono state tanto a lungo private, riscattando così il diritto alla loro voce.
Una giovane donna all’alba della propria carriera, con l’animo che pullula di sogni e gli occhi colmi di ingenua speranza, viene travolta da una richiesta tanto inattesa quanto inopportuna proprio quando pensava di partecipare a un incontro di lavoro. “Mi strappò via la mia voce quel giorno, proprio mentre stavo iniziando a trovarla”, rivela Laura Madden, confessando la convinzione che ebbe per anni di essere stata la sola a non aver avuto la forza di opporsi alle molestie dal potente quanto temuto produttore della Miramax. Laura era tutt’altro che sola, ma il suo persecutore è stato per lungo tempo tutelato da un consolidato sistema che proteggeva sistematicamente e scrupolosamente i molestatori. Le giornaliste del “New York Times” Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Zakan) intrapresero un’inchiesta investigativa per portare alla luce le molestie e gli abusi sessuali commessi da Weinstein, che aveva oltrepassato i limiti non solo delle relazioni professionali, ma anche i confini nazionali, compiendo innumerevoli soprusi anche oltreoceano.
L’équipe di She Said è consapevole di raccontare una storia vera e non lascia spazio alla violenza gratuita, alla quale le donne sono già abbondantemente esposte. L’imponente presenza fisica di Weinstein è restituita dalle testimonianze orali delle donne che descrivono gli episodi nei quali è lui a detenere l’inequivocabile agency di carnefice. Emblematica, al contempo, è invece la sua voce, che sentiamo in voice over, violenta e prepotente quanto i soffocanti accordi che indusse le sue vittime a firmare, privandole “legalmente” della loro dignità. Ripercorriamo, guidati da queste testimonianze, gli spazi da cui avrebbero tanto voluto fuggire, come in un incubo dal quale non era loro concesso di risvegliarsi. Questo film, tuttavia, vuole essere altresì uno spazio sicuro per tutte le donne coinvolte per esprimersi e condividere la propria sofferenza e rabbia. Prime tra tutte Megan e Jodi, che seguiamo ben oltre i processi investigativi e che Maria Schrader ci rivela con grande sensibilità e rispetto. La collaborazione e supervisione delle dirette interessate e la loro concessione a entrare nelle rispettive vite private sono state senz’altro indispensabili per raggiungere l’obiettivo di realizzare un film di forte risonanza e che incoraggi le donne a fidarsi le une delle altre.
La sezione Back to life del TFF40 dedicata al restauro cinematografico ha proposto un dittico di particolare interesse sul polar italiano, riportando allo splendore originario due dei suoi rari gioielli. Realizzati a distanza di tempo e con differenti caratteristiche si sono ritrovati accomunati per la fredda accoglienza ricevuta da critica e pubblico al momento della loro uscita in sala per poi assurgere allo stato di cult movies.
Milano calibro 9 (1972) oggi non rappresenta più solo il vertice della carriera di Fernando Di Leo, ma anche l’unico polar italiano del periodo in grado di reggere il confronto con i decantati polizieschi americani ed europei (tra il 1970 e il 1972 uscirono capolavori come The French Connection di Friedkin, Le Cercle Rouge di Melville e Carter di Hodges). E di perfezione parleremmo se non fosse stato purtroppo per il manicheismo di alcune scene fra il commissario (Wolff) e il suo vice (Pistilli) imbevute di dozzinale retorica socio-politica.
Il restauro presentato dal Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale ha il grande merito di ripristinare le sovrimpressioni delle ore e dei giorni volute dal regista per lo sviluppo ciclico della trama (“Da lunedì a lunedì” era in origine il titolo scelto) e di ridonare il giusto smalto visivo e sonoro alle vicende di Rocco (Adorf), Nelly (Bouchet) e soprattutto di Ugo Piazza (un granitico Moschin) vittima o diabolico artefice di un violentissimo redde rationem nella malavita organizzata milanese (lo si capirà nel finale con una splendida triplice agnizione). La copia digitale esalta la magistrale regia tesa a dettare il ritmo serrato (lo stesso Di Leo, senza modestia, affermava «nessuno, in Europa, a parte Melville, aveva la grinta di taglio americano che avevo io») e la fedeltà della sceneggiatura all’antologia di racconti hard boiled di Scerbanenco da cui è tratto.
Completano il quadro del riconosciuto capostipite del poliziottesco all’italiana l’ambientazione neorealista in cui agisce una galleria di straordinari personaggi pulp (Tarantino per sua ammissione attingerà a piene mani), le incalzanti musiche di Bacalov e degli Osanna e lo strisciante determinismo di fondo.
Bisogna spostarsi invece a Torino trent’anni dopo per l’altro neo-noir sommerso e “maledetto”.
Tre punto sei (2003), esordio e unico lungometraggio del compianto Nicola Rondolino (figlio d’arte del noto critico e storico del cinema Gianni), per una serie di problematiche produttive e distributive ha richiesto un delicato intervento di recupero curato da Cinecittà, Museo Nazionale del Cinema di Torino e Augustus Color, diretto a superare lo scoglio dell’assenza di un negativo originale.
Figura versatile e molto amata nella sua città, prematuramente scomparso nel 2013, Rondolino dimostrò subito in quest’opera prima un talento non comune (furono in pochi ad accorgersene) piegando i cliché del genere in una narrazione mai banale grazie a uno stile contemporaneo composto da vertiginose ellissi, scene d’azione telluriche e pregnanti momenti drammaturgici di scontro fra i vari personaggi. La vivida coerenza dell’immaginario criminale multietnico calato nel quartiere torinese di San Salvario colpisce nel segno evitando le trappole dei più retrivi pregiudizi razziali, mentre è l’intenso Binasco a spiccare nel ruolo del poliziotto corrotto follemente innamorato della donna contesa dal suo miglior amico (un Giallini più cupo che mai) disilluso malavitoso al servizio di un clan della droga sui generis (gustoso l’esperimento citazionista da I Soprano).
Doverosa quindi la riscoperta di Tre punto sei nel quarantennale del festival che vide a lungo Rondolino come selezionatore nutrendo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto dare al nostro cinema.
“I think one of the great subjects of the film is Julia’s body […] I was obsessed with the idea that it was her female body that created the narrative” Lola Quivoron
To deny the name we are given at birth is to open the door to an endless series of new possibilities and expectations. This continuous denial and reshaping of identity is what Julia, the protagonist of Rodeo by Lola Quivoron, presented in competition at the 40th edition of the Torino Film Festival, pursues.
Julia, who grew up in a deprived environment on the outskirts of Paris, finds her chance to escape from herself through her passion for motorbikes and for rodeos, a term that identifies dangerous clandestine events in the world of motorcycling where riders perform stunt-like evolutions. It is precisely at one of these events that the incident from which the story starts occurs: during a rodeo in which Julia participates with one of the many motorbikes she steals during the film, Abra – the only one to have shown any sympathy for the girl – dies in an accident. From this point begins the difficult grieving process that develops in both Julia’s psychic and social dimensions: Abra, who constantly returns in Julia’s dreams after his death, leaves a vacancy in the group of bikers (all male) to which he belonged, the B-More.
Julia then steps into this void by climbing the hierarchies and beginning a classic journey of rise and fall of the protagonist. It is precisely the way Julia climbs the hierarchies of the group that is the most interesting element of Rodeo: in fact, the protagonist introduces herself by denying her previous identity and identifying herself as ‘The Stranger’. This absence of identity allows her to perform different roles and behaviours in the various situations in which she finds herself, assuming different guises and a chameleon-like, undefinable identity. She is thus transformed into an elusive figure, a character who is difficult to pigeonhole both in her behaviour and in her gender affiliation, a figure who continually unsettles the people around her. A key element in these transformations is precisely the protagonist’s body, which constantly modifies itself and changes its outward appearance depending on the situation and the people around it.
This work on the body makes the film a work of flesh, blood, dirt and motors and gives it a fascinating visual dimension that points to an almost physical involvement of the spectator, an almost fashionable dimension in which much space is given to the link between rap music and motors.
The Plains, primo lungometraggio di David Easteal, è lo sperimentale tentativo di ricostruire, tramite un vero e proprio reenactment, il tempo trascorso dal regista australiano nella macchina di Andrew Rakowski, avvocato sulla cinquantina che torna a casa alla fine della giornata lavorativa nella periferia esterna di Melbourne. Un’opera che sfugge alle definizioni, un cinema del reale radicale, eppure malleabile.
Grazie all’emergenza Covid-19 un ergastolano si trova in una situazione di maggiore libertà se paragonata a quella vissuta da molte altre persone. Ne Il corpo dei giorni, grazie a questo paradosso, si scopre molto di più. Il collettivo Santabelva si trova dunque a incontrare l’ergastolano Mario Tuti, uno dei protagonisti del terrorismo di matrice neofascista degli anni ’70, in una situazione inaspettata. Da questo confronto sorgono interessanti spunti tanto dal punto di vista storico quanto da quello cinematografico.
L’ostrica che rimane attaccata allo scoglio su cui il caso l’ha fatta nascere vivrà serenamente. L’ostrica che invece si avventurerà verso l’ignoto in cerca di fortuna non potrà che finire inghiottita dall’oceano. È così definito “l’ideale dell’ostrica” che accompagna le vicende dei protagonisti de I Malavoglia di Giovanni Verga e del film La lunga corsa, seconda opera del regista Andrea Magnani e unico lungometraggio italiano in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.
Giacinto (Adriano Tardiolo) nasce e cresce in carcere, unico ambiente che riconosce come casa nel corso del suo processo di formazione. Abbandonato dai genitori, viene accudito dalla guardia penitenziaria Jack (Giovanni Calcagno), che diventa il suo punto di riferimento. Jack vorrebbe però che Giacinto uscisse e si facesse una vita lontano dalle sbarre e dagli stretti corridoi per i quali il ragazzo si diverte a correre nonostante sia vietato. Lo porta così in una casa-famiglia che risulta però per il bambino una prigione più del carcere stesso. Appena ne ha l’occasione fugge e aggredisce un uomo per essere arrestato e poter tornare “a casa”, ma scopre che i bambini non possono andare in prigione. Ci riprova così il giorno del suo diciottesimo compleanno. Jack capisce che Giacinto non cambierà mai idea e lo fa assumere come guardia nel penitenziario, che diventa così per lui luogo di lavoro, alloggio e svago.
Se Easy – Un viaggio facile facile (2017), opera prima di Magnani, era un classico road movie, qui viene invece presentato un viaggio statico: Giacinto corre per ore ma non si muove mai, rimane all’interno della sua Matrix in miniatura, preferendo la pillola blu a quella rossa (colori tra l’altro ricorrenti nel film). Vuole restare rinchiuso nella sua caverna perché non vede nulla di interessante nel frenetico immobilismo che pervade l’esterno, dove le persone non sembrano far altro che correre senza meta tra autobus che girano in tondo e cantieri fermi da anni.
Jack cerca di far evadere Giacinto da quella che lui vede come una gabbia mentale senza però rendersi conto che è lui stesso il primo dei prigionieri, incatenato a una vita che non lo soddisfa e dalla quale tenta di scappare bevendo la sera. Giacinto non corre per fuggire o per vincere una gara; lui corre per correre, a differenza di quelli come Jack che vorrebbero fuggire ma rimangono immobili nella propria perpetua infelicità.
Nella teoria delle relazioni sociali precostituite, la pratica degli affetti permette di scardinare le certezze su cui l’individuo fonda il rapporto con l’altro. La vita è un tumulto di incontri inaspettati, di desideri effimeri e transitori, di dolorose interferenze esterne e di impedimenti accidentali: l’uomo deve abituarsi alla mutevolezza della vita, rendendo se stesso e i propri desideri incostanti quanto le imprevedibili circostanze della realtà.