Archivi categoria: Altri Festival

“WHITE BUILDING”, DI KAVICH NEANG

La vecchia Phnom Penh sta sparendo. Gli occhi sperduti e incerti di Samnang (Piseth Chhun) contemplano in tempo reale la demolizione della città che conosce e abita, corrosa dalle forze della gentrificazione. Come nella Fenyang di Jia Zhangke, le trasformazioni in atto sono profonde al punto da riscrivere la storia stessa. Sul passato, obliterato, si sovraimprime il futuro. Si attacca lo spazio per plasmare – violentandolo – il tempo. «Old buildings are disappearing, taking swathes of our past with them, while condos, malls, and modern air-conditioned stores pop up everywhere. But what has changed most […] is the rhythm of the city»1: così Kavich Neang sintetizza una mutazione che riguarda non solo il tempo storico, culturale, ma anche quello vitale, performativo, della sua città. E, per sineddoche, della sua società. A una forsennata riscrittura architettonica del mondo votata alla cancellazione, White Building oppone il tempo di un respiro profondo, di un requiem.

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“HOW TO SAVE A DEAD FRIEND” DI MARUSYA SYROECHKOVSKAYA

How to Save a Dead Friend, (come) salvare un amico morto: questa la volontà testamentaria del commovente lavoro autobiografico di Marusya Syroechkovskaya (in concorso feature film al Visions du Réel), cruda documentazione di quindici anni di vita nella Russia a cavallo degli anni dieci del 2000. Un paese distruttivo, antidemocratico, che si regge su una costituzione votata, nel 1993, dal 30% della popolazione e dove la depressione giovanile è una piaga sociale dilagante. Un film che innesca riflessioni profonde sul senso esistenziale del cinema e sul legame carnale che i film (come questo) interessati alla realtà, sono in grado d’intessere con la vita. Un film che intaglia nella memoria un ricordo indelebile, segna un prima e un dopo, sposta le certezze. La visione di How to Save a Dead Friend è lacerante ma non mortifica: accende al contrario la felice consapevolezza che il cinema è risorsa vitale e illuminante nell’esperienza umana su questa terra. Anche di fronte alla morte.

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“THE LOST DAUGHTER” DI MAGGIE GYLLENHAAL

La decisione di Leda (Olivia Colman) di trascorrere una vacanza in Grecia all’insegna dell’ozio viene insidiata da vicini chiassosi e sinistri che ne turbano la quiete e destano la sua curiosità, innescando una fatale dinamica di attrazione e repulsione. A catturare il suo sguardo è in particolare la giovane Nina (Dakota Johnson) il cui rapporto di complicità e conflitti con la figlia piccola ne fa presenza fantasmatica della sé del passato (Jessie Buckley) e della sua maternità dolorosa.

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“AS FAR AS I CAN WALK” DI STEFAN ARSENIJEVIĆ

Per inscenare la tragedia di Strahinja (Ibrahim Koma) e Ababuo (Nancy Mensah-Offei) – due migranti ghanesi condannati a errare nelle waste lands geografiche e burocratiche di un’inospitale Est Europa – Stefan Arsenijević ricalca e rimodella il poema epico-cavalleresco serbo Strahinja Banović. L’operazione persegue un (almeno) duplice scopo.

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“ÎNTREGALDE” DI RADU MUNTEAN

Dopo esser stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e in vari festival internazionali nel corso del 2021, Întregalde di Radu Muntean inaugura il nuovo anno vincendo la 33esima edizione del Trieste Film Festival. Nonostante si muova su territori già battuti, in particolare dai suoi colleghi della “nuova onda rumena”, il film persuade lo spettatore a intraprendere un viaggio intorno al confine sottile che separa empatia e narcisismo, altruismo e ipocrisia.

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“UN AUTRE MONDE” DI STÉPHANE BRIZÉ

Presentato in concorso alla 78ª Mostra del cinema di Venezia e in anteprima nazionale ai Job Film Days di Torino, Un autre monde chiude la trilogia del lavoro di Stéphane Brizé. Se ne La loi du marché (2015) il regista francese affrontava la vicenda dal punto di vista dell’operaio e in En guerre (2018) raccontava le feroci lotte sindacali e le relative contraddizioni interne ai gruppi dei lavoratori, in quest’ultima fatica la cinepresa si sposta dal lato opposto della barricata: quello del dirigente aziendale.

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“9TO5: THE STORY OF A MOVEMENT” DI JULIA REICHERT E STEVEN BOGNAR

Dopo l’acclamato, e crudo, esordio con American Factory (2019), la Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama torna a occuparsi di un tema vicino al mondo del lavoro. Attuali più che mai in questi anni, e in questi giorni, i tema dell’occupazione femminile e delle pari opportunità vengono analizzati e raccontati dal punto di vista delle attiviste del Movimento 9to5, baluardo delle lotte sindacali dagli anni ’70 a oggi sul territorio statunitense.

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“LA CONQUISTA DE LAS RUINAS” DI EDUARDO GOMEZ

Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si trasforma: le persone, gli ideali, le città. Il modo di concepire il peso della singola persona all’interno di una comunità, sempre più sospesa sul filo dell’ambiguità tra interessi, cause sociali e necessità di sopravvivere. Eduardo Gomez si muove liberamente lungo il ponte che collega l’anima rurale del Sudamerica e la sua sublimazione industriale: pietre, che forgiano l’asfalto e segnano la via per un nuovo mondo. Non per forza migliore.

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“SEARCHERS” DI PACHO VELEZ

Primo piano di Shaq Shaq, 24 anni. Nell’aria il frastuono inconfondibile del traffico newyorkese. Il ragazzo, con lo sguardo in macchina, scruta le profondità dell’obiettivo, borbotta qualche parola, ammicca nervosamente. D’un tratto, sulla sua immagine si sovraimprimono le linee dell’interfaccia di una dating app, e subito si ha la sensazione che lo schermo stia restituendo lo sguardo a Shaq Shaq. Il quale, ormai è chiaro, è intento a scorrere su Tinder i profili di alcune ragazze, alla ricerca di quella giusta per un incontro.

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“OSTROV-LOST ISLAND” DI SVETLANA RODINA e LAURENT STROOP

Film in concorso nella sezione Competition Internationale Longs Métrages al Festival Visions du Réel 2021, Ostrov-Lost Island di Svetlana Rodina e Laurent Stoop è uno spaccato sulla vita degli abitanti di un’isola persa nelle acque fangose del Mar Caspio e dimenticata dalla Russia a partire dalla fine dell’Unione Sovietica. L’isola sopravvive all’ombra di una nazione della quale continua inutilmente ad alimentare il culto: a essa la legano solo la nostalgia e i divieti, tanto che l’unica fonte di guadagno degli isolani, la pesca degli storioni e la produzione di caviale, è ora illegale e tenuta sotto stretto controllo dalle autorità russe. Il paesaggio di Ostrov, un tempo ricco e fiorente, è ora scarno e desolato. Non ci sono più le strade, non c’è più un ospedale: restano gli uomini, i bambini che giocano, la sabbia, le cavallette.

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“GUERRA E PACE” DI MASSIMO D’ANOLFI E MARTINA PARENTI

Qualcosa di magnetico emana dal cinema di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, una forza attrattiva difficilmente decifrabile che scorre da un film all’altro, facendo della loro opera un oggetto misterioso e singolare. Qualcosa che ha in parte a che fare con la sospensione, con un clima di attesa e tensione verso un futuro costantemente dilazionato: un respiro trattenuto in cui lo slancio umano si congela a contatto con l’istituzione. In questo stallo i registi milanesi trovano casa, e da qui partono per indagare le situazioni più disparate: il matrimonio come procedura e burocrazia (I promessi sposi, 2007), il viaggio come flusso placcato e abortito (Il castello, 2011), la sperimentazione bellica come preludio alla guerra (Materia oscura, 2013), le grandi opere in completamento perenne (L’infinita fabbrica del Duomo, 2015 e Blu, 2018). Un impasse perpetuo, cui contribuisce largamente il trattamento sonoro che attraverso i rumori d’ambiente e le musiche di Massimo Mariani dà consistenza al tempo, creando mondi ovattati e subacquei.

In Guerra e pace, il loro ultimo film (presentato prima a Venezia e al FilmMaker Festival e ora sbarcato al Visions du Réel), D’Anolfi e Parenti portano quest’analisi a un ulteriore livello di complessità e scelgono di lavorare sulla sospensione temporale per eccellenza, quella del cinema, interrogato proprio in quanto tramite fra passato e futuro, nel suo farsi memoria attiva che plasma il presente. La riflessione prende forma in quattro movimenti, dedicati ciascuno a un diverso tempo verbale e a una diversa tappa nella storia delle immagini di guerra: si va dal passato remoto della guerra in Libia, la prima filmata sistematicamente; al passato prossimo dell’esplosione delle immagini, di cui l’Unità di crisi della Farnesina (“finestra sul mondo”) è contenitore emblematico; al presente di chi, come gli alunni dell’Ecpad, apprende oggi a filmare la guerra; sino a un futuro ipotetico che immancabilmente si ripete ed è perciò rappresentato dalle immagini d’archivio (qui, quello della Croce Rossa Internazionale conservato presso la Cineteca di Losanna).

Si tratta dunque di un film-saggio (o “film-impalcatura”, come definito dai registi), che analizza le possibilità dell’immagine, la sua doppia e ambigua capacità di riflessione. Da un lato l’immagine come coltello, impugnata da chi filma contro chi è filmato, riflesso del suo tempo e delle sue ideologie. Dall’altro l’immagine come coscienza, supporto eloquente che a distanza di anni demanda a noi la riflessione, la decodifica dei rapporti di potere al suo interno. È proprio a partire dalla capacità dei posteri di decodificare le immagini che il lavoro d’archivio acquista valore e che lo stesso Guerra e pace assume intento militante: restituire dignità alle vittime di guerra, evidenziando l’urgenza di un’etica della visione, più che della rappresentazione. Uno scopo raggiunto non con un’analisi fredda e scientifica, ma attraverso la coesistenza d’inchiesta e poesia, in uno sguardo volutamente impuro che instaura con noi un dialogo diretto. Ne sono esempio le immagini improvvise e apparentemente incongrue che spiazzano lo spettatore, risvegliandone l’attenzione con il fascino del fuoriluogo e spingendolo a indagare la loro stratificazione (in questo caso, la macabra apparizione del busto di un manichino o i legionari in maschere anti-gas fra aiuole verdeggianti). Il personale irrompe nell’oggettivo e il reale si arricchisce di sfumature magiche: come ne L’infinita fabbrica del Duomo le statue paiono muoversi da sé, librandosi nell’aria per raggiungere Milano, anche qui nel finale le immagini prendono vita, proiettandosi autonomamente su cataste di pellicole. Sono le testimonianze delle vittime di guerra, che prendono parola e ci interpellano di rimando: cosa faremo, noi, di queste immagini?

Chiara Rosaia

PIETRO MARCELLO – MASTERCLASS a Visions du Réel

In occasione della sua 52° edizione, Visions du Réel – Festival Internazionale del Cinema di Nyon ha dedicato una retrospettiva al regista italiano Pietro Marcello, i cui pluripremiati film, tra cui La bocca del lupo (2009), Bella e perduta (2015) e Il passaggio della linea (2006) sono stati presentati nella sezione Atelier. Il cinema di Marcello è stato anche protagonista di una masterclass mediata da Rebecca De Pas e in collaborazione con HEAD – Ginevra. 

Durante la masterclass, Pietro Marcello ha parlato della sua carriera e della sua singolare visione di cinema, partendo dal racconto degli studi di pittura in Accademia e della sua esperienza al centro sociale napoletano DAMM, in cui fino al 2003 ha organizzato eventi cinematografici. L’esperienza sociale – fondamentale nella sua formazione di ‘artigiano’ – e la consapevolezza di “non essere così bravo” nella disciplina pittorica, hanno maturato nel regista il bisogno di stare tra le persone e di raccontare le loro vite e le loro storie attraverso il mezzo documentario. 

Parlando di La bocca del lupo (2009)il film che lo ha consacrato al pubblico internazionale, Pietro Marcello spiega come il suo lavoro parta dall’osservazione e da una costante ricerca dell’imprevisto. Il suo cinema, un ‘felice ripiego’ come lui stesso lo definisce, nasce sempre da un’inchiesta: “I miei film non si possono scrivere se non parti da un’inchiesta, al massimo posso avere un canovaccio. Per me è importante capire cosa vado a fare”. Il regista non crede nello sviluppo della scrittura attraverso il documentario, perché nel cinema esiste sempre una trasposizione filmica il cui progresso, spesso, finisce con l’infrangere le promesse poste dalla sceneggiatura. La scrittura per il cinema è un’opera incompleta perché durante le riprese muta e si evolve, fino a trasformare letteralmente il prodotto filmico; come dice lo stesso regista, “la scrittura di una scena termina nel momento esatto in cui finisci di filmarla” e per questa ragione è essenziale avere metodo, ovvero imparare a gestire l’imprevisto, anche (e soprattutto) attraverso il montaggio in macchina. 

Legato alla pittura, alla letteratura, alla piccola e alla grande Storia e all’archivio (“tutto è archivio, anche quello che faccio io”), il cinema di Pietro Marcello è spesso nostalgico di una bellezza perduta, ed è capace di un grande potere evocativo e comunicativo. Così come i suoi lavori, il regista afferma di non sentirsi ancora definito, ma in una fase di crescita continua: “È difficile per me avere un giudizio su ciò che faccio. Credo in un cinema imperfetto e amo il cinema di cuore; è necessario continuare a fare ricerca, perché il dubbio è ninfa vitale”. 

Carola Capello

“FAYA DAYI” DI JESSICA BESHIR

Una leggenda sufi etiope vuole che la pianta del khat, le cui foglie rilasciano sostanze stimolanti una volta masticate, venne scoperta durante la ricerca dell’acqua della vita eterna. Oggi il khat costituisce la coltura commerciale più redditizia d’Etiopia: la sua assunzione trascende la mera esperienza fisica, si presta invece a pratiche simposiali che trovano giustificazione nel tramandarsi di miti religiosi. A partire da questo racconto, Faya Dayi, in concorso internazionale al festival Visions du Réel, propone un percorso spirituale che segue la montuosa Harar e la cultura del khat, masticato per secoli per potersi avvicinare al proprio Dio, come anche per far scorrere più rapidamente i giorni di fatica e monotonia.

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“NOTRE ENDROIT SILENCIEUX” DI ELITZA GUEORGUIEVA

Aliona Gloukhova arriva in Francia con l’intento di disimparare la sua lingua d’origine, il bielorusso, per trovare, nell’acquisizione del nuovo idioma, quella autenticità scarna e quel distacco di cui ha bisogno per raccontare della scomparsa di suo padre, di un lutto che non è fino in fondo tale. L’indeterminatezza di una lingua sconosciuta come unico mezzo per restituire l’indeterminatezza di un evento o l’assenza.

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“Odd family – zombie for sale” di Lee Min-jae

Il cinema coreano sta vivendo un momento particolarmente felice, culminato con la Palma d’oro a Parasite di Bong Joon-Ho; gli zombie sono sempre più popolari negli horror televisivi e cinematografici, invadendo il mercato con svariate produzioni ogni anno. Lee Min-jae, al suo primo lungometraggio, si dimostra subito un autore consapevole dell’ambiente in cui si muove, riuscendo a cavalcare le tendenze con il suo zombie movie. The Odd Family – Zombie for Sale,  è un film ricco di richiami e citazioni ad altre opere dedicate ai non-morti, sia nazionali, come Train to Busan di YeonSang-ho, sia internazionali, come Fido o Zombieland.

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“the furies” di tony d’aquino

Le Furie che ispirano il titolo di questo film sono, nella mitologia, divinità che puniscono chi viola l’ordine morale e vendicano i delitti di sangue.
A partire da questo richiamo, Tony D’Aquino ha costruito un perverso gioco di oppressione e vendetta, che prende forma davanti agli occhi dello spettatore attraverso continui contrasti visivi e uditivi.

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“KUWARESMA – THE ENTITY” di Erik Matti

Luis sta camminando lungo i corridoi del college in cui studia, quando trova davanti a sé la sorella che gli intima di tornare a casa e di non lasciarla mai più sola. Pochi istanti dopo viene chiamato al telefono dal padre, che gli comunica la notizia della morte della ragazza. Continua la lettura di “KUWARESMA – THE ENTITY” di Erik Matti

“all the gods in the sky” di Quarxx

Anteprima italiana per il ToHorror film festival, All The Gods in The Sky (Tous les dieux du ciel) è il quarto lungometraggio di Quarxx: una storia oscura in cui il senso di colpa soffoca l’amore, che sarebbe riduttivo ascrivere al filone della New France Extremity. Benché lo scopo del regista sia quello di scioccare lo spettatore con immagini violente e scabrose, Quarxx riesce nell’intento di fondere più generi: dramma famigliare, fantascienza e body modification si mescolano in un’opera che rifugge da etichette troppo semplicistiche.

Simon (Jean Luc-Cochard) è un umile operaio della campagna francese che soffre di crisi psicotiche. La sua vita si alterna tra l’alienante lavoro in fabbrica e le cure prestate alla sorella Estelle (l’incredibile modella Melanie Gaydos), affetta da una forte disabilità motoria in seguito a un incidente di gioco di cui lo stesso Simon sembra attribuirsi la colpa. La salvezza per i due fratelli, intrappolati nelle rispettive prigioni corporee, sembra arrivare da entità spaziali con cui entrano in contatto.

L’ispirazione per il regista è la vera storia di un uomo che, non volendosi separare dalla sorella, ha dormito accanto al suo corpo per tre settimane: è chiaro quindi come l’amore fraterno sia il fulcro e la chiave di lettura di tutta l’opera. L’horror diventa lo strumento attraverso cui Quarxx indaga questo rapporto, lasciando lo spettatore disorientato, a cavallo tra realtà e allucinazione in un mondo ricco di misteri e segreti.

Proprio la creazione di questo mondo è l’elemento più interessante del film. La capacità di gestione dei personaggi secondari all’interno della storia è ciò che distingue Tous les dieux du ciel dagli altri film del genere. Personaggi generalmente trattati con superficialità sono qui presentati con estrema attenzione e inusuale profondità, al punto che molti di loro sono introdotti da lunghe sequenze di cui sono protagonisti, e in cui vengono presentate le loro misteriose vicende personali. Storie slegate dall’intreccio principale, nate dall’amore che il regista prova nei confronti di tutti i suoi personaggi. Nessuna di queste scene rallenta il ritmo del racconto ma, anzi, incuriosisce lo spettatore, donando spessore al mondo immaginario del regista; usciti dalla sala vi troverete riflettere sulla natura del rapporto tra Simon ed Estelle, ma anche a immaginare quanti film si nascondono tra le pieghe di tutte le side stories.

“IT COMES” DI TETSUYA NAKASHIMA

Tremate, tremate, il ToHorror Film Festival è tornato con la sua diciannovesima edizione e un film d’apertura firmato da Tetsuya Nakashima, intitolato It Comes, in concorso nella categoria lungometraggi. It Comes è un japanese horror che racconta di un viaggio infernale tra le menzogne di un padre e i segreti tormentati di una madre, entrambi manipolati da una presenza che credevano amica, impegnati nella lotta contro una sinistra e infernale presenza che vuole prendere possesso della loro figlioletta di due anni, la piccola Chisa.

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“o beijo no asfalto” di murilo benicio

Un uomo sta morendo a San Paolo. È stato investito da un autobus e visione della gente accorsa è molto intensa. Un bacio sull’asfalto. Delicato, innocente, definitivo.

Ad esaudire quest’ultimo desiderio è Arandir, impiegato di banca e fedele marito. Sulla scena ci sono un giornalista scandalistico che intrattiene frequentazioni con la polizia e il suocero di Arandir.

La macchina del fango può partire.

Alla sua seconda esperienza da regista, Murilo Benìcio, noto in Brasile per alcuni ruoli in importanti telenovelas, dirige un’opera seconda di convincente e quasi inaspettata maturità, tratta dall’omonimo dramma di Nelson Rodrigues. Si tratta della terza trasposizione cinematografica del lavoro del drammaturgo pernambucano, che questa volta diventa una meta-narrazione che interseca teatro e cinema. Lunghe sequenze del cast che lavorano alla lettura del testo si alternano alle scene dell’universo diegetico, poi ancora macchina e operatori in campo e di nuovo quadri della totalità degli interpreti che provano lo spettacolo tra errori e risate. I limiti delle scene, come quelli dell’emotività dei protagonisti sono aleatori ed inconsistenti.

E Benìcio indaga il tutto con fare da reporter, con un bianco e nero giornalistico tra le vite dei suoi attori e le tragiche vicende dei “suoi” protagonisti.

L’opera è profondamente moderna e con forti assonanze con i drammi di Tennessee Williams: passioni intense e convulse guidano protagonisti insicuri e deboli che confezionano una colpa per giustificare le loro mancanze, mistificare la realtà e avvelenarla.

Così, anche un gesto leggero come quello di Arandir si trasforma in un becero scandalo del quale si nutrono le due figure tematiche fondamentali della condizione umana. Quella esterna, dell’istituzione, della polizia che è violenta, quasi malvagia, autoritaria nel controllo dell’opinione pubblica; e quella intima della famiglia che perde il suo statuto di focolare sicuro per diventare un luogo spaventoso dal quale fuggire.

Arandir è l’uomo moderno che rimane solo, abbandonato da chi dovrebbe aver cura di lui, per via di pregiudizi, in particolare quelli della società brasiliana che Benìcio racconta nella sua complessità e grande contraddittorietà.