A 22 anni Harrison Atkins dirige il suo primo lungometraggio, non nascondendo di aver tratto ispirazione dal film Begotten di Edmund Elias Merhige, dove i personaggi sono tutti incappucciati o in costume, non parlano mai né fanno capire alcunché di sé stessi, un po’ come il fantasma del film di Atkins.
Proprio per quanto riguarda il il fantasma, il regista rivela di aver scelto questo tipo di costume creato con sacchi di iuta, proprio per allontanare il personaggio dai soliti cliché riguardanti gli spettri. Inoltre dichiara di aver preso a modello le maschere del teatro kabuki, anche se difficilmente si trovano congruenze tra il film e il suddetto teatro giapponese.
Per quanto concerne la protagonista, la sua seconda vita su un gioco di realtà virtuale viene spiegata dalla relazione con l’alienazione postmoderna generata dai social media, dove nonostante la morte, l’account continua ad esistere.
I tratti stilistici dell’horror soprannaturale si mescolano con sfumature melodrammatiche che in alcuni casi spiazzano lo spettatore, come si nota nelle prime fasi dell’incontro fra Ruth ed il fantasma, dove la protagonista quasi psicoanalizza il suo interlocutore. Tutto ciò ammorbidisce la tensione del film nei momenti più intensi.
La colonna sonora è composta prevalentemente da musica elettronica combinata in alcuni casi a effetti rallenty in altri a fasi spaesanti con immagini che tendono allo psichedelico. Atkins rivela che queste immagini sono frutto del caso, in quanto in postproduzione copiando i file su hard disk, accidentalmente si scollegò il cavo, creando questo effetto che poi il regista ha voluto lasciare, per sottolineare lo stato di alienazione e le fasi di malattia che la protagonista Ruth vive in scena.
Per concludere, vi invito caldamente a tenere d’occhio questo regista che al suo esordio nonostante la giovane età, è riuscito a portare al Torino Film Festival un ottimo film e a stupire.