Archivi categoria: TFF 40 – 2022

“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” BY ALAIN UGHETTO 

Article by: Emidio Sciamanna 

Translated by: Maria Bellantoni

Memories of a distant past that gradually fades in time often remain linked to an ideal world reworked by our minds to preserve emotions, sensations, fleeting instants of our existence in which we have, even for an instant, savoured flashes of true happiness. Manodopera recounts the world evoked by the sweet and nostalgic words of a grandmother, restoring the memory of a bygone era, made up of sacrifices and carefreeness, suffering and love.

The location, recreated in stop-motion, is a small mountain village at the foot of Monviso. It is called Borgata Ughettera and recalls the director Alain Ughetto’s Piedmontese origins. The film comes to life through the words of Cesira, his grandmother, who thinks back to her youth towards the end of the 19th century. Starting from some fundamental events, she thus gives rise to a reality suspended in time that is emphasised by the fragile malleability of the plasticine with which the characters are made of.

Between cardboard houses and bizarre broccoli trees, the objects somehow represent an indispensable aspect of the story; tangible elements whose purpose is to bring the sweetness of a memory closer to the purity of nature. The simplicity of the poor peasant world, the meeting with her future husband Luigi, the difficult periods of war and the need to emigrate to France in order to work and survive: these are the episodes that characterise Cesira’s past and that she describes to her nephew, in a surreal and poetic exchange between the animated universe and the real presence of the director on stage.

What Ughetto wanted to tell is not only the story of his origins, but also the story of all immigrants, wherever they come from in the world. A story of hard work, of adaptation, of gazes that lacerate the soul and leave irremediable wounds. This is why certain stereotypes in the film take on a different meaning, as if they were the images perceived by those who feel invaded and – not knowing other cultures and not understanding the languages spoken by migrants – judge those from other countries as inferior. As the original title makes clear: “forbidden to dogs and Italians”, a dramatic situation that our families have had to live with in the past and that is being played out again today, this time through the eyes of the viewer.

“MANODOPERA – INTERDIT AUX CHIENS ET AUX ITALIENS” DI ALAIN UGHETTO

I ricordi di un passato lontano che progressivamente svanisce nel tempo rimangono spesso legati a un mondo ideale rielaborato dalla nostra mente per preservare emozioni, sensazioni, fugaci istanti della nostra esistenza in cui abbiamo, anche solo per un istante, assaporato sprazzi di vera felicità. Manodopera racconta il mondo rievocato dalle dolci e nostalgiche parole di una nonna, restituendo la memoria di un’epoca passata, costituita tra sacrifici e spensieratezza, sofferenza e amore.

Il luogo, ricreato in stop motion, è un piccolo paesino di montagna situato ai piedi del Monviso che prende il nome di Borgata Ughettera e richiama le origini piemontesi del regista Alain Ughetto. Il film prende vita attraverso le parole di Cesira, sua nonna, che ripensa alla sua gioventù verso la fine del diciannovesimo secolo. Partendo da alcuni fondamentali avvenimenti, dà così origine a una realtà sospesa nel tempo che la fragile malleabilità della plastilina con la quale sono realizzati i personaggi enfatizza.

Tra case di cartone e bizzarri alberi di broccoli, gli oggetti utilizzati rappresentano in qualche modo un aspetto indispensabile per la storia; elementi tangibili, il cui scopo è quello di avvicinare la dolcezza di un ricordo alla purezza della natura. La semplicità del povero mondo contadino, l’incontro con il futuro marito Luigi, i difficili periodi di guerra e la necessità di emigrare in Francia per poter lavorare e sopravvivere: sono gli episodi che caratterizzano il passato di Cesira e che lei stessa descrive al nipote, in un surreale e poetico scambio tra l’universo animato e la presenza reale del regista sulla scena.

Ciò che Ughetto voleva raccontare non è soltanto la storia delle sue origini, ma anche quella di tutti gli immigrati, da qualsiasi parte del mondo essi provengano. Una storia fatta di fatica, di adattamento, di sguardi che lacerano l’anima e lasciano ferite insanabili. Per questo, alcuni stereotipi presenti nel film assumono un significato diverso, come se fossero le immagini percepite da chi si sente invaso e – non conoscendo le altre culture e non capendo le lingue parlate dai migranti – giudica inferiore chi viene da altri paesi. Come il titolo originale ben evidenzia: “vietato ai cani e agli italiani”, una situazione drammatica in cui in passato le nostre famiglie hanno dovuto convivere e che oggigiorno si ripropone nuovamente, rendendoci stavolta partecipi attraverso gli occhi di chi osserva.

Emidio Sciamanna

“VENUS” BY JAUME BALAGUERÓ

Article by: Emidio Sciamanna

Translated by: Noemi Zoppellaro

According to Mesopotamian mythology, the female demon Lamashtu was a devilish creature bringer of nightmares and diseases, who haunted unborn children by brutally ripping them out of their mother’s womb to feed on their blood. Venus, the latest feature by Jaume Balagueró, begins with a terrifying apocalyptic premonition: the reincarnation of the demonic figure is imminent and her coming will bring chaos and pain throughout the planet.

At the centre of the narrative is young Lucía, a dancer in an infamous nightclub run by a group of comically stereotyped criminals. One night, after stealing a big drug shipment from the gangsters, she miraculously manages to find shelter at her sister Rocío’s house, located in a building called Venus, in the decaying outskirts of Madrid. Venus – hence the title of the film – is a gloomy and mysterious place, home to dark presences that have been haunting the unfortunate residents for decades.

Loosely based on H. P. Lovecraft’s short story The Dreams in the Witch House, skilfully reworked by the Spanish director into a “horror story” with strong authorial connotations, Venus recalls in its structure the previous film, Muse, in which the paranormal subtly hovers against the background of an ordinary criminal investigation. Also in this case, the film crawls sinuously through the meanders of genre cinema, combining effectively sci-fi horror with gangster film, without ever becoming trivial or repetitive. Moreover, the caricatural element is intentionally emphasised, continuing the specific project on the grotesque that characterises the entire work of Balagueró.

This is definitely not the Spanish director’s masterpiece, however his ability to direct female figures is confirmed as excellent. In Venus, clearly inspired by Dario Argento’s characters, Lucía moves in a suffocating atmosphere, halfway between the nightmares caused by the demon and the oppressive reality of the daily life that the young woman must constantly face. For her, the building takes on a clear, although paradoxical, ambivalence: it is a prison that holds back her desire to dance, restricting her in a forced immobility caused by fear; but it is also a safe haven, a solid shelter to escape the demons that await her outside, the true nightmare of real life.

“VENUS” DI JAUME BALAGUERÓ

Secondo la mitologia mesopotamica, il demone femminile Lamashtu era una creatura diabolica portatrice di incubi e malattie, che prediligeva perseguitare i nascituri strappandoli con prepotenza dal ventre materno per nutrirsi del loro sangue. Venus, l’ultimo lungometraggio di Jaume Balagueró, inizia con un’agghiacciante premonizione apocalittica: la reincarnazione della figura demoniaca è ormai imminente e il suo avvento porterà caos e dolore in tutto il pianeta.

Al centro della narrazione troviamo la giovane Lucía, ballerina di un malfamato night club gestito da un gruppo di criminali comicamente stereotipati. Una notte, dopo aver rubato ai malavitosi un importante carico di droga, riesce miracolosamente a trovare riparo a casa della sorella Rocío, situata in un edificio denominato Venus nella decadente periferia di Madrid. Venus – da cui il titolo del film – è un luogo lugubre e misterioso, dimora di oscure presenze che da decenni affliggono i malcapitati inquilini del luogo.

Liberamente tratto dal racconto di H. P. Lovecraft, I sogni nella casa stregata, che il regista spagnolo rielabora abilmente in una “horror story” dai forti connotati autoriali, Venus ricorda per struttura il film precedente, La Settima Musa, in cui il paranormale aleggiava impercettibile sullo sfondo di una comune indagine investigativa. Anche in questo caso il film serpeggia sinuosamente tra i meandri del cinema di genere, amalgamando con efficacia l’horror fantascientifico e il gangster movie, senza mai risultare banale o ripetitivo. La componente caricaturale, inoltre, è consapevolmente enfatizzata continuando quel particolare lavoro sul grottesco che contraddistingue tutta l’opera di Balagueró.

Non si tratta certamente del lavoro migliore del regista spagnolo, eppure la sua capacità di dirigere le figure femminili si conferma eccellente. Caratterizzata da un’evidente ispirazione argentiana, la Lucía di Venus si muove in un’atmosfera soffocante, a metà tra gli incubi provocati dal demone e l’opprimente realtà della vita quotidiana che la giovane deve costantemente affrontare. Per lei l’edificio assume una chiara, seppur paradossale, ambivalenza: è una prigione, che limita la sua voglia di ballare imponendole una staticità obbligatoria attraverso la paura; ma è anche una zona sicura, un solido riparo per sfuggire ai demoni che l’attendono all’esterno, pronti a sfruttarla e gettarla via come spazzatura. Nonostante la presenza incombente di creature sovrannaturali e catastrofi cosmiche, per gli oppressi è dunque la società stessa a rappresentare la minaccia più terrificante, il vero incubo della vita reale.

Emidio Sciamanna

“PARLATE A BASSA VOCE” BY ESMERALDA CALABRIA

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Alessandro Pomati

Albania, 1985. After 40 years of indiscriminate exercise of power, the dictator Enver Hoxa died, creating a still unbridgeable void in Albanian politics. Under his leadership, the country experienced some of the darkest pages of its history, and the repression was followed by a diaspora of anything but modest dimensions, with Italy as one of its points of reference in many cases. Redi Hasa, a professional cellist who has been active in Italy for many years, was one of the protagonists of that diaspora and, through his speeches, the consequences of those forty years on the individual and the community are analysed.

Read more: “PARLATE A BASSA VOCE” BY ESMERALDA CALABRIA

And it is he whom Esmeralda Calabria – editor, among others, of Nanni Moretti and Giuseppe Piccioni -, in her first attempt behind the camera, uses as a “cicerone” for her story, rejecting the convention of so much cinema of the real of having only one narrator and choosing instead to make him converse, in front of the camera, with friends and relatives who have experienced what he experienced.  In front of the camera, therefore, anecdotes and considerations are made between the participants, thus making the narration fluent and colloquial, and avoiding any didacticism; art, politics, ideals and identity are discussed with respect to what one is and what one wants to become.

But before looking forward, Calabria seems to want to say, one must necessarily look back, and thus return to the ‘scene of the crime’, Albania, where among the still standing vestiges of that infamous past, the wounds are still open, and one continues to wonder, even when nothing wrong has been done, if more could not have been done; all the while, as some of those interviewed recall, none of the real perpetrators has ever apologised for the atrocities perpetrated. “That was not communism,” says one former theatre actress interviewed, “it was dictatorship pure and simple“. And it is precisely the films featuring the leaders of that dictatorship that become the privileged material for Calabria who, with a thirty-year career in post-production, succeeds in making unprecedented, almost expressionist use of them: projecting them now on the wall of a cave, now on a brick wall, the director effectively evokes that climate of closure and terror from which Hasa (who, born in 1977, knew the period of instability following the fall of the regime better than the regime itself) escaped, and like him thousands of others.

Yet, even after landing and making a career in Italy, the guilt remains: guilt for having fled, guilt for not having done enough for his country in perpetual political crisis, guilt for having left his parents; and a feeling of perpetual statelessness persists. Only a direct confrontation with his homeland, strengthened by what he has learnt on the other side of that wall, as happens in the powerful finale, can put things back on an even keel.

“PARLATE A BASSA VOCE” DI ESMERALDA CALABRIA

Albania, 1985. Dopo 40 anni di esercizio indiscriminato del potere, il dittatore Enver Hoxa muore, creando un vuoto tutt’ora incolmabile nella politica albanese. Sotto la sua guida, il Paese ha conosciuto alcune delle pagine più cupe della sua storia, e alla repressione ha fatto seguito una diaspora di dimensioni tutt’altro che modeste, che ha visto in molti casi come uno dei suoi punti di riferimento l’Italia. Redi Hasa, violoncellista professionista attivo da molti anni in Italia, è stato uno dei protagonisti di quella diaspora e, attraverso i suoi interventi, vengono analizzate le conseguenze di quei quarant’anni sul singolo individuo e sulla comunità.

Leggi tutto: “PARLATE A BASSA VOCE” DI ESMERALDA CALABRIA

Ed è proprio lui che Esmeralda Calabria – montatrice, tra gli altri, di Nanni Moretti e Giuseppe Piccioni –, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, utilizza come “cicerone” per il suo racconto, rifiutando la convenzione di tanto cinema del reale di avere un solo narratore e scegliendo invece di farlo conversare, davanti alla macchina da presa, con amici e parenti che hanno vissuto quello che lui ha vissuto.  Davanti all’obiettivo si procede dunque per aneddoti e considerazioni tra i convenuti, rendendo in questo modo la narrazione scorrevole e colloquiale, ed evitando qualsiasi didatticismo; si discorre di arte, di politica, di ideali e di identità rispetto a ciò che si è e ciò che si vuole diventare.

Ma prima di guardare avanti, sembra voler dire Calabria, bisogna necessariamente guardarsi indietro, e dunque tornare sul “luogo del delitto”, l’Albania, dove tra le vestigia ancora in piedi di quell’infame passato, le ferite sono ancora aperte, e ci si continua a domandare, anche quando non si è fatto nulla di male, se non si sarebbe potuto fare di più; il tutto mentre, come ricordano alcuni degli intervistati, nessuno dei veri responsabili si è mai scusato delle atrocità perpetrate. “Quello non era comunismo”, afferma una ex attrice teatrale intervistata, “era dittatura pura e semplice”. E proprio i filmati che vedono protagonisti i capi di quella dittatura diventano il materiale privilegiato per Calabria che, forte di una carriera trentennale nella post-produzione, riesce a farne un uso inedito, quasi espressionista: proiettandoli ora sulla parete di una caverna, ora su un muro di mattoni, la regista rievoca con efficacia quel clima di chiusura e terrore da cui Hasa (che, nato nel 1977, ha conosciuto meglio il periodo di instabilità successivo alla caduta del regime che non il regime stesso) si è divincolato, e come lui migliaia di altri.

Eppure, anche dopo essere approdato e aver fatto carriera in Italia, il senso di colpa rimane: colpa per essere scappato, colpa per non aver fatto abbastanza per il suo Paese in perenne crisi politica, colpa per aver lasciato i genitori; e persiste un sentimento di perenne apolidia. Solo il confronto diretto con la terra natìa forte di ciò che ha imparato al di là di quel muro, come avviene nel potente finale, potrà rimettere le cose in equilibrio.

Alessandro Pomati

“LE LYCÉEN” DI CHRISTOPHE HONORÉ

“Niente potrà tornare / a quando il mare era calmo” recita Conchiglie, seconda canzone di Andrea Laszlo de Simone ad avere un ruolo centrale in un film di questo 40° Torino Film Festival, dopo Immensità ascoltata in Coma di Bertrand Bonello. E ad agitare le acque della vita del giovane liceale Lucas è l’improvvisa morte del padre (interpretato dallo stesso Honoré), che scatena un’onda d’urto capace di mettere a dura prova la tenuta della famiglia e far emergere zone d’ombra a lungo represse.

Continua la lettura di “LE LYCÉEN” DI CHRISTOPHE HONORÉ

“PARKLAND OF DECAY AND FANTASY” BY CHENLIANG ZHU

Written by: Cristian Cerutti  

Translated by: Ana Paula Da Costa Silva

In an essay on the link between reenactment and fantasy, Bill Nichols reflects on how this technique underlines the gap between past and present, but also between the subjective and objective perception of events. In this way, it creates a surreal dimension that nullifies the idea of total objectivity highlighting its impossibility. In Parkland of Decay and Fantasy, presented in the TFF40 International Documentaries competition, it is the digital image that performs the function described by Nichols through the use of new technologies and especially their capacity of altering images, as in the case of the visionary finale, where the visual evocation of ghosts is at the centre of the narration of Parkland of Desire and Fantasy[1].

Continua la lettura di “PARKLAND OF DECAY AND FANTASY” BY CHENLIANG ZHU

“OCTOPUS” BY KARIM KASSEM

Article by: Francesco Dubini

Translated by: Giuliano Gisotti

On August 4, 2020, a massive explosion destroyed the port of Beirut, killing 220 people and injuring 7,000. The day just before that, director Karim Kassem had arrived in the city’s port area to shoot a film he will never make, Octopus. In its place is this Octopus: the title remains, but it is a completely different film. It is the symphonic lament of a city left voiceless.

Continua la lettura di “OCTOPUS” BY KARIM KASSEM

“PAMFIR” BY DMYTRO SUKHOLYTKYY-SOBCHUK

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Francesco Ghio

“So Abraham got up early in the morning, saddled his donkey, and took two of his young men with him and his son Isaac; and he split the wood for the burnt offering, and then he got up and went to the place of which God had told him.” Genesis 22:3

The biblical account shows that Abraham, moved by great faith, had no hesitation. Leonid, however, is a pagan, Leonid does not believe. And in order to offer the best future to his progeny, he is willing to transgress ethical norms and human laws, consequently going so far as to defy God.

READ ALL

“PENSIVE” BY JONAS TRUKANAS

Article by: Giuseppe Catalano

Translated by: Alice Bettinelli

A class in its last year of high school, a wild party in a remote cottage in the woods of Lithuania, a masked serial killer. These few elements are enough for any horror connoisseur to guess where Jonas Trukanas will take us with the narrative of Pensive, his first work competing in the “Crazies” section of the 40th edition of the Torino Film Festival.

READ ALL

“THE FIRE WITHIN: REQUIEM FOR KATIA AND MAURICE KRAFFT” BY WERNER HERZOG

Article by Fabio Bertolotto

Translated by Maria Bellantoni

The Fire Within is a film that focuses less on Herzog’s interest in volcanoes – already demonstrated in La Soufrière (1977) and Into the Inferno (2016) – than on the work of Katia and Maurice Krafft. A requiem, as the subtitle suggests, that revolves around the death of the two famous volcanologists while they were closely studying those giants towards which they felt a real obsession.

read all

“HUESERA” BY MICHELLE GARZA CERVERA 

Article by: Marta Faggi

Translated by: Rachele Pollastrini

“Huesera”, in Spanish, refers to an expert in treatment of bones and joints diseases. The term, however, also designates The Woman of the Bones, a figure from Mexican mythology whose task is to gather the bones of the dead, symbol of the vital force that doesn’t wear out, and to pray until flesh returns to inhabit those remains, recreating life from disjointed parts. The bones of Valeria (Natalia Solián), in Huesera, constantly creaking, because getting her fingers and the joints of her back crinckled is the protagonist’s way of trying (and not always succeeding) to drain its discomfort out of the body, her frustrations, her ineptitudes. Tormenting Valeria is the awareness that she will soon be a mother: a motherhood apparently sought after, but intimately unwanted.

Continua la lettura di “HUESERA” BY MICHELLE GARZA CERVERA 

“HUESERA” DI MICHELLE GARZA CERVERA

“Huesera”, in spagnolo, indica la persona esperta nel trattamento delle malattie delle ossa e delle articolazioni. Il termine, però, designa anche La Donna delle Ossa, figura della mitologia messicana il cui compito è di radunare le ossa dei defunti, simbolo della forza vitale che non si consuma, e di pregare finché la carne non torna ad abitare quei resti, ricreando la vita da parti disgiunte. Le ossa di Valeria (Natalia Solián), in Huesera, scricchiolano continuamente, perché farsi scrocchiare le dita delle mani e le giunture della schiena è il modo con cui la protagonista prova (e non sempre riesce) a drenare fuori dal corpo il suo malessere, le sue frustrazioni, le sue inettitudini. A tormentare Valeria è la consapevolezza che sarà presto madre: una maternità apparentemente ricercata, ma intimamente non voluta.

Continua la lettura di “HUESERA” DI MICHELLE GARZA CERVERA

“GODLAND” BY HLYNUR PÁLMASON

Godland, ultimo film di Hlynur Pálmason, già vincitore della sezione lungometraggi del Torino Film Festival con A white, white day (2019), è una storia di frontiera, il racconto di un prete e fotografo danese (Helliott Crosset Hove) costretto a percorrere l’impervio territorio islandese per raggiungere un villaggio della costa sud-occidentale e costruirci una chiesa. Della spiritualità religiosa, tuttavia, rimane solo il corpo – la carne del mondo nella sua ineluttabile decomposizione. Una spiritualità, quindi, costantemente rigettata nella visceralità delle carni animali, nella trivialità del fango fuori dalle chiese e nell’imprevisto volo di una mosca sul volto senza macchia di un prete. 

Article by: Federico Lionetti

Translated by: Noemi Zoppellaro

Godland, the latest film by Hlynur Pálmason, already winner of the feature film section of the Torino Film Festival with A white, white day (2019), is a frontier story, an account of a Danish priest and photographer (Helliott Crosset Hove) forced to travel across the impervious Icelandic territory in order to reach a village on the southwest coast and to build a church there. However, it is only the body that remains from the religious spirituality – the flesh of the world in its inevitable decomposition. A spirituality, therefore, that constantly falls into the viscerality of the animal flesh, into the triviality of the mud outside the churches and into the unexpected flight of a fly on the spotless face of a priest.

READ MORE

“GODLAND” DI HLYNUR PÁLMASON

Godland, ultimo film di Hlynur Pálmason, già vincitore della sezione lungometraggi del Torino Film Festival con A white, white day (2019), è una storia di frontiera, il racconto di un prete e fotografo danese (Helliott Crosset Hove) costretto a percorrere l’impervio territorio islandese per raggiungere un villaggio della costa sud-occidentale e costruirci una chiesa. Della spiritualità religiosa, tuttavia, rimane solo il corpo – la carne del mondo nella sua ineluttabile decomposizione. Una spiritualità, quindi, costantemente rigettata nella visceralità delle carni animali, nella trivialità del fango fuori dalle chiese e nell’imprevisto volo di una mosca sul volto senza macchia di un prete. 

Continua la lettura di “GODLAND” DI HLYNUR PÁLMASON

“PINBALL – THE MAN WHO SAVED THE GAME” DI AUSTIN E MEREDITH BRAGG

«La storia è importante». Lo sa bene il vecchio Roger Sharpe (Dennis Boutsikaris), narratore, non del tutto affidabile, della vicenda che lo ha reso famoso in tutti gli Stati Uniti d’America e, collateralmente,  della sua storia d’amore con Ellen (Crystal Reed): queste le due anime che si incontrano nell’ultimo film di Austin e Meredith Bragg, presentato fuori concorso alla 40esima edizione del Torino Film Festival.

Continua la lettura di “PINBALL – THE MAN WHO SAVED THE GAME” DI AUSTIN E MEREDITH BRAGG

“RIOTSVILLE, USA” BY SIERRA PETTENGILL

Article by: Alice Ferro

Translated by: Arianna Deiro

A neat line of shops appears on screen, billboards sparkle on the walls and the vibrant technicolour of the Sixties almost gives us a sense of peace. It looks like a typical post-war American city, quiet and geometric, maybe too much. The narrating voice asks, “What are we looking at?” and a doubt awakens in us: the buildings are as fake as panels of a set design, the roads look as if they’ve never been walked on, the paint on the signs is new and shiny. This is Riotsville, one of the fake cities built by the American government in the Sixties as military training bases. In these cities, crowds of plain-clothes soldiers staged riots, complete with an audience and cheers, so that their colleagues could learn how to contain them, all in preparation for the civil rights protests that would unleash in the Summer. 

Continua la lettura di “RIOTSVILLE, USA” BY SIERRA PETTENGILL

“RIOTSVILLE, USA” DI SIERRA PETTENGILL

Una fila ordinata di piccoli negozi appare sullo schermo, i manifesti pubblicitari scintillano sui muri e il vibrante technicolor anni Sessanta ci dà quasi un senso di pace. Sembra una tipica città americana del dopoguerra, tranquilla e geometrica, forse troppo. La voce narrante chiede “Che cosa stiamo guardando?” e desta in noi un dubbio: gli edifici sono finti come i pannelli di una scenografia, le strade sembrano non essere mai state calpestate, la vernice delle insegne è fresca e brillante. Si tratta di Riotsville, una delle finte città costruite dal governo americano negli anni Sessanta come basi di addestramento militare. In queste città, folle di militari in borghese mettevano in scena, con tanto di pubblico e applausi, vere e proprie rivolte affinché i loro colleghi potessero imparare a contenerle in vista delle proteste per i diritti civili che si sarebbero scatenate in estate.

Continua la lettura di “RIOTSVILLE, USA” DI SIERRA PETTENGILL

“PLAN 75” BY CHIE HAYAKAWA

Article by: Marta Faggi

Translated by: Lia Colombo

Michi (Chieko Baishô) evokes memories of her past over the phone: she goes through her life with great melancholy, and she appears grateful to have someone to listen to her. Nothing but her own voice can be heard in her kitchen. On the end of the phone, we find Yoko (Yumi Kawai). She is much younger than her and she remains silent. Even though she would be interested in the old woman’s story, her head is elsewhere. A sudden alarm interrupts Michi’s flow of words: her time is up. Yoko is holding back tears. Eventually Yoko explains to her what will happen the next day and she keeps begging her not to do “it”. Michi hushes “Sayonara.”

read all