Chi l’avrebbe mai detto che in Piemonte, in due paesini ai piedi delle Alpi, vive una delle comunità cinesi più popolose d’Europa?
Il documentario di Francesca Bono mira a scoprire ed entrare in intimità con questa comunità, seguendo la vita scolastica e privata di alcuni adolescenti cinesi, nati in Cina ma da sempre in Italia.
“Mi sono detto: ma se prendessimo una storia di ragazzi e la rappresentassimo come se fosse Shining? Mi piaceva raccontare una storia di adolescenza ma come se fosse un film horror, perché l’adolescenza a volte può essere decisamente horror”. Con queste parole Andrea De Sica presenta I figli della notte, film in concorso al Torino Film Festival 2016, giustificando la scelta di un genere lontano dalle tendenze del cinema italiano contemporaneo. Non una commedia sui giovani, quindi, né tantomeno un film “sulla solita freddezza dei ragazzi ricchi”: De Sica cerca l’empatia tra personaggi e spettatore proponendo un horror teen rivisitato e decisamente fuori dagli schemi. Continua la lettura di “I figli della notte” di Andrea De Sica→
Fixeur is a film about a moral issue: how far can a journalist investigate? And how much information can the press show?
“Fixeur” is a journalist who, when dealing with a big shot, prefers not to write an article personally, and instead he becomes an intermediary for another, more famous, foreign journalist, in order to increase his profit and prestige. That’s what Radu (Tudor Istodor) does; he’s a wannabe journalist who, in order to establish himself, is willing to trample on ethical principles, looking for a girl who has been victim of child prostitution trade, who has been repatriated from Paris where she worked as a prostitute and now she has denounced who had kidnapped and exploited her.
Fixeur è un film su un dilemma morale: fino a che punto un giornalista può arrivare a indagare? E fino a che punto il giornalismo e l’informazione possono mostrare?
“Fixeur” viene chiamato il giornalista che, quando ha per le mani un colpo grosso, per accrescere il proprio guadagno e prestigio preferisce non scrivere personalmente un articolo, ma fare da intermediario per un altro giornalista straniero più importante. E’ quello che fa Radu (Tudor Istodor), aspirante giornalista che pur di affermarsi è disposto a calpestare i principi morali dando la caccia ad una ragazza quattordicenne che è stata vittima della tratta delle minorenni, è stata rimpatriata da Parigi dove lavorava come prostituta ed ora ha denunciato chi l’aveva rapita e sfruttata.
La mattinata di conferenze stampa di sabato 19 novembre si conclude con l’intervento di Gabriele Salvatores, guest director della trentaquattresima edizione del TFF. Le domande vertono inevitabilmente sulla scelta dei cinque pezzi facili che hanno dato il nome ad una delle sezioni del festival di quest’anno. Il film prediletto, racconta il regista, è senza dubbio Jules et Jim, emozionante e dolcemente evocativo fin dal titolo e fedele custode del ricordo di un giovane Salvatores che da semplice spettatore diventa un cinéphile consapevole.
Anna Biller is a director who can also be called “artisan” in every way: she takes care of the direction, the screenplay, costumes, photography, editing and production. For the first time, in this movie she does not appear as actress, choosing as the main character the beautiful Samantha Robinson, who is able to combine sensuality and empathy, which are required to bring to life the figure of a mermaid-witch (a pair that nowadays, as stated by the director, is difficult to portray).
The director, a fan of Pasolini’s cinema, explains her choice for the artisanal dimension with economical justifications and with her will to work along with some traditional and accurate women’s job like weaving and embroidery.
Anna Biller è una regista che si può definire “artigiana” in tutti i sensi: si occupa da sola della regia, della sceneggiatura, dei costumi, della fotografia, del montaggio e della produzione; in questo film per la prima volta non appare come attrice, scegliendo come protagonista la bellissima Samantha Robinson, in grado di unire la sensualità e l’empatia necessaria per dar vita a una figura di strega-sirena (un binomio che – come ha dichiarato la regista – è difficile da mettere in scena oggigiorno).
La regista, ammiratrice del cinema di Pasolini, giustifica la scelta della dimensione artigianale con motivazioni economiche e con la volontà di lavorare in sintonia con alcuni tradizionali e meticolosi lavori femminili come la tessitura e il ricamo.
The Wallis Islands community, in New Caledonia, is crying for young Soane’s departure towards an apparently thriving and promising future, which will certainly be better than his perspectives as a Maori community member. Though he is leaving, his back will always wear the scars of his father’s beatings, who is a tough pig farmer.
The journey of young and talented rugby player Soane will turn out to be the price to pay for the freedom he has always searched inside his heart. France, apparently civil and modern, is just the other face of Wallis. If the latter is a wild and insidious land, the new country, rich in comforts and services, is just not the right place for the naïve protagonist.
La comunità delle isole Wallis in Nuova Caledonia piange il giovane Soane per la sua partenza verso un futuro apparentemente florido e promettente, sicuramente migliore delle prospettive che avrebbe avuto vivendo nella comunità Maori. La sua schiena porterà per sempre i solchi delle vergate che il padre, duro allevatore di maiali, gli ha inferto per la sua partenza.
Il viaggio di Soane, giovane promessa del rugby, si rivelerà il prezzo da pagare per la libertà che ha sempre cercato nel suo cuore; la Francia, paese apparentemente civile e moderno, non è che l’altra faccia di Wallis: se quest’ultima è una terra selvaggia e insidiosa, ma forte di tradizione, il nuovo paese, ricco di servizi e confort, non è affatto un luogo adatto al giovane e ingenuo protagonista.
Qual è il gergo con cui i personaggi del Romanino comunicano tra sé e col visitatore che sappia vedere l’invisibile e ascoltare oltre il silenzio? Elisabetta Sgarbi non ha dubbi: è la lingua dei furfanti.
La lingua dei furfanti è l’ultimo film di Elisabetta Sgarbi, presentato in anteprima assoluta nella sezione Festa Mobile al 34° Torino Film Festival. L’opera si ispira al libro La Sistina dei poveri di Giovanni Reale.
“Un film ininterrotto, questo” – dice Elisabetta Sgarbi -, “che mi segue da anni. Anzi da cui sono inseguita da anni, da prima di conoscere la Valle Camonica, da prima di conoscere Romanino: da quando mio zio Bruno, mia madre Rina, e poi mio fratello Vittorio, si arrampicavano sin lassù, precedendomi. Così che questo film, così personale nei modi, mi sembra una strana biografia familiare, un mio nascosto romanzo di formazione, che ho condiviso con un altro amico e compagno di avventure, Giovanni Reale.”
L’interesse di Elisabetta Sgarbi è quindi rivolto a Girolamo Romanino e torna in Valle Camonica, dopo il suo lavoro sulla Via Crucis di Cerveno di Beniamino Simoni, avendo in mente le dense parole di Testori, e presenti le puntuali ricostruzioni di Giovanni Reale (che dimostrano la profonda conoscenza della materia di fede che aveva Romanino).
Giovanni Testori scriveva: “a Pisogne, a Breno, a Bienno Romanino tiri a far ‘cagnara’, non v’ha dubbio alcuno. Egli sembra costringere i suoi personaggi a venire sulla scena a furia di calci nel sedere; e non è meraviglia che, una volta lì, essi, tra impetuosa incapacità a organizzarsi, in lingua e vergogna, finiscano col gonfiar tutto; a cominciare dalle loro stesse membra per finire alle parole che ruttan fuori quasi nubi di fumetti odoranti d’osteria, e alle piume dei cappellacci, che si rizzano, unte e bisunte, come quelli di tacchini incazzati.”
La regista assume come oggetto del proprio lavoro il ciclo di affreschi che il pittore realizzò tra il 1532 e il 1541 in tre chiese a Pisogne, Breno e Bienno in provincia di Brescia, si muove tra le case e gli abitanti dei tre paesi che Romanino aveva osservato a lungo e concentra l’attenzione sui dettagli nascosti dei dipinti.
Elisabetta Sgarbi sottolinea quanto siadi fondamentale importanza la voce narrante Toni Servillo, il cui timbro caldo, unito alle doti interpretative, riesce a “far parlare i personaggi” degli affreschi e ad esaltare sfumature e risvolti rappresentativi. Anche la musica di Franco Battiato si inserisce perfettamente in questo viaggio di scoperta.
Emanuela Martini has introduced the screening of the restored version of Intolerance by David Wark Griffith saying she was a bit jealous of the spectators who would have the possibility to watch such an important film on the big screen, after ten years from its first showing. The turnout – as she said – was impressive, taking into account the duration of the movie.
Emanuela Martini ha introdotto la proiezione della versione restaurata di Intolerance di David Wark Griffith dicendosi un po’ invidiosa di tutti gli spettatori che avrebbero avuto la possibilità di vedere un film come questo sul grande schermo, a cent’anni dalla sua uscita. L’affluenza – ha aggiunto – è stata sorprendente, tenuto conto della durata del film.
È una storia singolare quella di Chi mi ha incontrato, non mi ha visto. L’ultima fotografia di Arthur Rimbaud, l’ultimo film del regista milanese Bruno Bigoni. Un documentario travestito da mockumentary (o viceversa?), è la dimostrazione di ciò che è accaduto al regista dal giorno in cui una misteriosa donna francese gli propone l’acquisto di una fotografia che raffigurerebbe nientemeno che Arthur Rimbaud su un letto di ospedale, la gamba destra amputata e in mano un foglio su cui sono scritti alcuni versi inediti e mai pubblicati nelle opere del poeta bambino.
“L’ immaginazione può trasformare un’idea proveniente da una lezione teorica in una sconvolgente esperienza emotiva. Per questo abbiamo scelto di raccontare We Are the Tide come una moderno lungometraggio di science- fiction“. Queste le parole di Sebastian Hilger, regista del film Wir sind die Flut, in corsa in questo trentaquattresimo Torino Film Festival.
#Screamers è un film molto particolare. Si apre come un documentario su una piattaforma di social network, per poi mutare gradualmente in un horror a tinte molto oscure.
Il regista Dean Matthew Ronalds e l’attore protagonista e coproduttore Tom Malloy ci spiegano che questa commistione di generi ha come fine principale quello di sollevare sin dall’inizio il dubbio nella mente dello spettatore. Si tratta di un horror o di un documentario? Giocare con i generi diventa quindi un modo per creare qualcosa di completamente diverso. Un ibrido, che per un’ampia parte iniziale sviluppa la trama, focalizzandosi molto sulla costruzione del carattere dei personaggi.
“Imagination is able to transform an idea coming from a theoretical lesson into an upsetting emotional experience. For that reason, we’ve decided to tell We Are The Tide as a modern sci-fi feature film”. Those are Sebastian Higle’s words, the director of Wir sind die Flut, running for the 34° edition of the Torino Film Festival.
Molte risate in sala per il primo lungometraggio di Maha Haj, Personal Affairs, presentato nella sezione Festa mobile. Una commedia sorprendente ed esilarante ma che non manca di profondità.
La selvaggia parata di Suburra: una questione privata
Quello di Suburra è un immaginario che si dipana su orizzonti disparati, disorientanti ma mai incoerenti. Questo massimalismo tematico, prima ancora che stilistico, obbliga qualsiasi spettatore, dal più critico al più disinteressato, a confrontarsi con un torrente di questioni politiche e morali, a fare appello a memorie storiche e affettive, a calarsi in una contemporaneità che non puzza lontanamente di cronaca. L’ultima fatica di Stefano Sollima e della sua giustamente definita da qualcuno “bottega” scansa in questo modo il pericolo sempre dietro l’angolo di un postmodernismo facile, bandendo così dallo schermo qualsiasi tentazione di pastiche cinefelo e costruendo la narrazione su due figure che risultano sorprendentemente consone ed attuali ad una tale opera: l’iperbole e l’allegoria. Questo pare chiaro sin dal primo cartello: “5 Novembre 2011 – Sette Giorni Prima Dell’Apocalisse”.
Cinque opere scelte all’interno della vastissima produzione del film-maker e teorico tedesco Harun Farocki mettono in questione il mondo delle immagini, i modi della loro produzione e l’uso all’interno della società contemporanea.