Punta Sacra, una punta di terra dimenticata alla foce del Tevere. Vi vivono, lottando, cinquecento famiglie; le separa dal mare solo una riga di rocce. Per Francesca Mazzoleni, vincitrice al Visions du Reel 2020, questo film è “un pezzo di vita”, il risultato di tanti anni trascorsi a conoscere gli abitanti del luogo e a “condividersi” con loro. L’idea di farne un film è maturata tardi, tanto che Punta Sacra è stato girato – in tre mesi – a otto anni di distanza dal suo primo incontro con la comunità. Un film al femminile dedicato alle donne, giovani e adulte, che vivono in quel fazzoletto di case minacciato dalla furia dell’acqua e dell’oblio.
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Dopo Countdown (2012) e Bad Genius (2017), Nattawut Poonpiryia torna al Far East Film Festival con One for the Road, un atipico buddy movie che si muove, attraverso innumerevoli flashback e flashforward, in diversi tempi e diversi spazi con la stessa facilità con la quale i protagonisti, Boss (Thanapob Leeratanakachorn) e Aood (Nattarat Nopparatayapon), si spostano tra Bangkok e New York.
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La vecchia Phnom Penh sta sparendo. Gli occhi sperduti e incerti di Samnang (Piseth Chhun) contemplano in tempo reale la demolizione della città che conosce e abita, corrosa dalle forze della gentrificazione. Come nella Fenyang di Jia Zhangke, le trasformazioni in atto sono profonde al punto da riscrivere la storia stessa. Sul passato, obliterato, si sovraimprime il futuro. Si attacca lo spazio per plasmare – violentandolo – il tempo. «Old buildings are disappearing, taking swathes of our past with them, while condos, malls, and modern air-conditioned stores pop up everywhere. But what has changed most […] is the rhythm of the city»1: così Kavich Neang sintetizza una mutazione che riguarda non solo il tempo storico, culturale, ma anche quello vitale, performativo, della sua città. E, per sineddoche, della sua società. A una forsennata riscrittura architettonica del mondo votata alla cancellazione, White Building oppone il tempo di un respiro profondo, di un requiem.
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Eggers si lascia alle spalle l’intellettualismo claustrofilo-cameratista di The Lighthouse (2019) per lanciarsi in una virilissima epopea vichinga fatta di rutti, flatulenze e massacri. Una storia di vendetta hardcore, lineare fino alla ridondanza, modellata un po’ sull’Amleth di Saxo Grammaticus e un po’ sulla legge del taglione. L’eroe è qui spogliato delle sofisticazioni shakespeariane e ricondotto a una corporeità originaria, de-pensante. Riflettere, nell’universo fatalista sceneggiato dalle Norne, è da assoluti imbecilli: basta adempiere al proprio destino, ammazzando chi si deve ammazzare, copulando con chi si deve copulare. Eventualmente, ammazzare qualcuno in più. Altrimenti, a che servono le comparse?
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In un mondo in cui i vassoi volano autonomamente, a cosa servono i camerieri? Eppure, il Wizarding World ne è pieno. A cosa serve una pentalogia incentrata sul magizoologo Newt Scamander (Eddie Redmayne) e sulle sue animalesche avventure quando basterebbe un unico lungometraggio dal successo assicurato incentrato sullo scontro tra Silente e Grindelwald? Eppure, siamo già al terzo film.
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How to Save a Dead Friend, (come) salvare un amico morto: questa la volontà testamentaria del commovente lavoro autobiografico di Marusya Syroechkovskaya (in concorso feature film al Visions du Réel), cruda documentazione di quindici anni di vita nella Russia a cavallo degli anni dieci del 2000. Un paese distruttivo, antidemocratico, che si regge su una costituzione votata, nel 1993, dal 30% della popolazione e dove la depressione giovanile è una piaga sociale dilagante. Un film che innesca riflessioni profonde sul senso esistenziale del cinema e sul legame carnale che i film (come questo) interessati alla realtà, sono in grado d’intessere con la vita. Un film che intaglia nella memoria un ricordo indelebile, segna un prima e un dopo, sposta le certezze. La visione di How to Save a Dead Friend è lacerante ma non mortifica: accende al contrario la felice consapevolezza che il cinema è risorsa vitale e illuminante nell’esperienza umana su questa terra. Anche di fronte alla morte.
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“Beh, sai come funziona la memoria. Anche se dormiva, un giorno crederà di avere visto tutto.”
Per raccontare la sua infanzia, come quella di tutti gli altri ragazzi nati a Houston e dintorni negli anni ‘60, Richard Linklater torna ad avvalersi dell’animazione in rotoscopio ben sedici anni dopo A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly, 2006). Se in quell’occasione la tecnica gli forniva la possibilità di avvicinarsi allo sfumato universo dickiano, fatto di fantasia e immaginazione ma anche, più pragmaticamente, di paranoia e droga, in Apollo 10 e mezzo (Apollo 10 1/2: A Space Age Adventure, 2022) si tratta invece di una scelta che si rivela la maniera più immediata per far coesistere le due anime del film: da una parte la ricostruzione puntuale ed esaustiva della vita americana alla fine degli anni ’60, dall’altra la fantascientifica avventura del piccolo Stan.
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America, oggi. Johnny (Joaquin Phoenix), affermato giornalista radiofonico, sta realizzando una serie di interviste a bambini e adolescenti sulla loro visione del futuro della Terra nell’inoltrato XXI secolo. Mentre si trova a Detroit, riceve una telefonata dalla sorella Vivian (Gaby Hoffman), che lo prega di recarsi da lei e dal suo figlioletto Jesse (Woody Norman) a Los Angeles a causa dell’improvvisa partenza del marito di lei, affetto da una grave forma di bipolarismo. Giunto sul posto, Johnny viene chiamato a occuparsi del bambino mentre lei parte per andare a occuparsi del marito a Oakland; ma anche le necessità lavorative vogliono la loro parte, e così Johnny decide di portare il nipote con sé “a spasso” per l’America per concludere il ciclo di interviste. Il viaggio avrà importanti ripercussioni su entrambi.
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La decisione di Leda (Olivia Colman) di trascorrere una vacanza in Grecia all’insegna dell’ozio viene insidiata da vicini chiassosi e sinistri che ne turbano la quiete e destano la sua curiosità, innescando una fatale dinamica di attrazione e repulsione. A catturare il suo sguardo è in particolare la giovane Nina (Dakota Johnson) il cui rapporto di complicità e conflitti con la figlia piccola ne fa presenza fantasmatica della sé del passato (Jessie Buckley) e della sua maternità dolorosa.
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In Licorice Pizza, commedia romantica che segue le peripezie di due adolescenti nella San Fernando Valley del ’73, Gary (Cooper Hoffman), attore e imprenditore in erba, inizia a corteggiare Alana (la cantante Alana Haim) di dieci anni più grande. I due cominciano a uscire insieme quasi per scherzo e, nonostante la differenza di età, diventano inseparabili, spalleggiandosi a vicenda nelle attività in cui decidono di cimentarsi: partecipare a provini per recitare in piccoli ruoli, vendere materassi ad acqua o curare la campagna elettorale di un futuro governatore.
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«Cosa significa la parola casa per te?»
«È un luogo sicuro, in cui stai e non devi andartene.»
È subito esplicitato il fil rouge di Flee, documentario animato che concorre agli Oscar di quest’anno in tre categorie mai accumunate prima (Miglior Documentario, Miglior Film Internazionale e Miglior Film d’Animazione). Che cosa significa la parola “casa”? La domanda aleggia fin dai primi fotogrammi e racchiude in sé il dramma di una fuga mai conclusa, una straziante odissea nel cuore del protagonista, orfano sospeso e strappato alla sua terra d’origine. Nello spazio rassicurante dell’animazione e nella cornice di una seduta analitica condotta dal regista Jonas Poher Rasmussen, Amin Nawabi (pseudonimo che proteggere la sua vera identità) racconta per la prima volta la sua vita da esule, in fuga dall’Afghanistan in giovane età per salvarsi dagli orrori della guerra. Flee è, per lui, il primo luogo sicuro da tanto tempo. Lo spettatore lo percepisce, sa che può entrare in questa narrazione solo come ospite, in punta di piedi. Chiede permesso prima di varcare la soglia, per essere certo di non violare uno spazio costruito con tanta difficoltà.
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Il ticchettio di un orologio accompagna i titoli di testa. Compare una donna anziana: “Alexandrie”. La donna suggerisce a una bambina la risposta alla domanda di un cruciverba. Nelly, la bambina protagonista del film, si alza e inizia a camminare, seguita in long take dalla macchina da presa, entrando nelle varie stanze a salutare le abitanti di una casa di riposo. Nell’ultima incontra la madre intenta a svuotare la camera della nonna della bambina appena deceduta. Nel prologo di Petite Maman di Céline Sciamma si trovano in nuce tutti i temi che caratterizzano il film: lo scorrere del tempo, il lutto, il dire addio.
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1946. All’indomani della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, una nicchia del cimitero del Verano a Roma viene aperta per estrarvi un’urna funeraria. Le ceneri in essa contenute sono del drammaturgo e romanziere Luigi Pirandello, che da dieci anni attendono di essere spostate nell’agrigentino, luogo di nascita dello scrittore. A un modesto impiegato comunale (Fabrizio Ferracane) viene affidato l’ingrato compito di affrontare il viaggio da Roma alla Sicilia per dar loro finalmente degna sepoltura.
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Per inscenare la tragedia di Strahinja (Ibrahim Koma) e Ababuo (Nancy Mensah-Offei) – due migranti ghanesi condannati a errare nelle waste lands geografiche e burocratiche di un’inospitale Est Europa – Stefan Arsenijević ricalca e rimodella il poema epico-cavalleresco serbo Strahinja Banović. L’operazione persegue un (almeno) duplice scopo.
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Dopo esser stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e in vari festival internazionali nel corso del 2021, Întregalde di Radu Muntean inaugura il nuovo anno vincendo la 33esima edizione del Trieste Film Festival. Nonostante si muova su territori già battuti, in particolare dai suoi colleghi della “nuova onda rumena”, il film persuade lo spettatore a intraprendere un viaggio intorno al confine sottile che separa empatia e narcisismo, altruismo e ipocrisia.
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C’è qualcosa di insondabile in America Latina, un film che stupisce per la sua capacità di depistare lo spettatore prendendolo continuamente in contropiede, facendolo sentire sballottato e smarrito come il protagonista di cui racconta. Il nuovo film dei fratelli D’Innocenzo è un thriller psicologico a tinte horror, sorretto da un grande Elio Germano, che ri-conferma il talento dei due cineasti.
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A Kutaisi, seconda città della Georgia, si consuma un orribile maleficio: Lisa (Oliko Barbakadze), giovane farmacista, e Giorgi (Giorgi Ambroladze), calciatore semi-professionista, si incontrano casualmente in una calda giornata d’estate. Subito tra i due scatta la “scintilla” e si dànno appuntamento per rincontrarsi in un bar il giorno successivo. Ma, durante la notte, l’aspetto fisico di entrambi cambia completamente, e i due si ritrovano a vagare per la città in cerca l’uno dell’altra. Servirà un incantesimo altrettanto potente per spezzare il maleficio che ha colpito i due innamorati.
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Dopo Stray Dogs (2013), film che ha richiesto uno iato lungo sette anni per vedere assorbita l’eco del suo silenzio, Tsai Ming-liang torna al lungometraggio di finzione con Days (2020). Nel tempo intercorso, una sottile metamorfosi ha attraversato sotterraneamente il suo fare cinema: se in Stray Dogs si può rilevare una radicalità espressiva che – oltre a riaffermare – potenzia i tratti distintivi di Tsai, in Days nessuna forma resiste. Se non come riverbero simulacrale di quanto è stato, formalismo ingenerato nell’occhio di chi guarda.
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In sala per poche settimane e a Natale su Netflix, Don’t Look Up è una commedia divertente ma disillusa, sorretta da interpreti d’eccezione e capace di ibridare il cinema impegnato con quello di puro intrattenimento.
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JOANNA HADJITHOMAS E KHALIL JOREIGE
Article by Elio Sacchi
Translated by Federica Maria Briglia and Mattia Prelle
The cinema of Joanna Hadjithomas and Kalil Joreige – to whom the thirty-ninth edition of the Turin Film Festival dedicated a solo show and a masterclass, both curated by Massimo Causo – may lie between the beginning and the end of their artistic and cinematographic career. That means it is between the postcards of the opening credits of their first feature film, Around the Pink House (Al Bayt Al Zaher, 1999), and the box, the audiovisual archive of memory and remembrance that, like a very personal and foreign body, opens Memory Box (2021). Between these two extremes, within the more general framework of the history of Lebanon, of its destruction and of its reconstruction, there is a long and complex reflection on cinema, on the status of the image and, in particular, of the memory-image. When the past passes, the construction of a collective and shared memory becomes a difficult operation, which leaves enough room for memories and handy images that preclude the possibility of a complex narrative in favour of a superficial, conciliatory and pacifying narrative. This is what often happens after internal or fratricidal wars, which are followed by a reconstruction so fast that the past cannot be processed. This is also the case of Lebanon, considered the Switzerland of the Middle East in the 1960s: it was turned upside down first by a civil war and then by the conflict with Israel. The whole artistic parable of Hadjithomas and Joreige refers to this reality, and, in addition to cinema, crosses over into photography, performance arts and plastic arts. Their artistic parable contains its own moment of reflection and self-reflection. It is particularly evident in the performance Aida Sauve Moi, which makes explicit the questions that drive the expressive and creative urgency and necessity of the two directors: this is an indefinite and permeable border between reality and fiction, between personal experience and history. Their parable also contains the concept of latency, which is not only the physical, chemical and material concept of the negative impressed and never developed, but it also represents all the individual and particular latent stories, existing and never revealed, of the kidnapped and murdered Lebanese citizens, and of all the corpses that have never been found. Other elements included in their artistic parable include: the materiality of the image and of the testimonial object itself; the crossing and the attempt to take back public and collective spaces; and, finally, a boundless love for cinema. The last of these elements should be interpreted above all as an instrument of resistance and political commitment (in this regard, see Open the Door, Please [2006], a passionate and cinephile homage to the cinema of Jacques Tati). Joanna Hadjithomas and Kalil Joreige’s one is a self-reflexive cinema that also reflects on the status of the images it represents. This cinema has its genesis precisely in the overexposure to stereotyped images, whether they concern the civil war or the 1960s, as witnessed during the masterclass entitled Memory Work – Resistant Aesthetics in Hadjithomas & Joreige’s works (Rosita Di Peri also attended the event).
Actually, Around the Pink House has its origin in an earlier photographic project called Wonder Beirut. Hadjitomas and Joreige invented the figure of a Lebanese photographer, who immortalised Beirut in the 1960s and 1970s, before the civil war; the photographer then literally and materially burnt the buildings depicted on his postcards as they were bombed until the images were completely transfigured. The film does not tell the story of the Lebanese civil war, but rather the reconstruction of the capital in the 1990s, a period in which “the sound of bombs has given way to that of bulldozers” and in which the rubble shown in the background, physical and painful traces of a recent past, enters into a profound dialectic with the story of reconstruction and rebirth, which nonetheless involves the destruction of entire buildings. The maison rose itself is an archive of memory, of Lebanon’s history, a physical place that bears the marks of war, the memories of people who disappeared and the presence of refugees who were forced to leave their villages.
The maison rose is also an attempt done by a community to take its space back. This is the same public and collective space that Catherine Deneuve, the spirit of European cinema invoked in Lebanon as a foreign and empathetic body and led by Rabih Mrué (a recurring actor in the filmography of Hadjithomas and Joreige, he is a face that embodies the generational drama), wants to see but is prevented from doing so.
Je veux voir (2008) is a journey through a country devastated by the conflict with Israel. It stems from the need to show unconventional images (i.e. different from those broadcast by the various television stations) and to investigate new places, in a sort of palingenesis of the gaze and images of war. While in Rounds (2001), the wandering around the city – a Beirut that uses the rubble of buildings to build new roads by the sea – programmatically precludes the vision of public and city space, which is relegated to an off-screen that is always overexposed. Kiam 2000 – 2007, which began in 1999 and ended in 2008, is also the ideal counter-field to Je veux voir, since the detention camp described in it is an absolute off-screen narration, which can be only imagined by the human testimonies of the internees who invite us to reconstruct it in absentia. The film opens, once again, to an explicit reflection on memory. In 2006, in fact, the camp was turned into a museum and, still in 2006, was bombed by the Israeli army. Made almost entirely with rigorous close-ups and extreme close-ups, these vicissitudes gave rise to the need for Kiam: the urgency of the testimony necessarily refers to the camp, to its presence, it summons it and ultimately affirms its existence.
Their cinema is constantly in communication with the absence and the missing pictures, both personal, as in The Lost Film (Al Film Al Mafkoud, 2003), and collective (The Lebanese Rocket Society, 2012). And the ghost – as the directors admitted more than once – is a recurring figure in Lebanese culture and in its people’s daily life. A Perfect Day (Yawmoun Akhar, 2005) deals with ghost stories: piled up corpses in mass graves that no one discovered during the reconstruction of Beirut liven up and expand the story, claiming through a deafening silence their existence and death. This is a matter of faith and persistence of memory, because who believes in the ghost’s survival will be able to see it and reunite with it, whereas who tries to forget is forced to roam along the streets of a city that cannot be owned and cannot be seen (the contact lens do not adjust the sight, they rather produce a twisted and hallucinated vision of Beirut). Moreover, the film is based on the story of Joreige’s uncle, kidnapped during the war and still “missing”; one day, after many years, the directors found an undeveloped photo negative, a latent and phantasmal picture. The decision of transforming the negative-in-power into image-in-act corresponds to the desire of bringing back to light a unique and universal story, both personal and collective, through different concrete manipulations of the film. This story carries the marks of history, of the flow of time. Similarly, the city of Smirne is, in its reconstruction, a physical trace of the history passage: in Ysmirna (2016) the comparison between the early 1900s city map and the modern one shows the temporal distance of a mythical city, told by Joanna’s family and the one of the poet Etel Adnan (both of them have never been in the city of, respectively, their grandparents and parents), through an oral storytelling that intends to be a reenactment of a past in which one can find their roots.
Hadjithomas and Joreige’s more than twenty years of artistic activities and personal experiences break into a Lebanese family migrated to Canada, in the form of a big cardboard box. The package from Lebanon is an archive containing letters, photographs, notebooks, recordings of radio broadcastings and undeveloped films (Memory Box is freely inspired by the mailing correspondence that Joanna had with a friend of hers who migrated to Paris, suddenly interrupted after six years). This is an archive that causes the explosion of the underlying conflicts between the three different generations and, at the same time, it’s responsible for the deflagration of the film. Even if most of the films by Hadjithomas and Joreige have a material essence (and most of the films shown during the retrospective were projected in 35mm), Memory Box has a digital concept. Alex, the daughter, edits and manipulates the civil war testimonies according to her own grammar, which includes smartphones, instant communication, digital post-production and immateriality. The distance in space and time, and the reconstruction of the 1980s through their icons are not nostalgic at all, they are just needed to testimony and transfer the story. The intergenerational confrontation (the grandmother, Maia; the mother, who represents the directors’ generation; and the daughter) is about approaching the story of Lebanon, and thus becomes a matter of identity and belonging, that is opening up several possibilities of the storytelling for those generations that never experienced the conflict and whose memory may be lost.
The one of Joanna Hadjithomas and Khalil Joreige is an artistically and conceptually coherent career that finds its raison d’être in the moral duty of making concretely, materially and visibly collective and public what the passage of the story of Lebanon has discolored, as if the past were an unimpressed and undeveloped film. An idea of political and civic cinema, a product of more than twenty years of activity that displays in the intergenerational confrontation of Memory Box the need to narrate the past in order to live the present and to imagine the future once again.