Chi ha detto che un remake è un film inferiore rispetto all’originale? Certamente se il nuovo prodotto non contiene nulla di più – se non addirittura meno – di quanto c’era nell’originale, allora la risposta non è altro che un “doppione”. Molte recenti operazioni di questo tipo ne sono la prova (Carrie di Kimberly Pierce, per fare un esempio). Ma se invece si parte dal prodotto originale come idea iniziale e poi si decide di prendere una strada completamente differente lavorando su elementi nuovi, allora si può realizzare qualcosa di più: si pensi a The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese in rapporto con Infernal Affairs di Andrew Lau. Sono due prodotti completamente autonomi. Continua la lettura di “Whe Are What We Are” di Jim Mickle→
Spazio ai giovani promettenti del panorama internazionale
Con Tôi quên rôi –I forgot, il giovane regista argentino Eduardo Williams propone questa volta un lavoro più lungo del suo precedente cortometraggio: ventisei minuti in cui mostra, in modo discontinuo, le esistenze anonime di alcuni ragazzi che trascorrono le loro giornate tra il lavoro, le uscite e il parkour. Quella che viene rappresentata è una generazione pronta a saltare da un tetto all’altro, che vive sospesa in una realtà a mezz’aria. Dichiara il regista: «Questo film è nato come un’opportunità per me di collocarmi nel luogo ipotetico che preferisco quando dirigo o guardo un film, ovvero lontano da ogni certezza. Cerco sempre di perdermi dentro queste esperienze, così da generare il vuoto che mi dà la possibilità di superare i miei limiti». L’immagine che ne risulta è quella di una quotidianità snervata e snervante, esasperata dall’uso della camera a mano. La trama risulta troppo lacunosa e la fotografia fastidiosa, se non per l’ultima ripresa dall’alto che chiarisce allo spettatore il senso della frammentarietà delle scene. Continua la lettura di “Tôi quên rôi – I forgot!” di Eduardo Williams e “La Huella en la niebla” di Emiliano Grieco→
After Pude ver a puma, Eduardo Williams comes back to the TFF with another short film, Tôi quên rôi – I forgot!, which preceded the screening of The huella en la niebla.
With Tôi quên rôi – I forgot!, the young Argentine director proposes a longer film (maybe too long, since it had to precede the next film). It is a twenty-six minute movie that discontinuously portraits the anonymous lives of some guys who spend their days between work, hanging out and parkour. He portraits a fragmented generation, ready to jump from one roof to another, who lives in a suspended reality.
In the director’s words, «This film came to me as an opportunity to locate myself in the hypothetical place that I prefer when I direct or watch a movie, or far from any certainty. I always try to get lost in these experiences, in order to generate a vacuum that gives me the opportunity to exceed my limits». The picture that emerges is that of an unnerved and unnerving everyday life, exasperated by the use of hand-held cameras. The plot is too incomplete and the photography annoying, except for the last shot that clarifies to the viewer the sense of the fragmentary nature of the scenes.
La huella en la niebla is certainly a more pleasant movie. Directed by another Argentine director, Emiliano Grieco, it tells the story of Elias, a wounded man who returns to his island in order to rebuild his life. The wound, however, does not heal, and despite his efforts the fog ends up swallowing him.
Grieco does not employ a real actor, but a fisherman. He uses no dialogues at all, but water looks like the real star of the film. Considered as the conclusion of the documentary The Son of the River, the first work of the young director, this film lies somewhere between the great stories of Dickens and Conrad and documentary, making a good use of photography. The contrast between in focus and out of focus images serves as a narrative liaison, allowing the director to take advantage of the suggestions offered by the landscape to describe the emotions of a man trying (to no avail) to find traces of the past through the river. Overall, though, the narrative results are extremely “confusing” and the goal of placing the character in an interior limbo, unfortunately, leaves the viewer in that limbo too.
Mange tes morts è il peggior insulto che si possa dire ad uno zingaro ed è anche il titolo del nuovo lavoro di Jean-Charles Hue, regista che aveva già partecipato al Torino Film Festival nel 2009 con Carne viva, un ritratto di Tijuana. Il nuovo lungometraggio di Hue è un bildungsfilm che nel finale diventa un road movie dai tratti esistenzialisti. Il film, nella parte iniziale molto documentaristico, è ambientato nella comunità nomade dei Jenisch. La trama è semplice, anche fin troppo, e consiste in un viaggio tra i “gadjo” (i non gitani), per rubare un carico di rame. Continua la lettura di “Mange tes morts” di Jean-Charles Hue→
Mange tes morts is the worst insult one can ever say to a gipsy, and it is also the title of the new work by Jean-Charles Hue. This director took part in the 2009 Torino Film Festival with Carne Viva, a portrait of Tijuana reality.
This full-length film by Hue is a story of formation that in the end becomes a road movie with existentialism features. At the beginning, the film is a documentary set in the Jenisch gipsy community. The story, which may seem too simple, consists in a journey among the “gadjo” (not gipsy people) to steal a load of copper.
The French director shot a film based on the Hamletic doubt spread among Jenisch people: the choice between baptism and the consequent submission to the atavistic Christian morals or the choice to take up a career as a master thief.
The main character Jason Dorkel – a 21st century Hamlet in Nikes – chooses the first option. But Fred, Jason’s stepbrother, compromises the calm of the community. After fifteen years of jail he comes back into the Jenisch community without changing his behaviour: he is still a criminal.
Zvyagintsev was right: the return is the most ferocious butchery of the conscience. Fred is like evil that sodomises the weakest people and leads Jason to his ruin. Until then, he was depicted as a lamb doomed to hellfire.
From now on, the film becomes less united than the first part. There are a number of surreal scenes, like the one in which Fred bravely challenges police officers that seem bored psychologists ready to listen to their patients’ troubles. Actors pretend a solemnity that does not pertain to them and often improvise in an unexpected way. Mange tes morts is a nice film but it is also defective, it is interesting but also far from being a masterpiece.
Scanditi dalle note di I Heard It Through the Grapevine (nella versione di Marvin Gaye), scorrono i titoli di testa, in sovrimpressione rispetto alle immagini dei protagonisti del film, ripresi nel privato delle loro reazioni alla notizia del suicidio di Alex, amico comune ed ex compagno di corsi alla University of Michigan. Questi primi e rapidi flash su ogni personaggio sono caratterizzanti: lo spettatore ha in pochi secondi la possibilità di conoscerli tutti.
“Questa non è una storia sulla malattia, ma è la storia di un rapporto umano.”
Così ha dichiarato ieri alla conferenza stampa del Torino Film Festival Eddie Redmayne, protagonista del film The Theory of Everything, in cui interpreta l’astrofisico Stephen Hawking. Ed effettivamente è di questo che parla il film: è una storia d’amore. Ma tra chi? Tra Stephen e la sua prima moglie, Jane? O tra Stephen e la fisica?
Il film è l’adattamento cinematografico del libro autobiografico Travelling to Infinity: My Life With Stephen, scritto dalla prima moglie di Hawking. E The Theory of Everything comincia proprio dal primo incontro tra i due, per poi percorrere insieme gli anni in cui si sono amati e sostenuti a vicenda, hanno dato vita a una famiglia e si sono infine separati. Il film, nonostante i toni seri, riesce tuttavia a far ridere in alcuni punti. Particolarmente interessanti sono stati i ben due riferimenti alla famosa serie inglese Doctor Who, che hanno reso il film decisamente British.
Vestire i panni di Stephen Hawking non sarà stato certo facile, ma l’interpretazione di Eddie Redmayne, con il suo fascino e il suo carisma, ha convinto tutti sin da subito – tanto che potrebbe essere un possibile candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. Ma per ora qui a Torino gli è stato consegnato ieri sera il premio Maserati.
Ieri mattina alla conferenza stampa l’attore inglese ci ha detto che, venuto a conoscenza del progetto, se ne è subito interessato, ma che non appena ottenuta la parte di Hawking, si è reso conto delle difficoltà che questo ruolo poteva comportare. Infatti, per prepararsi, è stato seguito dalla ballerina e coreografa Alexandra Reynolds, che gli ha insegnato come muovere adeguatamente il corpo e sfruttare solo certi muscoli. Inoltre l’attore si è recato in una clinica specializzata dove ha potuto studiare i disagi fisici ed emotivi dei malati di SLA.
Certamente un lavoro molto duro, a livello fisico e psicologico. Ma Eddie Redmayne ci dice che è stato soprattutto l’incontro con Stephen Hawking ad aiutarlo a calarsi adeguatamente nella parte, a fargli comprendere le più piccole sfaccettature di questo meraviglioso uomo, un’icona che sembra volerci dire sempre qualcosa in più, svelandoci i misteri dell’Universo, ma non solo.
Ed è su questo punto che che il film si sofferma. Non si parla in modo eccessivo di fisica, buchi neri o radiazione di Hawking, ma ci si concentra sui rapporti umani, sulle difficoltà che si possono incontrare lungo il cammino e che possono essere superate solo con un’enorme forza di volontà e l’affetto delle persone care. È un film sull’amore e sulle differenti modalità di amare. Ed è proprio qui che sta la “teoria del tutto”.
“This is not a story about a disease, but the story of a human relationship”, said Eddie Redmayne yesterday at the press conference of the Turin Film Festival. He is the protagonist of ‘The Theory of Everything’, in which he plays the astrophysicist Stephen Hawking. Actually, that is what the film is all about: it is a love story. Between whom though? Between Stephen and his first wife, Jane, or between Stephen and physics?
The film is the adaptation of the autobiographical book ‘Travelling to Infinity: My Life with Stephen Hawking’, written by his first wife. It starts right from the first meeting between them, and then proceeds along the years, when they were in love and supported each other, when they created a family and when finally got separated.
Despite the serious tones, it manages to be funny in some moments. The two references to the famous British series ‘Doctor Who’ were particularly interesting and gave it a decisive British print.
Playing the role of Stephen Hawking has not been easy, but the charming interpretation of charismatic Eddie Redmayne convinced everyone right away – maybe also earning him an Oscar nominee for best actor this year. For the time being, however, he has received the Maserati award last night in Turin.
Yesterday morning, at the press conference, the British actor told us that he was eager to participate in the film project but, as soon as he obtained the part of Hawking, he realized the difficulties this role could entail. In fact, dancer and choreographer Alexandra Reynolds followed him in the preparation of his role by teaching him how to move his body properly and to use only certain muscles. Moreover, the actor went to a specialized clinic where he could study the physical and emotional troubles caused by ALS illness.
Interpreting this role certainly involved a very hard work, both physical and psychological. However, Eddie Redmayne stated that it was primarily the meeting with Stephen Hawking that helped him immerse adequately in the role and make him understand even the smallest aspects of this wonderful, iconic man, who wants to reveal us something more than the mysteries of the Universe.
The film focuses precisely on this point. It does not say much about physics, black holes or Hawking radiations, but it rather concentrates on human relationships. The difficulties encountered along the way can only be overcome with a tremendous force of will and with the affection of caring people. It is a study on love and on different ways of loving. That is what the “theory of everything” is really about.
Bacau–Torino: una distanza che tiene lontano sette figli dalla loro mamma, che ha un lavoro come badante in Piemonte e non tornerà in Romania prima dell’estate successiva. Georgiana è la figlia più grande che si occupa delle faccende domestiche e dei fratelli più piccoli. Le giornate sono come quelle di qualsiasi bambino della loro età: vengono svegliati, vengono vestiti, viene fatta trovare pronta la cena. Tutto questo però è opera di una quindicenne costretta a crescere troppo in fretta. Puntualmente arriva la telefonata dalla mamma che vuole sentire tutte le sue creature dalla più piccola alla più grande, ma non può stare molto al cellulare perché incombono le faccende della famiglia italiana. Continua la lettura di “Waiting for August” di Teodora Ana Mihai→
Camogli, Casa di riposo per marittimi “G. Bettolo”. Ci porta qui Alessandro Abba Legnazzi, per mostrarci come trascorrono le loro giornate diciotto marinai ormai in pensione. Il termine “rada” designa una baia dove le navi possono ancorare e sostare al riparo dai venti e dalle correnti. La casa di riposo si trova proprio in una rada, come fosse una nave alla fonda che potrebbe partire da un momento all’altro: è il pensiero comune per gli ex-marinai che l’abitano. La rada è al contempo spazio fisico e contenitore di attese, ricordi, sogni e morte e accoglie il lento trascinarsi delle esistenze dei protagonisti la cui quotidianità è scandita unicamente dall’ora del pranzo o del sonno.
Tra i film del TorinoFilmLab ne segnalo uno veramente interessante. Si tratta di In Jouw Naam, in inglese In Your Name, di Marco Van Geffen.
Il film narra il dramma di una coppia, Ton e Els, che perde una figlia poche settimane dopo la nascita a causa di una rara malattia. L’avvenimento porta entrambi, ovviamente, a faticare per ricominciare la propria vita.
Among the films setting up Torino Film Lab, one is especially interesting: ‘In Jouw Naam‘ — in English ‘In Your Name’ — by Marco Van Geffen.
It talks about some dramatic events in the lives of a couple, Ton and Els, who have lost their newborn girl due to a rare disease. This leads them to struggle in order to restart their life.
Els is the first to recover: she takes comfort in throwing away all the furniture in the room of their baby girl. However, Ton is not able to overcome his loss and he gets upset about his partner’s apparent peace of mind, so much that he does not want to touch her, not even in bed. Even when Els got pregnant again, Ton cannot set free from the pain he is suffering, until tragic consequences arouse.
The director is able to transmit the sorrow and the agony of the characters without using conversation. Dialogues are minimal and useful only in terms of the development of the main plot. The scenes follow one another without any of the characters saying a word, but still the message clearly.
‘In Your Name’ is Van Geffen’s second work, awarded with the ‘Prix Art des Relations Internationales’ at the Festival of Cannes. It can be considered one of the most prestigious products obtained with the help of Torino Film Lab this year.
John Magary e Myna Joseph pronti a svelare i retroscena del film
Oggi, 25 novembre 2014, si è svolta la conferenza stampa del film The Mend. In sala erano presenti il regista John Magary e la produttrice Myna Joseph. La prima domanda si riferisce al titolo del film, che in italiano si traduce con “il riparare”, ma che non sembra trovare corrispondenze all’interno di un film in cui tutto sembra rompersi. Il regista risponde che questo è voluto, in quanto The Mend cerca di travolgere e disorientare il pubblico. Solo alla fine si raggiunge una sorta di stabilità, qualcosa si ripara.
Mr. Kaplan is the second film by Alvaro Brechner, a director who had a great personal success in 2009 with Mal día para pescar. He gets back to film direction thanks to the Torino Film Lab, too.
Jacob Kaplan lives in Montevideo, Uruguay. He lived the atrocities of the Nazi persecutions in Europe and did not forget his Jewish origins. When he hears that a German man lives and works near him, all the terrible feelings related to the period of the Second World War resurface. He knows about what Simon Wiesenthal did in 1960: he worked for the seizure of the Nazi Adolf Eichmann. In the same way, with the help of a family friend, a former police officer, Jacob tries to carry out investigations in order to arrest his enemy and move him to Israel for the trial.
This event will push the protagonist beyond his physical limits trying to pursue his ideals and maintaining his dignity. He’s trying to get his revenge, which is within his reach.
In this film both comedy and detective story features are perfectly mixed together. There are comical situations, based on the personalities of the two main characters. One is determined to reach his goal, while the other one wants to find a way to regain his family’s respect.
This film is the boast of the Torino Film Lab. It has been chosen for the 2015 Oscar nomination for best foreign language film. It is a funny but undoubtedly composed film, which encourages defending your ideals as well as pursuing justice and truth, even many years later.
Mr. Kaplan è il secondo film di Alvaro Brechner, che dopo il successo personale di Mal día para pescar del 2009 ritorna dietro la macchina da presa grazie anche al Torino Film Lab.
Jacob Kaplan vive la sua vita a Montevideo, in Uruguay. Ha vissuto gli orrori della persecuzione nazista in Europa e non ha dimenticato le sue radici ebraiche.
Per il suo debutto dietro la macchina da presa, la regista americana Amanda Rose Wilder ha scelto di percorre un terreno quanto mai controverso: quello delle scuole libertarie.
Inserito nella sezione TFFdoc Democrazia, Approaching the Elephant, questo il titolo del documentario, segue il primo anno di attività della Teddy McArdle Free School inaugurata a Littler Fall in New Jersy da Alex Khost, appassionato insegnante e figura “guida” all’interno della struttura.
Mirafiori è un quartiere torinese celebre per le sue fabbriche e per la brulicante vita operaia negli anni ’60. Viene spesso associato al fenomeno del boom economico e dell’immigrazione dal Sud in un’epoca in cui era visto come una sorta di Eldorado.
Questo è il mondo dei tre protagonisti del film di Stefano Di Polito (nato e cresciuto a Mirafiori, che con Mirafiori Lunapark si aggiudica il Premio Cipputi di quest’anno): Carlo, Franco e Delfino, vecchi operai in pensione si definiscono parte di un solo corpo in cui uno è la testa, l’altro il braccio e l’ultimo il cuore. Continua la lettura di “Mirafiori Lunapark” di Stefano Di Polito→
Felix e Meira sono gli opposti totali. Lui conduce una vita senza responsabilità e legami familiari. La sua unica preoccupazione è quella di sperperare l’eredità del padre. Lei è una giovane donna ebrea, sposata e madre di un bambino, che vive annoiata all’interno della sua comunità. Nessuna strana connessione tra loro, eppure si incontrano per caso e si innamorano. Anche se ambientata in una odierna Montreal, questa storia romantica si snoda come una vicenda di un altro secolo. Fin dalle prime inquadrature si notano gli strani abiti di questa comunità ebrea che richiamano molto i costumi del secolo passato. Le donne indossano vestiti che non mettono in risalto la loro femminilità e il loro compito all’interno della comunità e della famiglia è molto ristretto: devono garantire la procreazione, a volte partorendo anche sei, otto o addirittura quattordici figli. Continua la lettura di “Felix et Meira” di Maxime Giroux→
Felix and Meira are completely different. He leads a life without responsibilities and family ties. His only concern is to squander the legacy of his father. She is a young Jewish woman, married and mother of a child that lives bored inside of her community. There is no strange connection between them, yet they meet by chance and fall in love.
Although set in a present-day Montreal, this romance unfolds like an episode set in another century. From the first shots, you notice the strange dresses in this Jewish community that recall the costumes of the past century. The women wear clothes that do not emphasize their femininity and their task within the community and their family is very narrow: they must ensure procreation, sometimes giving birth to six, eight or even fourteen children.
However, all these things fit Meira snugly. She loves listening to contemporary music, drawing and living like a normal person, but her husband forbid all these activities. When she meets Felix, his extravagance manages to conquer her heart, while undermining all the certainties of the woman.
‘Felix et Meira’ is the third work of the director Maxime Giroux, who has already participated at the Turin Film Festival in 2008 with his first full-length film ‘Demain’.
The director states to have shot this film taking into account the vulnerability and restlessness of the characters, trying to follow with the camera all their movements and trying to seize their humanity. He portraits a love story that seems difficult, and yet stronger than any social restriction. Within the film nothing is emphasized, not gestures, not words nor their love. It is a pure and silent love that looks for a way out to get in with the long-awaited happy conclusion.
Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino