In Tehran a search is taking place inside a big house: men are rifling through drawers and closets, boxes of personal belongings are being taken away. Nothing we have not already seen in the context of the Iranian dictatorship. But there is one jarring detail: the owner of the searched house is sitting petrified on the couch, while his place would be elsewhere, in a director’s chair, for example, directing that short, chilling sequence shot capturing the search. That is Ali Asgari, impatiently waiting for the authorities to do their work in his apartment-atelier and leave him alone, at least for the time being.
All’interno di una grande casa di Teheran si sta svolgendo una perquisizione: uomini che frugano nei cassetti e nelle ante degli armadi, scatole di effetti personali che vengono portate via; nulla che non si sia mai visto nel contesto della dittatura iraniana. Ma c’è un dettaglio che stona: il proprietario della casa perquisita, seduto impietrito sul divano mentre il suo posto sarebbe altrove, su una sedia da regista, ad esempio, a dirigere quel breve e raggelante piano sequenza che immortala la perquisizione; si tratta di Ali Asgari, in impaziente attesa che le autorità svolgano il loro lavoro nel suo appartamento-atelier e lo lascino in pace, almeno per il momento.
Radu Jude and Christian Ferencz-Flatz’s latest work is deeply rooted in the socio-political context of post-revolution Romania, narrating the last thirty years of the country’s history through the commercials that accompanied its people towards democracy. It is an experimental found-footage documentary, divided into eight chapters displaying dozens of commercials played back-to-back: an overwhelming and ever-changing flow of ideals, dreams and hopes. Thus, we find ourselves reliving a fragment of the utopia promised by the end of socialism, yet an utopia that, however, is jarring and full of contradictions.
L’ultimo lavoro di Radu Jude e Christian Ferencz-Flatz affonda le sue radici nel contesto socio-politico della Romania post-rivoluzione, raccontando gli ultimi trent’anni della vita del Paese attraverso le pubblicità che hanno accompagnato il popolo rumeno verso la democrazia. Un documentario sperimentale di montaggio, suddiviso in otto capitoli che presentano decine di spot riprodotti uno dietro l’altro: un flusso travolgente di ideali, sogni e speranze in continua evoluzione. Ci troviamo così a rivivere un pezzo dell’utopia che la fine del socialismo prometteva, un’utopia però stridente e piena di contraddizioni.
The press conference presenting the 42nd edition of the Torino Film Festival was held in the setting of Villa Miani in Rome. In the presence of the president of the National Cinema Museum, Enzo Ghigo, and its director Carlo Chatrian, the newly installed artistic director Giulio Base announced the festival’s program under the intense and magnetic gaze (printed on a poster placed behind him) of Marlon Brando from Last Tango in Paris, chosen as the poster for the new edition. And perhaps it isn’t a coincidence that precisely an interpretation of the Hollywood rebel star directed by a master of Italian cinema was chosen as the guiding image of the kermesse, given the new direction’s attention to America and Italy, as would be confirmed by the large number of guests and titles (both first and second works, which have always been the privileged object of the Turin event, as well as restorations) from the two countries.
Nella cornice di Villa Miani, a Roma, si è svolta la conferenza stampa di presentazione della 42sima edizione del Torino Film Festival. Alla presenza del presidente del Museo Nazionale del Cinema, Enzo Ghigo, e del suo direttore Carlo Chatrian, il neoinsediato direttore artistico Giulio Base ha annunciato il programma del festival sotto lo sguardo intenso e magnetico (ancorché stampato su un cartellone posto alle sue spalle) del Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi, scelto come manifesto della nuova edizione. E forse non è un caso che proprio un’interpretazione del divo ribelle di Hollywood diretta da un maestro del cinema italiano sia stata scelta come immagine guida della kermesse, vista l’attenzione riservata dalla nuova direzione proprio all’America e all’Italia, come confermerebbe il grande numero di ospiti e titoli (sia opere prime e seconde, da sempre oggetto privilegiato della manifestazione torinese, sia restauri) provenienti dai due Paesi.
La violenza scaturisce dagli occhi di chi guarda: a Vincent (Karim Leklou), per essere aggredito, basta incrociare lo sguardo di qualcuno. Questa – banale – azione quotidiana è foriera, in Vincent doit mourir, di una crudeltà senza fine, destinata a protrarsi di giorno in giorno, ogni volta con modalità inedite. La violenza si diffonde, in modo quasi epidemico, tramite attacchi scomposti e impacciati di civili totalmente inadatti al combattimento. Si innesca così una follia che ha una venatura grottesca: queste persone vogliono disperatamente uccidere Vincent ma, al tempo stesso, ne sono incapaci.
Dal buio della sala, allo sguardo è concesso di contemplare le sponde di un piccolo fiume immerso nel verde, ma quello che sembra un limpido corso d’acqua è in realtà un ammasso di fanghiglia e cadaveri dilaniati, resti di una battaglia appena conclusa. Con Kubi, Kitano Takeshi torna alla regia con un dramma storico ambientato nel Giappone feudale, esattamente vent’anni dopo il grande successo di Zatōichi (2003), dedicato all’epopea del samurai cieco.
«A me basta che i soldi siano veri» pronuncia il protagonista, un uomo che, come altri, si è recato in una lussuosa villa ottocentesca per vendere il proprio corpo a entità misteriose in cambio di denaro. Uomini disperati disposti a sottomettersi all’ignoto pur di migliorare la propria condizione. The Complex Form, esordio del regista Fabio D’Orta, inserito nella sezione Crazies del Torino Film Festival 41, ci trascina in un’attesa estenuante che sembra non risolversi mai.
La 41ª edizione del Tff termina con la proiezione di Christine – La macchina infernale, horror del 1983 con cui Steve Della Casa decide di concludere i suoi due anni di direzione del festival. La scelta non è casuale: il film di John Carpenter fece parte, più di vent’anni fa, di una delle retrospettive dedicate ai cineasti americani poco compresi e un po’ snobbati dalla critica, come George Romero e John Milius. A quarant’anni dall’uscita nelle sale, Della Casa propone una lettura diversa di uno degli horror più riusciti e sottovalutati di Carpenter, tratto da uno dei romanzi più belli e trascurati di Stephen King. Un’opera rimasta in disparte, all’ombra dei film più noti del regista, come La cosa (The Thing, 1982) o Halloween (1978).
Ambientato nell’Argentina contemporanea, Los delincuentes – nuovo film di Rodrigo Moreno Fuori concorso al Torino Film Festival dopo la presentazione a Cannes nella sezione Un Certain regard – racconta la storia di Morán (Daniel Elías), un impiegato di banca che mette a segno un furto grazie al coinvolgimento del collega Román (Esteban Bigliardi), al quale affida la refurtiva mentre lui si prepara a scontare la propria pena in carcere. Il regista ripensa il genere del film di rapina sostituendo la dinamicità dell’azione, il montaggio rapido, i dialoghi ritmati con lenti movimenti di macchina ed esaltando i tempi morti nelle silenziose inquadrature fisse. Uno sguardo molto personale carico di un’ironia surreale e cupa che presto abbandona il pretesto narrativo del furto per concentrarsi sullo stato d’animo dei due personaggi principali, i cui dubbi e rimorsi emergono in lunghi primi piani, illuminati da una fotografia calda ben più vicino alla commedia che al cosiddetto caper movie.
Ma più ancora che i dubbi e i rimorsi, sono l’euforia e l’adrenalina a conquistare Morán, capace di trovare in quell’atto delinquente la forza per uscire dall’ordinaria prigionia della quotidianità ed entrare invece nella libertà della prigione. L’impiegato scopre infatti in carcere la possibilità di sognare un futuro svincolato da ogni costrizione e imposizione. Per questo, progressivamente, la camera si allontana dal volto dei personaggi e li riposiziona dentro a campi lunghi che li mettono a contatto con una natura incontaminata e lontana dal contesto sociale opprimente e senza prospettive dal quale provengono. Un nuovo orizzonte rappresentato dalla stessa Norma (Margarita Molfino) della quale, tra pascoli e animali, i due si innamorano. Attraverso questa visione volutamente sgrammaticata del genere “rapina”, Rodrigo Moreno con la consueta lucida ironia del Nuovo cinema argentino, inneggia al possibile raggiungimento di una ritrovata libertà che può coincidere solo con l’abbandono di ogni schema preconcetto al quale il mondo contemporaneo sembra averci condannato.
Pietro Torchia
Articolo pubblicato su “La Repubblica” il 27 Novembre 2023
Non matta, ma piena di un’incompresa vitalità. Alda Merini, la donna che fece della poesia oggetto di amore e ossessione, tormento e follia, è la protagonista di Folle d’amore: Alda Merini, presentato fuori concorso alla 41° edizione del TFF. Il ritratto della poetessa e della donna dà voce a una figura che, più di tante altre, urla alle nuove generazioni la necessità e l’urgenza di esprimersi, a cui non ha mai rinunciato, nemmeno negli anni del manicomio.
Tra le molte strade che percorrono il territorio rumeno, una in particolare gode di una certa popolarità: è la Transfăgărășan, anche nota come “la follia di Ceaușescu”, 60 miglia che si snodano attraverso le vette più scoscese della Romania. Il sinistro appellativo con cui viene ricordata, in palese contraddizione rispetto ai panorami mozzafiato che attraversa, risale ai tempi della sua edificazione e vuole essere un ricordo degli operai morti per il completamento del folle progetto. Ma la Transfăgărășan è solo una delle tante. Rispetto alle altre opere di ingegneria civile cadute nel dimenticatoio, ha la fortuna di avere dalla propria la bellezza, e quella si sa, piace a tutti, vende sempre bene.
Il mondo tra cento anni. Nella Budapest del 2123 le persone sono costrette a donare il proprio corpo per il bene comune. La crisi ambientale ha infatti devastato il pianeta, ormai ridotto a una distesa arida su cui non cresce più nulla. Per questo motivo viene progettato un seme che, una volta impiantato, può trasformare l’essere umano in albero. Per la sopravvivenza dell’umanità, chiunque compia cinquant’anni deve subire questo processo.
Nella sezione “La prima volta” del Torino Film Festival è stato presentato l’esordio alla regia della madrina della manifestazione Catrinel Marlon, attrice ed ex modella di origine romena. Il film, Girasoli, di cui è anche co-sceneggiatrice, nasce da una sua intima necessità, dalla volontà di portare sullo schermo una tematica a lei vicina: la malattia mentale.
Negli anni Sessanta i manicomi esistono ancora: sono luoghi grigi e cupi, le cui pareti trasudano dolore mentale e fisico a causa delle pene corporali, delle “cure” e delle misere condizioni di vita. Sono luoghi in cui si viene rinchiusi e dimenticati per sempre oppure, prima o poi, rigettati nella società. Lucia (Gaia Girace) è una quindicenne schizofrenica, ricoverata da diversi anni presso l’ospedale psichiatrico Santa Teresa di Lisieux, ma non ancora completamente schiacciata dalla vita e dalle terapie. Anna (Mariarosaria Mingione), orfana cresciuta in convento e appena maggiorenne, viene trasferita all’ospedale psichiatrico per diventare infermiera. Una volta giunta nel manicomio deve scegliere da che parte stare: seguire la dottoressa Marie D’amico (Monica Guerritore), donna all’avanguardia nello sperimentare nuove terapie ispirate alle teorie di Franco Basaglia, o conformarsi a quell’ambiente all’epoca prettamente maschile e di vedute ristrette, che crede solo nelle pillole e nell’elettroshock. Dalla scelta di Anna dipenderà il futuro di Lucia e la sua possibilità di salvarsi.
Catrinel Marlon riesce ad affrontare con sguardo autentico una tematica complessa e delicata, ispirata a una storia realmente accaduta. Il racconto è crudo, ma la regista non si sofferma sugli aspetti più degradanti della vita manicomiale, evitando di cadere in una patetica spettacolarizzazione della sofferenza, della reclusione e del dolore. Una narrazione incisiva e puntuale, arricchita da un altro tema centrale di Girasoli: l’amore, il potentissimo mezzo che permette di evadere – anche quotidianamente – da quelle mura soffocanti.
Carlotta Pegollo
articolo pubblicato su “la Repubblica” il 26 novembre 2023
È la storia di una Maria diversa quella raccontata da Paolo Zucca nel suo ultimo film presentato fuori concorso alla 41° edizione del Torino Film Festival, Vangelo secondo Maria, tratto dall’omonimo romanzo di Barbara Alberti.
Fuori concorso, You Hurt My Feelings è l’ultima brillante commedia della regista e sceneggiatrice statunitense Nicole Holofcener che in punta di piedi e con un’ironia calibrata, mette in scena la complessità e la fragilità delle relazioni umane.
In un presente alternativo, parte della popolazione è colpita da una mutazione che trasforma le persone in creature ibride, in uomini-animali. Non si conoscono le cause né le ragioni. Si sa solo che le vittime di questa malattia possono mettere a rischio l’ordine e la sicurezza pubblica e che, quindi, devono essere controllate, rinchiuse in riserve appositamente costruite, separate dalla società civile.
Il regista francese Thomas Cailley in Le règne animal, presentato nella sezione Crazies, ci racconta la creazione di un mondo in cui stanno cambiando le frontiere tra ciò che è umano e ciò che è animale. Un cambiamento vissuto dagli intimi punti di vista di un padre (Romain Duris) e di un figlio Émile (Paul Kircher), entrambi affranti per la scomparsa della moglie (e madre), mutata in una di queste creature. Il film mostra l’accettazione di una realtà tanto brutale quanto rappresentativa di un orizzonte in cui l’uomo è chiamato a stabilire un rapporto di convivenza pacifica con gli altri esseri viventi.
Le règne animal è anche il racconto della crescita di Émile e del suo assecondare un destino di trasformazione – un coming of ageatipico, accompagnato dai picareschi brani del musicista torinese Andrea Laszlo De Simone. Émile corre tra gli alberi della foresta in cui trascorre le giornate, caccia, nuota nella palude, e urla a pieni polmoni quel grido di libertà che è espressione della natura stessa che cerca di sopravvivere alla dominazione dell’uomo. Il ragazzo ribalta l’immagine che la cosiddetta società civilizzata crea attorno alle creature ibride, facendosi esempio di come la metamorfosi in animale non sia brutalizzazione di sé, ma liberazione dalle leggi distruttive del sistema. Così, Émile, accettando se stesso come parte del règne animal, riflette e comunica nuove prospettive sull’emergenza ecologica. Nuovi modi – resistenti alle dinamiche di potere e di controllo sulla natura – di re-immaginare il rapporto con l’ecosistema.
Federico Lionetti
Articolo pubblicato su “la Repubblica” il 3 dicembre 2023
Il termine “mummola” in finlandese si riferisce alla casa della nonna, ma non si limita a indicare il mero luogo fisico. “Mummola” è la meta delle vacanze natalizie per tutta la famiglia, è un insieme di odori e sapori, un luogo sicuro e accogliente il cui ricordo provoca sempre una gradevole nostalgia, anche quando la famiglia non è proprio perfetta e unita. I ricordi della regista Tia Kouvo – che sceglie la sua città natale come location – prendono vita nel suo film d’esordio, sviluppato con il supporto del TorinoFilmLab e presentato alla 41° edizione del Torino Film Festival.
All’inizio c’è un’ombra: è quella di Claire Simon, la regista di Notre corps, presentato nel Concorso documentari internazionali al 41° Torino Film Festival. Riprende il contorno di se stessa e della macchina da presa che si delinea sulla strada prima di entrare – come dice la sua voce – nel racconto di «un valzer folle di destini, dall’inizio alla fine». Torna alla mente la scena in cui un’altra grande regista francese, Agnès Varda, che inquadra le sue mani mentre commenta come il corpo cambi nel tempo in La vita è un raccolto (2000). In entrambi i casi non c’è programmaticità nello sguardo della macchina quanto piuttosto il punto di vista soggettivo e personale di due donne che trasformano ogni inquadratura in un’umana riflessione sulla vita e sul suo essere determinata dalla fine.
Simon inizia da un incontro, quello con la produttrice Kristina Larsen che le dà lo spunto per un documentario. Eccola quindi entrare nel reparto di ginecologia di un ospedale pubblico parigino per raccontare, guardando al cinema di Frederick Wiseman, un microcosmo composito nel quale ogni tassello è una patologia diversa. Le singole esperienze private sono allineate nella narrazione in modo da rivendicarne anche la dimensione pubblica. Lo mostrano due scene che si susseguono: prima alcune manifestanti denunciano la brutalità delle visite mediche che hanno dovuto subire e rivendicano il diritto di scelta sul proprio corpo. Subito dopo, di nuovo dentro l’ospedale, una signora guarda in macchina mentre la preparano per un’operazione sottolineando il suo amore per il cinema e quanto il lavoro della regista sia importante perché bisogna prima di tutto informare. Ed è Claire Simon stessa a testimoniarlo: quando scopre di avere il cancro durante le riprese dice infatti al suo medico che l’avrebbe presa molto peggio se non fosse stata nel pieno della realizzazione di questo film, che proprio sul ruolo del corpo come attore dell’esistenza riflette.
Valentina Testa.
articolo pubblicato su “la Repubblica” il 27 novembre 2023.
Il magazine delle studentesse e degli studenti del Dams/Cam di Torino
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