Una leggenda sufi etiope vuole che la pianta del khat, le cui foglie rilasciano sostanze stimolanti una volta masticate, venne scoperta durante la ricerca dell’acqua della vita eterna. Oggi il khat costituisce la coltura commerciale più redditizia d’Etiopia: la sua assunzione trascende la mera esperienza fisica, si presta invece a pratiche simposiali che trovano giustificazione nel tramandarsi di miti religiosi. A partire da questo racconto, Faya Dayi, in concorso internazionale al festival Visions du Réel, propone un percorso spirituale che segue la montuosa Harar e la cultura del khat, masticato per secoli per potersi avvicinare al proprio Dio, come anche per far scorrere più rapidamente i giorni di fatica e monotonia.
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Aliona Gloukhova arriva in Francia con l’intento di disimparare la sua lingua d’origine, il bielorusso, per trovare, nell’acquisizione del nuovo idioma, quella autenticità scarna e quel distacco di cui ha bisogno per raccontare della scomparsa di suo padre, di un lutto che non è fino in fondo tale. L’indeterminatezza di una lingua sconosciuta come unico mezzo per restituire l’indeterminatezza di un evento o l’assenza.
Continua la lettura di “NOTRE ENDROIT SILENCIEUX” DI ELITZA GUEORGUIEVA“BAD LUCK BANGING OR LOONY PORN”DI RADU JUDE, ORSO D’ORO ALLA 71^ BERLINALE
First reaction? Shock.
Che siate cinefili accaniti, professionisti del settore o spettatori curiosi (e benché viviate nel 21esimo secolo), resterete increduli di fronte a questo film a partire dal suo incipit. Per quanto il mondo contemporaneo ci abbia abituato a ogni tipo di contenuto video, a fare la differenza è sempre il veicolo con cui quell’immagine ci arriva. Paradossalmente nel cinema è stato ripristinato uno sguardo cauto e morigerato allo scopo di ottimizzare le vendite. Bad Luck Banging or Loony Porn si prende gioco apertamente della pulizia del cinema popolare (il suo sottotitolo è proprio questo) e mescola la brutalità dell’home movie e del documentario con una rappresentazione finzionale che lavora sull’esasperazione dei meccanismi del linguaggio filmico.
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“ZACK SNYDER’S JUSTICE LEAGUE” DI ZACK SNYDER
La Snyder Cut non esisterebbe senza l’interpolazione operata da Whedon sul corpo di Justice League, consistita – per molti – in una vera e propria mutilazione. Questo sia nel senso, più ampio, che nessuna director’s cut esiste senza una relativa theatrical cut che ne tradisce i propositi autoriali, ma anche, più nello specifico, nel senso che la versione di Snyder sembra essere valutata e discussa – da pubblico e critica – solo in rapporto a quella di Snyder-Whedon. Mai come entità autonoma, autosufficiente. Una ricezione che è sempre di secondo grado: Se Zack Snyder’s Justice League (2021) è un’opera riuscita, lo è in quanto superiore a Justice League (2017). Se invece viene valutata un’operazione fallita, è perché dal testo di partenza differisce minimamente, rappresentandone nient’altro che una debordante ipertrofizzazione. Più dettagli, più sfaccettature caratteriali, più informazioni. Più ralenti. Elementi che, cumulando e sommandosi, garantiscono un unico risultato: più autorialità.
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2017. C. Richard “Dick” Johnson, stimato psichiatra, è costretto ad abbandonare la propria attività a causa dei primi sintomi dell’Alzheimer e a trasferirsi dalla sua casa di Seattle nell’appartamento newyorchese di sua figlia, Kirsten Johnson, celebrata documentarista dalla carriera ormai trentennale. La convivenza significa confrontarsi con le inevitabili conseguenze della malattia, e il padre decide di assecondare la figlia in un progetto solo in apparenza macabro: utilizzare le risorse del cinema per inscenare la propria dipartita, non una, ma molte volte, nelle modalità più variegate, in modo da rendere quel momento più sopportabile quando si presenterà.
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Immaginiamo di dilatare la sequenza finale di Blue Velvet (D. Lynch, 1986) fino a farne un lungometraggio. Il risultato sarebbe molto simile a Greener Grass (J. DeBoer, D. Luebbe, 2019), un deliro (apparentemente) nonsense, in cui i tropi e gli stilemi dell’olimpica produzione hollywoodiana si ritorcono su e contro se stessi, svelando la loro insincerità e artificiosità. Un film in cui una luce dalla potenza ipertrofica, più che farsi garante della leggibilità delle immagini che investe, le rende evanescenti. Una fotografia lobotomizzante, in cui ogni cosa è (troppo) illuminata. Sullo stesso terreno altamente ironico si muove Ham on Rye (2019), esordio di Tyler Taormina. Un’operazione consistente nel recupero di un’estetica cinematografico-televisiva estremamente familiare, che viene intinta in un liquido oscuro, che ne corrode le fondamenta. Un coming of age destrutturato in cui a essere raffigurata non è la metamorfosi pacifica dei teenagers in qualcosa d’altro, verso il terreno inesplorato ma prospetticamente accogliente dell’adulthood, quanto un processo di sostanziale annichilazione. Una carneficina color pastello.
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Pieces of a Woman, in concorso alla 77ª Mostra di Venezia e distribuito in Italia da Netflix, è un racconto impregnato di rabbia interiore e coraggio, che tenta di confrontarsi criticamente con un tema dibattuto – la scelta di come partorire – esplorando la rete di relazioni affettive che ruotano intorno alla protagonista.
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New York. Joe Gardner è un insoddisfatto professore liceale di musica che coltiva il sogno di suonare il pianoforte in un complesso jazz. L’occasione di realizzarlo gli si presenta quando uno dei suoi ex studenti gli propone di sostituire il pianista del quartetto in cui suona come batterista, uno dei più famosi della scena newyorchese. Eccitato, Joe accetta la proposta, e grazie a un provino particolarmente efficace riesce a ottenere un ingaggio per quella sera stessa.
Continua la lettura di “SOUL” DI PETE DOCTER, KEMP POWERSCHE COSA CI LASCIA QUESTO 2020?
Chissà se il 2020 potrà essere ricordato non come l’anno dello stallo imposto dal Covid-19, bensì come l’anno in cui abbiamo potuto farci più domande rispetto al futuro. Vale per tutti i campi, ma parlando di cinema questo è stato l’anno in cui non abbiamo potuto andare in sala, in cui molti eventi culturali sono stati cancellati, in cui abbiamo visto emergere lo strapotere incontrastato delle piattaforme audiovisive. E mentre si spegnevano le nostre quotidiane attività abbiamo dovuto chiederci: come sarebbe il mondo senza Cinema? Che cosa trovo in sala che a casa non ho? Frequenterei davvero tutti i festival che desidero se li avessi a portata di mano? Quanto vale un film quando non abbiamo più i numeri del botteghino a confortarci sul suo successo?
“NIMIC” DI YORGOS LANTHIMOS
Dopo il grande successo di The Lobster (2015) e The Killing of a Sacred Deer (2017), Yorgos Lanthimos aveva spiazzato pubblico e critica portando sul grande schermo The Favourite (2018), un film che a detta di molti non rispecchia a pieno il suo inconfondibile stile. Con l’uscita del cortometraggio Nimic nel 2019, il regista greco sembra invece ritornare in sintonia con le sue opere precedenti, allontanando gli assurdi sospetti intorno al presunto “talento bruciato” o all’autore caduto nella “trappola hollywoodiana” colpevole di averlo privato della sua originalità stilistica.
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Article by Chiara Rosaia
Translated by Simona Sucato
Slow panoramic scour a sidereal landscape, an expanse of mountains covered by snow and dominated by the wind. It is perhaps an alien territory that is at the center of El elemento enigmático, a hostile environment in which three men struggle to advance. Men in helmets and motorcycle suits, without face or voice (we under stand the dialogues only through subtitles), wandering aimlessly waiting for their own end. An atmosphere of suspension persist throughout the movie, a work difficult to categorize, halfway between storytelling and video art. Indeed, if it is possible to trace aspects dear to science fiction,such as the clash between nature and man, these are sucked into the omnipresent aura of mystery, a dense and at the same time impalpabile atmosphere, like the icy vapors emanating here from the rocks.
“EL ELEMENTO ENIGMÁTICO” DI ALEJANDRO FADEL, “THE PHILOSOPHY OF HORROR – A SYMPHONY OF FILM THEORY” DI PÉTER LICHTER E BORI MÁTÉ
Lente panoramiche perlustrano un paesaggio siderale, una distesa di montagne ricoperte dalla neve e sovrastate dal vento. È forse un territorio alieno quello al centro di El elemento enigmático, un ambiente ostile in cui tre uomini avanzano a fatica. Uomini in casco e tuta da motocliclista, senza volto né voce (ne comprendiamo i dialoghi solo mediante i sottotitoli), che vagano senza meta aspettando la propria fine. Un clima di sospensione permane per tutto il film, un’opera difficilmente catalogabile, a metà strada fra narrazione e videoarte . Se infatti è possibile rintracciare aspetti cari alla fantascienza, come lo scontro fra natura e uomo, questi vengono risucchiati dall’onnipresente aura di mistero, un’atmosfera densa e al tempo stesso impalpabile, come i vapori ghiacciati qui emanati dalle rocce.
“THE OAK ROOM” by CODY CALAHAN
Article by Andrea Bruno
Translated by Aurora Sciarrone
A bar, a few lights on: some dim colored neon-lights, the counter’s illumination, an old jukebox emitting a soft glare in a corner. Paul (Peter Outerbridge), the bartender, is about to close the place while outside in the night,a snowstormblows.All of a sudden Steve (RJ Mitte) bursts in,a wanderercarrying a story from a different bar, of a different bartender, of a different stranger brought there by the storm. From this first one, a lot more stories come up, while midnight approachesand someoneis relentlessly driving in the snow.
Continua la lettura di “THE OAK ROOM” by CODY CALAHAN“THE OAK ROOM” DI CODY CALAHAN
Un locale, poche luci ancora accese: qualche debole neon colorato, l’illuminazione del bancone, un vecchio juke-box che manda pigri bagliori da un angolo. Paul (Peter Outerbridge), il barista, si sta preparando a chiudere, mentre fuori è ormai notte e infuria una tempesta di neve. D’improvviso irrompe Steve (RJ Mitte), un viandante che porta con sé il racconto di un altro bar, di un altro barista e di un altro sconosciuto condotto lì dalla bufera. Da questa prima storia ne nascono molte altre, mentre la mezzanotte si avvicina e qualcuno guida inesorabile sotto la neve.
Continua la lettura di “THE OAK ROOM” DI CODY CALAHAN“RED ANINSRI OR TIPTOEING ON THE STILL TREMBLING BERLIN WALL” by RATCHAPOOM BOONBUNCHACHOKE and “MOM, I BEFRIENDED GHOSTS” by SASHA VORONOV
Article by Niccolò Buttigliero
Translated by Nadia Tordera
Red Aninsri opens with a dialogue between cats. They communicate through the most artificial of cinematographic techniques that allow them to speak: dubbing. No attempt to follow the expressions of their faces or their movements. The human voice adheres to their bodies forcibly asserting its technological superiority. That of Red Aninsri is a universe in which everything is exquisitely fake, where an incurable discrepancy remains between the images of the world and their sounds.
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Red Aninsri si apre con un dialogo tra gatti. Comunicano attraverso la più posticcia e artificiosa delle tecniche cinematografiche che gli consenta di proferir parola: il doppiaggio. Nessun tentativo di seguire le espressioni del loro muso, o le loro movenze. La voce umana aderisce ai loro corpi forzosamente, facendo valere la propria superiorità tecnologica. Un universo, quello di Red Aninsri, in cui tutto è squisitamente finto, dove tra le immagini del mondo e le loro sonorità permane una discrasia insanabile.
Continua la lettura di “RED ANINSRI OR TIPTOEING ON THE STILL TREMBLING BERLIN WALL” DI RATCHAPOOM BOONBUNCHACHOKE E “MOM, I BEFRIENDED GHOSTS” DI SASHA VORONOV“UNE DERNIÈRE FOIS” BY OLYMPE DE G.
Article by Chiara Rosaia
Translated by Nadia Tordera
Among the films of this edition of the Torino Film Festival, Une dernière fois represents an anomalous object. Indeed, on closer inspection it does not often happen that a film defined as pornographic crosses the boundaries of sector events which although increasing still constitute a separate universe, well distinguished from generalist festivals. Let’s put aside the misunderstandings (and for some the hopes): Olympe de G.’s first feature film is not just sex, just as its purpose is not (only) to excite us. It is not because the sixty-nine healthy and wealthy protagonist Salomé (Brigitte Lahaie) has decided to die. And it is from this serene but irrevocable choice that sexual interactions are born, the succession of embraces in search of the right person with whom to live her “last time”.
“UNE DERNIÈRE FOIS” DI OLYMPE DE G.
Tra i film di questa edizione del Torino Film Festival, Une dernière fois rappresenta un oggetto anomalo. A ben vedere infatti, non capita spesso che un film definito pornografico scavalchi i confini degli eventi di settore, i quali, seppur in aumento, costituiscono pur sempre un universo a parte, ben distinto dai festival generalisti. Mettiamo da parte i fraintendimenti (e per qualcuno le speranze): il primo lungometraggio di Olympe de G. non è solo sesso, così come il suo scopo non è (soltanto) quello di eccitarci. Non lo è perché la protagonista Salomé (Brigitte Lahaie), sessantanove anni, donna in salute e benestante, ha deciso di morire. Ed è a partire da questa scelta, serena ma irrevocabile, che nascono le interazioni sessuali, il susseguirsi di amplessi alla ricerca della persona giusta con cui vivere la sua “ultima volta”.
“BILLIE” BY JAMES ERSKINE
Article by Alice Ferro
Translated by Paola Macchiarella
February 6th, 1978 – On a sidewalk in Washington D.C., a body was found. It was Linda Lipnack Kuehl, a journalist who devoted the last ten years of her life to writing a (never finished) biography of the legendary jazz singer Billie Holiday. During her research, she interviewed dozens of people and investigated thoroughly on the singer’s life. The heritage she left is priceless: 125 audiotapes, 200 hours of interviews and a manuscript. Billie is the result of the analysis and punctual use of this unpublished material: a colossal project directed by James Erskine, who decided to create a documentary about the singer and then found himself in charge of a rare task, beginning with the purchase of this precious material from a collector in New Jersey.
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6 febbraio 1978 – viene ritrovato su un marciapiede di Washington D.C. il corpo di Linda Lipnack Kuehl, una giornalista che aveva dedicato gli ultimi dieci anni della sua vita alla stesura di una biografia, mai terminata, sulla leggendaria cantante jazz Billie Holiday. Nel corso della sua ricerca aveva intervistato decine di persone e svolto un’indagine dettagliata sulla vita dell’artista. Il patrimonio da lei lasciato è inestimabile: 125 nastri audio, 200 ore di interviste e un manoscritto. Billie è l’esito dell’analisi e dell’accurato utilizzo di questo materiale prima d’ora inedito: un progetto mastodontico diretto da James Erskine che, dopo aver espresso il desiderio di realizzare un documentario sulla cantante, si è trovato a capo di un’impresa come poche, iniziata con l’acquisizione del prezioso materiale da un collezionista del New Jersey.
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