Archivi categoria: TFF 40 – 2022

“SILVER BIRD AND RAINBOW FISH” BY LEI LEI

Article by: Marco di Pasquale

Translated by: Noemi Zoppellaro

In recent years, documentary cinema has exploited animation for intimate and personal narratives capable of giving a fresh insight into complex historical events. Films such as Waltz with Bashir (Ari Folman, 2008) or Samouni Road (Stefano Savona, 2018) discussed with a microscopic look events of enormous magnitude in an attempt to understand their profound nature. Through the memories of both his grandfather and father animated in stop motion, director Lei Lei retraces the difficult years of his family, divided by the Cultural Revolution in Maoist China.

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The structure of Silver Bird and Rainbow Fish effectively reflects the fragmented nature of historical memory. The animation, indeed, consists of hand-moulded plasticine, newspaper pages, old photographs and illustrations from the propaganda of the time, combined in a collage of different styles and languages. The images generated from this mixture are not just an artistic re-elaboration of what is narrated off-screen. The voices of the relatives interviewed by the director often linger, take long pauses or are interrupted as the memories become less clear. It is precisely in these moments of emptiness, of repressed memory, that the animation shows its evocative power, transcending the historical narrative through references to Chinese fantastic imagery and mythology.

Like the images, the narration is structured on several levels as well, in a temporal collage covering almost thirty years of History, through the voices and points of view of three generations: the director’s, his father’s, and his grandfather’s, interviewed ten years earlier. These overlapping temporal planes correspond to the various materials used in the documentary. If the plasticine moulded by Lei Lei’s hands represents contemporaneity and his imaginative, ironic and changing point of view, the photographs and newspaper clippings are the faded remains of a vanished world.

Throughout the film the author reminds us several times, in a variety of ways, that what we are seeing is but one of the endless possible visions of what happened, filtered by the experiences of the various members of the family and the director himself, who imagined the events with his artistic sensibility and a contemporary eye. It’s impossible to restore a complete image of the past, but it is for this very reason that small stories like that of the Lei family are so important and worthy of being told.

“SILVER BIRD AND RAINBOW FISH” DI LEI LEI

Il cinema documentario negli ultimi anni ha sfruttato l’animazione per narrazioni intime e personali che restituissero una visione nuova su eventi storici complessi. Film come Valzer con Bashir (Ari Folman, 2008) o La strada dei Samouni (Stefano Savona, 2018) affrontavano con uno sguardo microscopico fatti di enorme portata per cercare di comprenderne la natura profonda. Il regista Lei Lei, attraverso le memorie del nonno e del padre animate in stop motion, ripercorre i difficili anni della sua famiglia, divisa dalla Rivoluzione culturale nella Cina maoista.

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La struttura di Silver Bird and Rainbow Fish rispecchia efficacemente la natura frammentata della memoria storica. L’animazione, infatti, è costituita da plastilina modellata a mano, pagine di giornale, vecchie fotografie e illustrazioni della propaganda del tempo, unite in un collage di stili e linguaggi diversi. Le immagini generate da questo miscuglio non sono solo una rielaborazione artistica di ciò che viene raccontato fuori campo. Le voci dei parenti intervistati dal regista spesso indugiano, fanno delle lunghe pause o si interrompono perché i ricordi si fanno meno nitidi. È proprio in questi momenti di vuoto, di memoria rimossa, che l’animazione dimostra la sua potenza evocativa, trascendendo il racconto storico attraverso riferimenti all’immaginario fantastico e alla mitologia cinesi.

Come le immagini, anche la narrazione si struttura su più livelli, in un collage temporale che copre quasi trent’anni di Storia, attraverso le voci e i punti di vista di tre generazioni: quella del regista, del padre e del nonno, intervistato dieci anni prima. A questi piani temporali sovrapposti corrispondono i vari materiali utilizzati nel documentario. Se la plastilina modellata dalle mani di Lei Lei rappresenta la contemporaneità e il suo punto di vista fantasioso, ironico e mutevole, le fotografie e i ritagli di giornale sono i residui sbiaditi di un mondo scomparso.

Durante il film l’autore ci ricorda più volte, e in diversi modi, che ciò che stiamo vedendo non è che una delle infinite e possibili visioni dei fatti accaduti, filtrata dalle esperienze dei vari componenti della famiglia e dal regista stesso, che ha immaginato le vicende con la sua sensibilità artistica e un occhio contemporaneo. Restituire un’immagine compiuta del passato è impossibile, ma è proprio per questo motivo che piccole storie come quella della famiglia Lei sono così importanti e degne di essere raccontate.

Marco Di Pasquale

“FAIRYTALE” DI ALEKSANDR SOKUROV

La sostanziale differenza tra noi e la Storia è che questa non parla, siamo noi a costringerla a farlo. Cosa accadrebbe però se essa ci guardasse in faccia, ci prendesse per mano e iniziasse a parlarci del più e del meno, dei suoi rimpianti e dei suoi sogni irrealizzabili? È ciò che si propone di fare Aleksandr Sokurov con il suo Fairytale: far parlare spontaneamente la Storia, a bassa voce e con un leggero tocco di umorismo.

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Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini e Winston Churchill si ritrovano riuniti nell’aldilà a chiacchierare mentre vagano per una nebbiosa selva oscura in attesa che il guardiano della porta decida se farli entrare in Paradiso. Il contenuto di queste conversazioni? Sbeffeggiarsi reciprocamente cercando ciascuno di far valere i propri ideali politici e sociali, comprendendosi nonostante le lingue diverse. Discorsi che evidenziano la loro dimensione privata cancellando l’aura solitamente attribuita loro dalla funzione pubblica e dalla Storia stessa. La parola viene dunque usata come strumento per conciliare i diversi punti di vista e per cercare di rompere la barriera con il passato e l’immagine cristalizzata che di loro abbiamo. Costruito attraverso filmati d’archivio, senza l’intervento di deep-fake o altri strumenti di intelligenza artificiale, il film chiama in causa il rapporto con il reale, la verosimiglianza, la memoria e la smitizzazione di questi personaggi, obiettivo che non avrebbe potuto certo perseguire ricorrendo ad attori che sostituissero questi volti, corpi e gesti che hanno cambiato la storia. Le voci prestate ai protagonisti sono poi perfettamente rese da un ottimo lip-sync che infonde vita alle sbiadite immagini immerse nella nebbiosa reminiscenza del passato.

Sokurov tenta di dare un senso alle difficoltà che il genere umano sta attraversando oggi facendo un passo indietro e soffermandosi sulle figure che maggiormente hanno plasmato quella realtà che conosciamo, individuati inevitabilmente nei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, evento che più ha eradicato le convinzioni positiviste sul progresso umano. Provare ad empatizzare con figure come Hitler e Stalin è l’arduo compito proposto allo spettatore, che attraverso tale operazione scopre che ogni avvenimento storico, anche il più terribile e malvagio, nasconde al suo interno solo uomini.

Romeo Gjokaj

“SHE SAID” DI MARIA SCHRADER

Il peso insostenibile dell’ambiguità manipolatoria, della colpevolizzazione infondata, dei silenzi complici. Il nuovo lungometraggio di Maria Schrader, fuori concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival, è una denuncia contro Harvey Weinstein che sprigiona il desiderio di gridare di cui le donne sono state tanto a lungo private, riscattando così il diritto alla loro voce.

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Una giovane donna all’alba della propria carriera, con l’animo che pullula di sogni e gli occhi colmi di ingenua speranza, viene travolta da una richiesta tanto inattesa quanto inopportuna proprio quando pensava di partecipare a un incontro di lavoro. “Mi strappò via la mia voce quel giorno, proprio mentre stavo iniziando a trovarla”, rivela Laura Madden, confessando la convinzione che ebbe per anni di essere stata la sola a non aver avuto la forza di opporsi alle molestie dal potente quanto temuto produttore della Miramax. Laura era tutt’altro che sola, ma il suo persecutore è stato per lungo tempo tutelato da un consolidato sistema che proteggeva sistematicamente e scrupolosamente i molestatori. Le giornaliste del “New York Times” Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Zakan) intrapresero un’inchiesta investigativa per portare alla luce le molestie e gli abusi sessuali commessi da Weinstein, che aveva oltrepassato i limiti non solo delle relazioni professionali, ma anche i confini nazionali, compiendo innumerevoli soprusi anche oltreoceano. 

L’équipe di She Said è consapevole di raccontare una storia vera e non lascia spazio alla violenza gratuita, alla quale le donne sono già abbondantemente esposte. L’imponente presenza fisica di Weinstein è restituita dalle testimonianze orali delle donne che descrivono gli episodi nei quali è lui a detenere l’inequivocabile agency di carnefice. Emblematica, al contempo, è invece la sua voce, che sentiamo in voice over, violenta e prepotente quanto i soffocanti accordi che indusse le sue vittime a firmare, privandole “legalmente” della loro dignità. Ripercorriamo, guidati da queste testimonianze, gli spazi da cui avrebbero tanto voluto fuggire, come in un incubo dal quale non era loro concesso di risvegliarsi. Questo film, tuttavia, vuole essere altresì uno spazio sicuro per tutte le donne coinvolte per esprimersi e condividere la propria sofferenza e rabbia. Prime tra tutte Megan e Jodi, che seguiamo ben oltre i processi investigativi e che Maria Schrader ci rivela con grande sensibilità e rispetto. La collaborazione e supervisione delle dirette interessate e la loro concessione a entrare nelle rispettive vite private sono state senz’altro indispensabili per raggiungere l’obiettivo di realizzare un film di forte risonanza e che incoraggi le donne a fidarsi le une delle altre.

Yulia Neproshina

BACK TO LIFE: IL RITORNO DEL POLAR ITALIANO

La sezione Back to life del TFF40 dedicata al restauro cinematografico ha proposto un dittico di particolare interesse sul polar italiano, riportando allo splendore originario due dei suoi rari gioielli. Realizzati a distanza di tempo e con differenti caratteristiche si sono ritrovati accomunati per la fredda accoglienza ricevuta da critica e pubblico al momento della loro uscita in sala per poi assurgere allo stato di cult movies.

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Milano calibro 9 (1972) oggi non rappresenta più solo il vertice della carriera di Fernando Di Leo, ma anche l’unico polar italiano del periodo in grado di reggere il confronto con i decantati polizieschi americani ed europei (tra il 1970 e il 1972 uscirono capolavori come The French Connection di Friedkin, Le Cercle Rouge di Melville e Carter di Hodges). E di perfezione parleremmo se non fosse stato purtroppo per il manicheismo di alcune scene fra il commissario (Wolff) e il suo vice (Pistilli) imbevute di dozzinale retorica socio-politica.

Il restauro presentato dal Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale ha il grande merito di ripristinare le sovrimpressioni delle ore e dei giorni volute dal regista per lo sviluppo ciclico della trama (“Da lunedì a lunedì” era in origine il titolo scelto) e di ridonare il giusto smalto visivo e sonoro alle vicende di Rocco (Adorf), Nelly (Bouchet) e soprattutto di Ugo Piazza (un granitico Moschin) vittima o diabolico artefice di un violentissimo redde rationem nella malavita organizzata milanese (lo si capirà nel finale con una splendida triplice agnizione). La copia digitale esalta la magistrale regia tesa a dettare il ritmo serrato (lo stesso Di Leo, senza modestia, affermava «nessuno, in Europa, a parte Melville, aveva la grinta di taglio americano che avevo io») e la fedeltà della sceneggiatura all’antologia di racconti hard boiled di Scerbanenco da cui è tratto.

Completano il quadro del riconosciuto capostipite del poliziottesco all’italiana l’ambientazione neorealista in cui agisce una galleria di straordinari personaggi pulp (Tarantino per sua ammissione attingerà a piene mani), le incalzanti musiche di Bacalov e degli Osanna e lo strisciante determinismo di fondo.

Bisogna spostarsi invece a Torino trent’anni dopo per l’altro neo-noir sommerso e “maledetto”.

Tre punto sei (2003), esordio e unico lungometraggio del compianto Nicola Rondolino (figlio d’arte del noto critico e storico del cinema Gianni), per una serie di problematiche produttive e distributive ha richiesto un delicato intervento di recupero curato da Cinecittà, Museo Nazionale del Cinema di Torino e Augustus Color, diretto a superare lo scoglio dell’assenza di un negativo originale.

Figura versatile e molto amata nella sua città, prematuramente scomparso nel 2013, Rondolino dimostrò subito in quest’opera prima un talento non comune (furono in pochi ad accorgersene) piegando i cliché del genere in una narrazione mai banale grazie a uno stile contemporaneo composto da vertiginose ellissi, scene d’azione telluriche e pregnanti momenti drammaturgici di scontro fra i vari personaggi. La vivida coerenza dell’immaginario criminale multietnico calato nel quartiere torinese di San Salvario colpisce nel segno evitando le trappole dei più retrivi pregiudizi razziali, mentre è l’intenso Binasco a spiccare nel ruolo del poliziotto corrotto follemente innamorato della donna contesa dal suo miglior amico (un Giallini più cupo che mai) disilluso malavitoso al servizio di un clan della droga sui generis (gustoso l’esperimento citazionista da I Soprano).

Doverosa quindi la riscoperta di Tre punto sei nel quarantennale del festival che vide a lungo Rondolino come selezionatore nutrendo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto dare al nostro cinema.

Davide Troncossi

“RODEO” BY LOLA QUIVORON

Article by: Cristian Cerutti

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

“I think one of the great subjects of the film is Julia’s body […] I was obsessed with the idea that it was her female body that created the narrative” Lola Quivoron

To deny the name we are given at birth is to open the door to an endless series of new possibilities and expectations. This continuous denial and reshaping of identity is what Julia, the protagonist of Rodeo by Lola Quivoron, presented in competition at the 40th edition of the Torino Film Festival, pursues.

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Julia, who grew up in a deprived environment on the outskirts of Paris, finds her chance to escape from herself through her passion for motorbikes and for rodeos, a term that identifies dangerous clandestine events in the world of motorcycling where riders perform stunt-like evolutions. It is precisely at one of these events that the incident from which the story starts occurs: during a rodeo in which Julia participates with one of the many motorbikes she steals during the film, Abra – the only one to have shown any sympathy for the girl – dies in an accident. From this point begins the difficult grieving process that develops in both Julia’s psychic and social dimensions: Abra, who constantly returns in Julia’s dreams after his death, leaves a vacancy in the group of bikers (all male) to which he belonged, the B-More.

Julia then steps into this void by climbing the hierarchies and beginning a classic journey of rise and fall of the protagonist. It is precisely the way Julia climbs the hierarchies of the group that is the most interesting element of Rodeo: in fact, the protagonist introduces herself by denying her previous identity and identifying herself as ‘The Stranger’. This absence of identity allows her to perform different roles and behaviours in the various situations in which she finds herself, assuming different guises and a chameleon-like, undefinable identity. She is thus transformed into an elusive figure, a character who is difficult to pigeonhole both in her behaviour and in her gender affiliation, a figure who continually unsettles the people around her. A key element in these transformations is precisely the protagonist’s body, which constantly modifies itself and changes its outward appearance depending on the situation and the people around it.

This work on the body makes the film a work of flesh, blood, dirt and motors and gives it a fascinating visual dimension that points to an almost physical involvement of the spectator, an almost fashionable dimension in which much space is given to the link between rap music and motors.

“THE PLAINS” DI DAVID EASTEAL

The Plains, primo lungometraggio di David Easteal, è lo sperimentale tentativo di ricostruire, tramite un vero e proprio reenactment, il tempo trascorso dal regista australiano nella macchina di Andrew Rakowski, avvocato sulla cinquantina che torna a casa alla fine della giornata lavorativa nella periferia esterna di Melbourne. Un’opera che sfugge alle definizioni, un cinema del reale radicale, eppure malleabile.

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“IL CORPO DEI GIORNI” DI SANTABELVA

Grazie all’emergenza Covid-19 un ergastolano si trova in una situazione di maggiore libertà se paragonata a quella vissuta da molte altre persone. Ne Il corpo dei giorni, grazie a questo paradosso, si scopre molto di più. Il collettivo Santabelva si trova dunque a incontrare l’ergastolano Mario Tuti, uno dei protagonisti del terrorismo di matrice neofascista degli anni ’70, in una situazione inaspettata. Da questo confronto sorgono interessanti spunti tanto dal punto di vista storico quanto da quello cinematografico.

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“LA LUNGA CORSA” DI ANDREA MAGNANI

L’ostrica che rimane attaccata allo scoglio su cui il caso l’ha fatta nascere vivrà serenamente. L’ostrica che invece si avventurerà verso l’ignoto in cerca di fortuna non potrà che finire inghiottita dall’oceano. È così definito “l’ideale dell’ostrica” che accompagna le vicende dei protagonisti de I Malavoglia di Giovanni Verga e del film La lunga corsa, seconda opera del regista Andrea Magnani e unico lungometraggio italiano in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Giacinto (Adriano Tardiolo) nasce e cresce in carcere, unico ambiente che riconosce come casa nel corso del suo processo di formazione. Abbandonato dai genitori, viene accudito dalla guardia penitenziaria Jack (Giovanni Calcagno), che diventa il suo punto di riferimento. Jack vorrebbe però che Giacinto uscisse e si facesse una vita lontano dalle sbarre e dagli stretti corridoi per i quali il ragazzo si diverte a correre nonostante sia vietato. Lo porta così in una casa-famiglia che risulta però per il bambino una prigione più del carcere stesso. Appena ne ha l’occasione fugge e aggredisce un uomo per essere arrestato e poter tornare “a casa”, ma scopre che i bambini non possono andare in prigione. Ci riprova così il giorno del suo diciottesimo compleanno. Jack capisce che Giacinto non cambierà mai idea e lo fa assumere come guardia nel penitenziario, che diventa così per lui luogo di lavoro, alloggio e svago.

Se Easy – Un viaggio facile facile (2017), opera prima di Magnani, era un classico road movie, qui viene invece presentato un viaggio statico: Giacinto corre per ore ma non si muove mai, rimane all’interno della sua Matrix in miniatura, preferendo la pillola blu a quella rossa (colori tra l’altro ricorrenti nel film). Vuole restare rinchiuso nella sua caverna perché non vede nulla di interessante nel frenetico immobilismo che pervade l’esterno, dove le persone non sembrano far altro che correre senza meta tra autobus che girano in tondo e cantieri fermi da anni.

Jack cerca di far evadere Giacinto da quella che lui vede come una gabbia mentale senza però rendersi conto che è lui stesso il primo dei prigionieri, incatenato a una vita che non lo soddisfa e dalla quale tenta di scappare bevendo la sera. Giacinto non corre per fuggire o per vincere una gara; lui corre per correre, a differenza di quelli come Jack che vorrebbero fuggire ma rimangono immobili nella propria perpetua infelicità.

Romeo Gjokaj

“VIENS JE T’EMMÈNE” DI ALAIN GUIRAUDIE

Nella teoria delle relazioni sociali precostituite, la pratica degli affetti permette di scardinare le certezze su cui l’individuo fonda il rapporto con l’altro. La vita è un tumulto di incontri inaspettati, di desideri effimeri e transitori, di dolorose interferenze esterne e di impedimenti accidentali: l’uomo deve abituarsi alla mutevolezza della vita, rendendo se stesso e i propri desideri incostanti quanto le imprevedibili circostanze della realtà.

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“UNREST” DI CYRIL SCHÄUBLIN

«Dopo il soggiorno di qualche settimana con gli orologiai, le mie opinioni sul socialismo sono state risolte: ero un anarchico.» Con questa frase di Pyotr Kropotkin estratta dalle sue Memorie di un rivoluzionario (1877), il regista Cyril Schäublin decide di iniziare il suo secondo lungometraggio “Unrest” nel quale, ricostruendo gli eventi del 1870, racconta come l’indipendenza del pensiero degli artigiani delle Montagne del Giura abbia acceso la scintilla per la nascita del movimento anarchico internazionale.

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“RODEO” DI LOLA QUIVORON

“Penso che uno dei grandi soggetti del film sia il corpo di Julia […] Ero ossessionata dall’idea che fosse il suo corpo femminile a creare la narrazione” Lola Quivoron

Negare il nome che ci è stato assegnato alla nascita significa aprire le porte a una serie infinita di nuove possibilità e aspettative. Questa negazione e rimodulazione continua dell’identità è ciò che insegue Julia, protagonista di Rodeo di Lola Quivoron, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Julia, cresciuta in un ambiente disagiato nella periferia di Parigi, trova la propria possibilità di fuggire da se stessa attraverso la sua passione per le moto e per i rodeo, termine che identifica nel mondo motociclistico pericolosi eventi clandestini dove i piloti si esibiscono in evoluzioni simili a quelle degli stuntman. È proprio a uno di questi eventi che accade l’incidente da cui parte la vicenda: durante un rodeo a cui Julia partecipa con una delle tante moto che ruba nel corso del film, Abra – l’unico ad aver mostrato simpatia alla ragazza – muore in un incidente. Da questo punto inizia il difficle processo di elaborazione del lutto che si sviluppa sia nella dimensione psichica che sociale di Julia: Abra, che ritorna costantemente nei sogni di Julia dopo la sua morte, lascia un posto vacante all’interno del gruppo di bikers (tutti maschi) cui apparteneva, i B-More.

Julia si inserisce allora in questo vuoto scalandone le gerarchie e iniziando un classico percorso di ascesa e caduta della protagonista. Proprio le modalità con cui Julia scala le gerarchie del gruppo sono l’elemento più interessante di Rodeo: la protagonista si presenta infatti negando la propria identità precedente e identificandosi come “La sconosciuta”. Questa assenza di identità le permette di performare ruoli e comportamenti diversi nelle varie situazioni in cui si trova, assumendo vesti differenti e un’identità camaleontica e non definibile. Si trasforma così in una figura sfuggente, un personaggio difficilmente incasellabile sia nei comportamenti che nell’appartenenza di genere, una figura che spiazza continuamente le persone che le stanno intorno. Elemento chiave di queste trasformazioni è proprio il corpo della protagonista che si modifica continuamente e cambia il suo aspetto esteriore a seconda della situazione e delle persone che lo circondano.

È questo lavoro sul corpo che fa del film un’opera fatta di carne, sangue, sporco e motori e gli conferisce un’affascinante dimensione visiva che punta un coinvolgimento quasi fisico dello spettatore, una dimensione quasi fashion, in cui molto spazio viene dato al legame tra musica rap e motori.

Cristian Cerutti

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” BY LAV DIAZ

Article by: Alessandro Pomati

Translation by: Ana Paula Da Silva Costa

The Philippines, 1973. The Monzon family, one of the country’s most prominent industrial dynasties, is facing a dramatic transition. Their elderly patriarch, Servando Monzon III, is dying from pancreatic cancer and his heir, his grandson Servando VI, is tasked with running the family sugar plantations under Fernando Marcos bloody repressive regime. Their destiny will eventually cross that of a young serial murderer sentenced to death.

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Lav Diaz’s intention seems clear right from the opening credits: to make, as he himself states, a “novel-film” from the family saga of the same name by Filipino author Ricardo Lee.

Presented out of competition at the 79th annual Venice International Film Festival, the film takes up many literary topoi: the high-ranking lineage of the family that is centrepiece of the story, a historical background more or less influencing the choices of the protagonists, a tormented love between members of different classes and family secrets that will be revealed as the narrative goes on. Diaz elaborates all this through a style that has made him popular among film buffs all over the world over: black and white photography, fixed shots, and dilated time frames.

Yet, for the most part, it is the story rather than the way in which it is told that dominates the scene. A tale of ‘Filipino violence’ indeed, focusing on the bloody events in which the Monzons played a role over the centuries, and that do not seem to find an end. Diaz’s direction, although immediately recognisable, is almost invisible as it is put at the service of the story, its linearity, the melodramatic tone of the events embodied by characters and density of happenings.

However, in certain moments – ‘few’, actually, considering its seven hours of duration – the personality of the director emerges in silent, intimate, and nocturnal contemplative moments, poetic, fresh and almost unrelated to the narration, but above all in his attention to the history of his own country, the true protagonist. Through what at first glance would appear to be post-production oversights, such as sudden dips and rises in the audio, out-of-sync, rustling microphones on clothes, Diaz gives substance to the cracks in history letting them creep in amidst the rigorous images. And it is precisely these ‘out-of-tune’ sounds that make of this film an echo of the true lives of those men and women who inspired this tale.

“A TALE OF FILIPINO VIOLENCE” DI LAV DIAZ

Isole Filippine, 1973. I Monzon, una delle dinastie industriali più in vista del Paese, si trova di fronte a un passaggio drammatico: l’anziano patriarca, Servando Monzon III, è in punto di morte a causa di un tumore al pancreas, e il suo erede, il nipote Servando VI, ha il compito di guidare le piantagioni di zucchero di famiglia durante il sanguinoso periodo di repressione vissuto dal Paese sotto la dittatura di Fernando Marcos. Il destino della famiglia finirà con l’incrociarsi con quello di un giovane pluriomicida condannato a morte.

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L’intento di Lav Diaz appare chiaro fin dai titoli di testa: realizzare, come lui stesso sottolinea, un “romanzo-film” a partire dall’omonima opera letteraria della saga familiare firmata dall’autore filippino Ricardo Lee. E. Il film, (presentato fuori concorso alla 79sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia) riprende infatti tutti gli elementi letterari: la stirpe di alto rango al centro del racconto, lo sfondo storico più o meno influente sulle scelte dei protagonisti, l’amore contrastato tra esponenti di classi diverse, i segreti di famiglia che verranno svelati con il procedere della narrazione. Ma Diaz li elabora attraverso lo stile che lo ha reso riconoscibile agli occhi della cinefilia mondiale: fotografia in bianco e nero, inquadrature fisse, tempi dilatati.

Eppure, per buona parte, a farla da padrone è la storia, piuttosto che il modo in cui viene raccontata; una storia di “violenza filippina”, appunto, che si concentra sulle sanguinose vicende di cui si è resa protagonista la famiglia Monzon nel corso dei secoli e che non sembrano trovare un epilogo. In tutto questo, la regia di Diaz, per quanto perfettamente riconoscibile, si configura quasi come invisibile mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, della linearità della narrazione, dei toni melodrammatici delle vicende incarnate dai personaggi, della densità degli avvenimenti.

In alcuni momenti (in verità “pochi” se rapportati alle sette ore di durata), emerge tuttavia la personalità del metteur en scène e il suo respiro: i suoi silenzi, i suoi momenti contemplativi intimi e notturni, poetici, ariosi e quasi estranei alla narrazione; e, soprattutto, l’attenzione per la Storia del suo Paese, la vera protagonista. Attraverso quelle che a prima vista sembrerebbero sviste della post-produzione, come improvvisi abbassamenti e innalzamenti dell’audio, fuori sincrono, fruscii di microfoni sui vestiti, Diaz dà corpo alle crepe della Storia e lascia che si insinuino in mezzo alle immagini rigorose. E sono proprio questi suoni “stonati” a far sentire nel film l’eco della vita vera degli uomini e delle donne che hanno ispirato il racconto.

Alessandro Pomati

“IPERSONNIA” BY ALBERTO MASCIA

Article by: Marco di Pasquale

Translated by: Arianna Deiro

The dystopian narrative, which became popular in 20th century literature and cinema, has always been an effective tool to analyse and discuss contemporary society’s problems and changes. Alberto Mascia, with his movie Ipersonnia, takes the topics which in the past years have generated intense debates in Italy and puts them in a near future. The high crime rate and the severe overcrowding in Italian prisons have pushed politicians towards an extreme solution: turning prison sentences into years of forced sleep.

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David Damiani (Stefano Accorsi) is a psychologist whose job consists in periodically waking up inmates to monitor their mental health. The forced sleep takes a toll especially on the convicts’ brain, as they find it hard to distinguish dream from reality. Ipersonnia is based on such dichotomy and the movie’s atmosphere draws inspiration from films such as eXistenz (Cronenberg – 1999) or Memento (Nolan – 2000). The dreamlike element directly correlates to psychoanalysis and its immoral use combined with technology. Due to a brainwave inhibitor, the inmate is vulnerable while the psychologist can insert all kind of ideas in his mind, even potentially convincing him of being guilty of crimes he did not commit. Therefore, Ipersonnia presents a new and interesting interpretation of the “transplants” of ideas carried out by the protagonists of Inception (Nolan – 2010). While in Nolan’s movie the manipulation only took place in the dreamlike worlds created by people’s minds, in Ipersonnia the process happens while they are awake, through psychanalysis. Technological advance, combined with psychotherapy, allows for the destruction of all the barriers of the unconscious and sleep simply becomes a moment of stasis and imprisonment. Despite all the thematical and narrative suggestions, the style of the director remains inert, in function of a simpler understanding of the events of the film.

Prison overcrowding, justice and its problematic implementation are important issues of our society that are hinted at by the film, but are relegated to the background. The narrative turns mostly to conspiracy theories and to the deterioration of the power which is trying to take control of the citizen’s minds. Ipersonnia is part of the recent attempt by Italian productions to make the public interested in genre film once again. Such attempt is perhaps lacklustre in its comparison with dystopia, which would require a critical and in-depth analysis of such current and relevant issues, both in its content and in its form.

“IPERSONNIA” DI ALBERTO MASCIA

La narrazione distopica, affermatasi nella letteratura e nel cinema del Novecento, è da sempre un efficace strumento di analisi e discussione dei problemi e dei cambiamenti della società contemporanea. Alberto Mascia con il suo film Ipersonnia, sposta in un futuro prossimo argomenti che negli ultimi anni hanno generato intensi dibattiti nel nostro Paese. L’alto tasso di criminalità e il grave sovraffollamento delle carceri italiane hanno spinto la classe politica verso una soluzione estrema: trasformare la pena detentiva in anni di sonno forzato.

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David Damiani (Stefano Accorsi), è uno psicologo che si occupa del risveglio periodico dei detenuti per monitorarne la salute mentale. I condannati subiscono gli effetti del sonno artificiale principalmente a livello cerebrale, facendo fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Su questa dicotomia si basa Ipersonnia, con atmosfere debitrici di film come eXistenz (Cronenberg – 1999) o Memento (Nolan – 2000). L’elemento onirico si lega direttamente alla psicanalisi e al suo uso immorale unito con la tecnologia. Attraverso un inibitore di onde cerebrali il detenuto rimane vulnerabile mentre lo psicoterapeuta può immettere nella sua mente ogni tipo di idea fino a convincerlo della colpevolezza di crimini non commessi. Ipersonnia propone quindi un’interessante rivisitazione degli “innesti” di idee effettuati dai protagonisti di Inception (Nolan – 2010). Se in quest’ultimo film la manipolazione si compiva interamente nei mondi onirici creati dalla mente, in Ipersonnia tutto questo avviene da svegli, attraverso la psicanalisi. Il progresso tecnologico combinato con la psicoterapia distrugge ogni barriera dell’inconscio e il sonno diventa un mero momento di stasi e di prigionia. Di fronte a queste suggestioni tematiche e narrative lo stile registico rimane tuttavia inerte, in funzione della semplice comprensione degli eventi del film.

Il sovraffollamento delle carceri, la giustizia e la sua problematica applicazione sono questioni importanti della nostra società che la pellicola accenna sommariamente, relegandole sullo sfondo. La narrazione vira piuttosto sul complottismo e sulla degenerazione del potere che cerca di prendere il controllo delle menti dei cittadini. Ipersonnia si inserisce nel recente tentativo della produzione italiana di riavvicinare il pubblico al cinema di genere, tentativo che risulta forse mancato proprio nel confronto con la distopia, che richiederebbe una visione critica e approfondita di questioni attuali così rilevanti, sia nella forma che nel contenuto filmico.

“FALCON LAKE” BY CHARLOTTE LE BON

Article by: Marta Faggi

Translated by: Sara Borraccino

On the shore of their lake, Chloé (Sara Montpetit) asks Bastien (Joseph Engel) what his greatest fear is: the boy smiles with a shrug and replies that it is masturbating in front of mom and dad. In tears Chloé confesses then her own: “I think my greatest fear is to be lonely all my life.”

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Charlotte Le Bon, in her directorial debut, plumbs the age of adolescence by telling the story of a summer interlude at the lake. To do so, she draws heavily from the graphic novel Una Sorella (Bao Publishing, 2018) by french author Bastien Vivès, in which we find a recollection of all the ambivalences of the early youthful desires. Falcon Lake focuses on the mutual attraction between the two main characters. Chloé is a 16-year-old girl who tries so hard to act like an adult even when she’d rather press pause on everything. It might be this nature of hers that drives her to seek out Bastien, who’s two years younger than her and is openly inexperienced and subjugated by the charm of her ostentatious and constructed confidence. The two kids are immortalized in their purest naiveté as they awkwardly discover each other’s bodies. In the background, the actual adults, the parents. In Una Sorella, Vivès never depicts their faces, because that story is not theirs. And Le Bon reproposes this choice in her own language, the language of film: the parents are relegated off-screen, the faces unseen, with only their voice as a testament of presence.

In the last act, Le Bon, also the author of the screenplay, detaches her work from the one her feature film is based on. The ending she chose for the male protagonist is symbolic of the core of adolescence itself, an age spent on the edge between life and death. “There are ghosts who do not know they are dead,” and it is these ghosts, with their desires, who make up our youth. The two kids live their experiences in an absolute and fatalistic way, without the emotional processing typical of those who have already gone through adolescence and emerged unscathed.

Falcon Lake does not stray very far from coming-of-age narrative clichés. Despite that, the director creates a space of rigorous representation in which the anxieties and discoveries of adolescence alternate, within which the viewer can find themselves and their own experience.

“COMA” DI BERTRAND BONELLO

“Cara Anna, non è la prima volta che mi rivolgo a te in questo modo”. È con queste parole che inizia l’ultimo film di Bertrand Bonello, una lettera aperta piena di amore e sensibilità rivolta alla figlia adolescente. Il regista aveva già cercato di comunicare con la ragazza attraverso il suo cinema con Nocturama (2016), di cui compaiono alcune immagini all’inizio del film in un montaggio così confuso da trasformarne i fotogrammi in pura astrazione. Se lo sforzo di entrare in contatto con la figlia non era allora riuscito dato che lei non ha visto il film, Bonello ci riprova, realizzando un’opera più intima, personale e al contempo universale che si rivolge alla figlia ma anche alle nuove generazioni.

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“COMA” BY BERTRAND BONELLO

Article by: Fabio Bertolotto

Translated by: Laura Todeschini

‘Dear Anna, this is not the first time I have addressed you in this way’. It is with these words that Bertrand Bonello’s latest film begins. Words which pave the way to an open letter full of love and sensitivity addressed to his teenage daughter. The director had already tried to communicate with the girl through the cinema with Nocturama (2016). Some images of this film appear at the beginning of Coma in a confused montage that turns the frames into pure abstraction. The previous effort to get in touch with his daughter had been unsuccessful, since she had not seen the film. For this reason, Bonello tries again, making a more intimate, personal and, at the same time, universal work that addresses his daughter and also new generations.

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“FALCON LAKE” DI CHARLOTTE LE BON

Sono sulla riva del loro lago, quando Chloé (Sara Montpetit) chiede a Bastien (Joseph Engel) quale sia la sua più grande paura: il ragazzo sorride, scrolla le spalle e risponde che è masturbarsi di fronte a mamma e papà. Quando Chloé si confessa a sua volta, sta piangendo: «Credo che la mia più grande paura sia di sentirmi sola tutta la vita».

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Charlotte Le Bon, al suo esordio alla regia, scandaglia l’adolescenza mostrandola durante una parentesi estiva al lago. Per farlo, attinge a piene mani dalla graphic novel Una sorella (Bao Publishing, 2018) del francese Bastien Vivès, in cui vengono trattate le ambivalenze del desiderio giovanile al suo nascere. Falcon Lake si concentra sull’attrazione reciproca tra i due protagonisti. Lei, Chloé, è una sedicenne che si sforza di comportarsi da adulta anche quando vorrebbe solo darsi il tempo di cui ha bisogno. È forse proprio questo che la spinge a ricercare Bastien, di due anni più giovane di lei, apertamente inesperto e soggiogato dal fascino della ostentata e costruita sicurezza di lei. I due ragazzi sono immortalati nella loro più pura ingenuità, mentre scoprono, impacciati, uno il corpo dell’altra. Sullo sfondo del loro rapporto ci sono gli adulti veri e propri, i genitori. In Una sorella, Vivès non disegna mai i volti, perché quella non è la loro storia. Le Bon ripropone questa scelta nel suo linguaggio, quello cinematografico: i genitori sono relegati fuori campo, i visi non si vedono e rimangono soltanto le voci.

Nel finale, Le Bon, anche autrice della sceneggiatura, si discosta dall’opera su cui è basato il suo lungometraggio. La conclusione che ha scelto per il protagonista maschile è l’emblema dell’adolescenza in sé, rappresentata come un periodo della vita al confine tra la vita e la morte. «Ci sono fantasmi che non sanno di essere morti» e sono questi fantasmi, con i loro desideri, a popolare la giovinezza. I protagonisti vivono le loro esperienze in maniera assoluta e fatalista, senza l’elaborazione emotiva tipica di chi l’adolescenza l’ha già superata e ne è uscito indenne.

Falcon Lake non si allontana molto dai cliché narrativi del coming of age. Nonostante questo limite, la regista crea uno spazio di rigorosa rappresentazione in cui si alternano inquietudini e scoperte dell’adolescenza, dentro le quali lo spettatore può ritrovare se stesso e il proprio vissuto.

Marta Faggi